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giovedì 1 ottobre 2009

Tra moschee e tappeti...

KAIROUAN - “Massalama” è il saluto che mi rivolge un tipo tenebroso, un po’ accigliato, seduto su una cassetta della frutta in place des martyrs. Incrocio il suo sguardo, annuisco e ricambio la formalità.



Sono arrivato in città da pochi minuti, abbastanza per rendermi conto che il via vai brulicante di Sousse è ormai lontano. Se non fisicamente, appena cinquanta kilometri, almeno a livello percettivo. Diversi gli odori, i rumori, gli umori. Sono lontane le sue spiagge affollate, le gru del porto che scaricano e caricano container arrugginiti, i mercati colorati, gremiti di turisti rapiti dalla fragranza delle spezie esposte in grossi sacchi di iuta. I ritmi incalzanti della città operosa, della città globalizzata, non sembrano aver raggiunto questo avamposto della tranquillità. Sono le tre e in giro non c’è anima viva, a parte il tizio che mi ha appena salutato e un vecchio che si trascina dietro un asino svogliato, carico di stoffe.

Kairouan sorge in una distesa piatta e arida, nella parte centro-settentrionale del Paese. Non c’è vegetazione a proteggere la città dai venti, prepotenti e spinosi. Mediterranei. Ad occidente, sulla linea dell’orizzonte, si intravedono le colline steppose di Zama Regia. Fu sotto quelle alture brulle che Annibale dovette arrendersi a Scipione, oltre duemila e duecento anni fa. In quello stesso luogo Spielberg ha voluto girare alcune scene del suo Indiana Jones.


Non ho mai assaporato il gusto della quiete e del silenzio come in questo posto. In nessun’altra città almeno. La spiritualità che aleggia tra le vie della medina mi riempie, un respiro dopo l’altro. Le piccole moschee si nascondono tra le case basse, prima bianche candide e poi di un indaco leggero. I portoni antichi e le piccole finestre che si affacciano nei vicoli sembrano ricamate con l’azzurro del cielo.

Cammino lento, cerco con lo sguardo le tracce degli abitanti che popolavano queste strade nei secoli passati. Mi scopro visionario. Cerco gli antichi viandanti, le carovane di beduini, i mercanti, ma intorno a me c’è solo silenzio. Le strade sono deserte. Non ci sono bambini che giocano a pallone, non si sentono le loro grida. Non c’è neanche l’immondizia, solitamente ammucchiata agli angoli delle vie. Un sole africano si nasconde dietro ad un esercito di nuvole basse, che avanza piano piano da oriente, schierato in un campo di battaglia terso ed infinito.

Le alte mura, che ancora custodiscono gelosamente il fascino di una medina millenaria, mi riportano alle lezioni di storia dell’islam, seduto sui banchi dell’Università. Le parole della professoressa Baldinetti, profonda conoscitrice del contesto mediterraneo, sembrano riemergere, a tratti, dai fumi dell’oblio.  Kairouan venne fondata da Uqba Ibn Nafi, verso la fine del settimo secolo dopo Cristo. Al tempo, l’espansione araba in terra d’Africa avanzava a ritmo serrato. Il condottiero stabilì il suo accampamento in questa vasta pianura, circondata da ampi acquitrini salmastri e sufficientemente lontana dalla costa, dove permaneva il pericolo delle incursioni bizantine. Il perimetro trapezoidale della cinta muraria non da adito ad equivoci. Una fortificazione militare. Ecco il perché degli alti bastioni che ancora catturano, già in lontananza, l’attenzione del viaggiatore in fuga dall’affollamento soffocante del Sahel.

Uqba, potendo contare in un avamposto ben fortificato e protetto, e sul continuo arrivo di carovanieri dalla penisola araba, attirò i berberi nelle distese pianeggianti che circondano la città, costringendoli ad abbandonare le montagne ad ovest, dove si erano arroccati, e a confrontarsi in campo aperto. Lontani dalle gole e dalle pareti scoscese della Grande Dorsale, in un territorio poco congeniale per affrontare un esercito numeroso come quello arabo, i montanari numidi furono sbaragliati facilmente. Kairouan divenne così la prima città musulmana dell’intero Maghreb, la capitale dell’Ifriqiya, da cui gli Omayyadi, in pochi anni, riuscirono a completare la conquista di tutto il Nord Africa.

