“La detenzione preventiva non deve essere un pretesto per trattenere illimitatamente in carcere gli oppositori. Il tempo per le indagini è stato ampiamente superato, ora i detenuti devono essere liberati o accusati formalmente davanti ad un tribunale”. Questo è l’avviso rilasciato da Khadija Ryadi, presidente dell’Associazione marocchina per i diritti umani pochi giorni fa, in merito alla vicenda del “gruppo Tamek”, conosciuto anche come il “gruppo dei sette”. Dopo oltre sei mesi di detenzione, senza accuse formali né processi a loro carico, e uno sciopero della fame durato quarantuno giorni, sembra che i sei attivisti saharawi in carcere a Salé (il settimo elemento del gruppo era stato liberato lo scorso febbraio) siano ormai sul punto di lasciare le loro celle. La protesta, sostenuta da una pressione internazionale crescente (agli appelli delle Ong per i diritti umani si era unita anche la “preoccupazione” del Segretario Generale ONU Ban Ki Moon), ha spinto le autorità marocchine a tornare sui propri passi e ad avviare il dialogo. Stando alle dichiarazioni filtrate dalla prigione di Salé, il “gruppo Tamek” avrebbe raggiunto un accordo con il governo di Rabat, pronto a tutto pur di non ripetere il naufragio mediatico e diplomatico a cui portò la gestione miope, rivelatasi alla fine disastrosa, della vicenda Aminatou Haidar.
(Articolo pubblicato da El Peridico de Catalunya, 27 aprile 2010)
I detenuti di Salé hanno trovato un accordo con le autorità marocchine per una pronta liberazione
I sei prigionieri saharawi finiti in arresto nell’ottobre 2009 al rientro dai campi di rifugiati di Tindouf (Algeria) hanno interrotto lo sciopero della fame alle diciannove di martedì 27 aprile dopo aver raggiunto un accordo con le autorità marocchine. “Hanno promesso di risolvere il nostro caso. Ci hanno assicurato che nei prossimi giorni già potremo beneficiare di una libertà condizionata, anche se ancora non sono chiari tutti i dettagli del caso”, assicura al Periodico de Catalunya Brahim Dahan, dalla prigione di Salé. “Sappiamo che le autorità non possiedono alcuna accusa fondata contro di noi e per questo stanno cercando di uscire dall’impasse”, aggiunge poi lo stesso Dahan. Cinque dei sei attivisti ancora in carcere hanno compiuto oggi il quarantunesimo giorno di sciopero della fame, mentre il sesto aveva sospeso la protesta tre settimane fa.
Due funzionari del Ministero dell’Interno si sono recati questa mattina al penitenziario per concludere le trattative direttamente con il “gruppo dei sette”. Ali Salem Tamek, Brahim Dahane, Ahmed Naciri, Yahdih Ettarouzzi, Rachi Sghayer e Sale Lebaihi lasceranno le rispettive celle al massimo tra due settimane, “sebbene non si tratterà di una piena libertà”, confermano fonti vicine ai detenuti. L’unica donna arrestata l’8 ottobre scorso, Dejga Lachgar, era già tornata in libertà circa due mesi fa per gravi problemi di salute.
La gioia delle famiglie
Nel piccolo appartamento di Salé, dove le famiglie dei detenuti si sono installate da oltre sei mesi per assistere da vicino i propri cari, si vivono momenti di euforia al diffondersi della notizia. “Dopo così tanti giorni senza mangiare ci aspettavamo il peggio, eravamo pronti alla tragedia”, commenta Khalifa Rguibi, la moglie di Tamek. Khalifa, il volto sereno e lo sguardo pieno di soddisfazione, si dice “incredibilmente felice”. E’ sicura che presto potrà rivedere il proprio marito lontano dalle sbarre della prigione. Uscendo di casa non riesce a nascondere un sorriso. In mano una pentola di zuppa, che ha appena preparato per i sei detenuti. “Il primo pasto dopo tanto tempo senza toccare cibo deve essere leggero”, confessa prima di sparire dietro al portone.
Uscendo di casa non riesce a nascondere un sorriso. In mano una pentola di zuppa, che ha appena preparato per i sei detenuti.
Stando al parere dei familiari, sul “gruppo dei sette” non peserebbe più l’accusa di alto tradimento, che avrebbe potuto condurre i detenuti di fronte ad un tribunale militare e, se riconosciuti colpevoli, alla pena di morte. “Dopo questo accordo il pericolo di una corte militare può dirsi scongiurato”, commenta un attivista saharawi, portavoce dei sei ancora in carcere, secondo cui il dialogo instaurato con lo Stato marocchino “è molto positivo, poiché riconosce il peso assunto dalla battaglia dei nostri confratelli”. “Certo la pressione internazionale ha contribuito in modo determinante al raggiungimento di questo accordo – aggiunge poi la fonte – dato che le autorità avevano espressamente rinunciato al dialogo fin dall’inizio della vicenda”. La protesta degli attivisti saharawi in carcere a Salé, sfociata nella sciopero della fame avviato lo scorso 18 marzo, aveva l’obiettivo di denunciare una detenzione ritenuta illegale. Oggi, dopo oltre sei mesi trascorsi in carcere, contro il “gruppo Tamek” non è stato ancora intentato nessun processo.
Beatriz Mesa
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