L’importanza di questo centro, tuttavia, non fu solo strategica e militare. Kairouan resta uno dei luoghi di riferimento dell’intera Umma islamica. La quarta città santa, dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme. Decine di moschee accolgono i pellegrini in viaggio da tutto il Mediterraneo. I suoi marabut costituiscono un approdo sicuro per i mistici e i sufi, che qui non temono il rigore e la repressione dell’ortodossia.

La più nota è senza dubbio Jamaa Sidi Uqba, che riposa solenne nell’angolo nord-orientale della città, a ridosso delle mura. Ci sono arrivato dopo vari tentativi, falliti, nelle viuzze labirintiche della medina. Ma da bravo Teseo, eccomi qui di fronte al mio minotauro. La Grande Moschea. Il più antico luogo di culto musulmano eretto oltre il Nilo. Venne costruito assieme alla città alla fine del VII secolo. Le dimensioni lo rendono imponente e le pareti, sobrie e massicce, gli conferiscono un aspetto severo. Il minareto, con i suoi 33 metri di altezza, protende il suo sguardo fiero verso il Golfo di Hammamet, poi ancora oltre, verso la penisola di Cap Bon, il Canale di Sicilia e perché no, verso le coste della Sicilia stessa. Fu infatti proprio da Kairouan che l’esercito saraceno partì alla conquista di Palermo nell’827 d. C.

Lascio la Grande Moschea alle spalle e mi incammino in rue de la kasbah. Una volta in place de Tunis sono ormai fuori dalla medina. La quiete è sopraffatta, per la prima volta, dai rumori di una città che dimostra così di essere ancora viva. Le illusioni se ne vanno e all’improvviso scopro un’altra Kairouan. Non troppo diversa da Bab Saadoun, il quartiere dove vivo a Tunisi. Colpi di clacson ripetuti e insistenti, tassisti spazientiti, caffetterie che diffondono a tutto volume le note di Ashraf, idolo del pop locale. Poi ancora voci, schiamazzi, venditori che gridano, cercando di catturare l’interesse dei passanti sulle camicie di seconda mano in offerta per un solo dinaro. Ma soprattutto loro, gli abitanti della città, finalmente in carne ed ossa. Se ne stanno seduti nelle verande dei bar. Fumano chicha e sorseggiano caffè au lait, mentre osservano un traffico all’apparenza immobile, come le ore delle loro giornate che si susseguono tutte uguali.

Dopo aver percorso l’ennesimo groviglio di strade, questa volta invase dai rifiuti e popolate da gatti scheletrici, arrivo alla Moschea del Barbiere, detta anche Zaouia Sidi Sahabi. Nel mausoleo sono custodite le spoglie di Abou Dhama el-Balaoui, compagno del Profeta Muhammad fin dal tempo della cacciata dalla Mecca. Migliaia di fedeli da tutto il Paese raggiungono il santuario per pregare di fronte alla preziosa reliquia che El-Balaoui portò con sé dalla lontana Arabia: tre peli della barba del Profeta. Per questo ancora oggi viene ricordata con quel nome buffo, la Moschea del Barbiere. E’ qui che si celebrano le feste principali del calendario musulmano, il Moulud (la nascita del Profeta) e l’Aid Kabir (la festa del Sacrificio), e sempre qui, dietro alla meravigliosa porta rivestita di marmo policromo, si svolge due volte l’anno la cerimonia collettiva della circoncisione.

Continuo la mia promenade. Abbandono il traffico disordinato e caotico dei quartieri periferici, il vociferare dei mercati e rientro nella città vecchia. Di nuovo silenzio. L’atmosfera mistica della città mi riporta ancora una volta indietro nel tempo, lontano secoli e secoli. Mi ritrovo a percorrere una via strettissima, nel cuore della medina, in cerca di altri “tesori”, quando la mia attenzione viene catturata da un’ombra. Uno spirito. Un fantasma. No, nascosta sotto un lungo velo bianco, una donna si avvicina con andatura frettolosa. I contorni della sua figura si confondono con le pareti candide delle case. Distante ormai solo pochi metri, raccoglie rapida il foulard sul viso e con una mano lo fissa stretto tra i denti. Ci sfioriamo, ma il suo sguardo sembra ignorarmi completamente. Come se non esistessi.

In fondo alla strada, di nuovo assolata e solitaria, c’è la Moschea delle Tre Porte. Un gioiello. La facciata di pietra gialla è rifinita con precisione. Sopra i tre ingressi, che danno il nome alla moschea, strane parole in caratteri arabi si ricorrono intagliate nella parete. Faccio fatica a riconoscerle, a capirne il senso. La grafia è complessa, ricercata e ornata all’eccesso, come nel Corano. Il Corano, già, ecco la risposta. Provo ancora una volta, partendo dalla prima riga in alto a destra. Una “ba”, una “sin”, una “lam”…. ma certo! Bismi-llah al-Rahmani al-Rahim, “in nome di Allah il Compassionevole e il Misericordioso”. Il verso con cui si aprono le sure del Libro Sacro.

Mentre cerco di andare avanti nel tentativo di decifrare il resto dell’iscrizione, vengo distratto da una risata divertita alle mie spalle. Un bambino fa capolino da un portone e subito scompare. L’uscio resta aperto, così faccio un passo e mi sporgo verso l’interno. “Salam-aleikum”, un uomo sulla quarantina, chino nel telaio che occupa metà della stanza, mi dà il benvenuto. Nonostante l’intrusione improvvisa ricevo subito un’accoglienza calorosa. Dopo i saluti e le presentazioni iniziamo a chiacchierare. Il mio interlocutore sembra ben disposto, così do sfogo alla mia curiosità e lo sommergo di domande.
Mounir è un artigiano tessile, come la maggior parte della gente qui a Kairaouan. Il bambino che mi ha attirato dentro il laboratorio è suo figlio Aslan. O forse dovrei dire in casa, dato che l’altro vano, a cui si accede da una porticina buia, funge da cucina e dormitorio. Nascosta dietro a cataste di tappeti c’è anche la moglie Salwa. Sta scegliendo le lane destinate al prossimo zarbia. Mentre Mounir lavora al telaio, dedicandosi alla tessitura dei foulard, Salwa sistema i gomitoli, seleziona i colori dei fili e, rannicchiata per terra, inizia ad intrecciare la lana.
La lavorazione dei tappeti è un altro vanto della città fin dal tempo della dinastia Aghlabide (X secolo d. C., più o meno). L’attività è riservata principalmente alle donne, più precise e veloci grazie alle dita sottili. Confezionano i loro prodotti in casa o in piccoli laboratori, proprio come nel caso di Salwa. Mounir mi informa che sono oltre diecimila le famiglie occupate in questo settore, tra Kairouan ed i villaggi vicini. “Se scendi ancora un po’ verso sud, invece, trovi le cooperative berbere, nella zona di Gabes, Gafsa e Douz”, continua l’artigiano. “I loro tappeti però sono diversi. Qui le donne li intrecciano a mano, mentre loro li lavorano a telaio”. Tutta questa storia mi incuriosisce, ne voglio sapere di più. Propongo a Mounir una pausa in un caffè vicino, ma lui rifiuta con cortesia. Ha ancora tanto lavoro da finire in giornata. In cambio mi fa accomodare in uno sgabello dietro agli zarbia arrotolati, appoggiati alla parete, e mi offre un tè bollente. Il profumo della menta allontana il cattivo odore dell’aria un po’ ammuffita, imprigionata da troppo tempo nello stanzino. Anche il gusto amaro della polvere, graffiante, viene sconfitto dal principe dei sapori mediterranei (il re resta il basilico).

“Dietro alla città-monumento, fuori dalle mura e dalla storia gloriosa, c’è una realtà sociale esplosiva” -  mi confida Mounir - “solo la morsa del regime, fatta di controllo e paura, mette tutto a tacere”. Almeno per ora, penso tra me e me. Conosco il contesto politico del Paese, la facciata democratica di cui si fregia la dittatura. Il silenzio dei cittadini impauriti non è una novità. Per questo colgo al volo l’apertura di Mounir, la sua voglia di parlare, di far sapere. Seduto al suo fianco sorseggio il tè, ormai tiepido, con molta calma, alla maghrebina. E ascolto.

“Le zone interne del Paese non hanno i vantaggi delle città sulla costa. I turisti qui arrivano con gli autobus dei tour operators, si fermano un’ora di fronte alla Grande Moschea e ripartono veloci verso i villaggi vacanze del Sahel”. Non si fanno grossi affari con gli stranieri. Anche il turismo religioso, numeroso soprattutto durante il Mouloud e l’Aid Kabir, non porta grandi guadagni. I pellegrini vengono qui per pregare, per chiudersi in un raccoglimento mistico, non certo per fare acquisti al suk. Gli chiedo quanto incide la lavorazione dei tappeti nell’economia della regione. Mounir è categorico: “l’artigianato, pur riuscendo a dar da mangiare a migliaia di famiglie, da solo non basta”. Serve dell’altro, oltre alle moschee e agli zarbia, per garantire un progetto di sviluppo ad ampio respiro. Sostegno all’istruzione e incentivi alla diversificazione dei prodotti locali, per esempio. A Kairouan non ci sono industrie e l’agricoltura è una battaglia persa in anticipo: il clima troppo arido e il terreno non è fertile. “Nessuno ne parla – prosegue - ma la disoccupazione ci sta mettendo in ginocchio. I più giovani non pensano ad altro che partire, lasciare questo posto, che riserva loro ben poche aspettative”.

Finisco il mio bicchiere e lascio scivolare le foglie di menta sotto la lingua. Mentre ne assaporo tutto il gusto, avido, mi concentro sulle parole dell’artigiano. Comincia a parlare di suo cugino Sami, rimasto clandestino in Italia per quasi un anno, e la sua voce si vela di tristezza. Quella di Sami è una storia fatta di viaggi e speranze, in balia di un destino capriccioso. A trent’anni, stanco di sudare ogni giorno nel laboratorio del padre per pochi dinari, ha deciso di andarsene in Italia. Ha messo da parte un po’ di soldi, dedicandosi al contrabbando per qualche mese, ed ha elaborato un piano per aggirare la rete dei passeurs, evitando così di incappare nella furia del Canale di Sicilia.

Ha passato la frontiera libica legalmente, poi si è imbarcato verso Istanbul, nascosto in una nave da carico. Ad attenderlo in Turchia c’erano degli amici, che in pochi giorni gli hanno procurato un nuovo passaporto. Bulgaro. Ovviamente falso. E’ rientrato in Libia con lo stesso cargo, e una volta lì ha tentato il gran colpo. Si è presentato all’aeroporto di Tripoli, forte della sua nuova identità, con un biglietto aereo per Malta. La polizia libica non ha fatto problemi. Così, raggiunta l’isola, si è unito alle decine di turisti che erano in fila ad aspettare il traghetto di ritorno a Siracusa. Poche ore di nave e una volta in Sicilia nessun controllo. Da non credere. Una bella fortuna. Alla faccia di Frontex e dei miliardi spesi per il pattugliamento delle coste mediterranee. Non ha dovuto nemmeno esibire il passaporto falso. Le porte dello stivale erano incredibilmente aperte ed è entrato senza bisogno di chiedere il permesso. Nelle sue condizioni avrei fatto lo stesso.

Prima tappa Napoli. Un paio di mesi con la speranza di trovare lavoro, senza particolare successo. Poi Roma, finalmente un impiego. In un call center, ma in nero. Del resto sul passaporto non c’erano timbri d’ingresso, era clandestino, e i tempi delle sanatorie solo un lontano ricordo. Niente più che una vana speranza. “Ha lavorato in quel call center sei/sette mesi” – conclude Mounir – “lo conoscevano tutti là dentro. Anche in città si era fatto degli amici. Poi un giorno la polizia lo ferma e lo identifica. E’ stato espulso e una volta rientrato in Tunisia si è fatto tre mesi di carcere, colpevole di emigrazione clandestina”. Dal 2004 la legge tunisina punisce severamente ogni tentativo di “bruciare la frontiera”, come si dice qua, riuscito o meno. Questo dopo gli accordi in materia di sicurezza e lotta alla criminalità conclusi dal governo italiano con il signor Ben Ali.

Adesso Sami ha una bancarella di souvenirs vicino alla Grande Moschea. I soldi guadagnati al call center sono rimasti in Italia. Come i colleghi e gli amici. Lui guarda passare i pochi turisti che gironzolano sotto il minareto, appoggiato ad uno dei contrafforti della struttura. I suoi occhi sono lì, inchiodati a quella mandria rumorosa, ma la mente è altrove. Non ha rinunciato al suo sogno. Neanche la prigione è riuscita a convincerlo. Ci riproverà, Mounir ne è sicuro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

sei veramente bravo, misceli con sapienza storia, cultura e impegno civile. Complimenti!
Pur visitando il tuo blog, questo mi era sfuggito.
Un castellano fantasma.