Una volta superato il ponticello di ferro che collega le due rive, il treno costeggia le mura gialle e ben conservate della medina, prima di raggiungere la gare. Sono due le ragioni che mi hanno spinto fin qui, a Salé, una delle città più affascinanti e meno conosciute del Marocco. La prima, Abdellah Taia. La seconda, Pier Paolo Pasolini. Il giovane scrittore marocchino, nato e cresciuto proprio a Salé (oggi vive a Parigi), descrive con parole cariche di affetto i ricordi che ancora lo legano alla sua terra. Nei suoi racconti dà voce alla miseria di Hay Salam, il quartiere popolare dove ha conosciuto la durezza della vita, e accenna ai misteri e alle leggende che ancora avvolgono la medina. E poi c’è Pasolini. Nel 1966 l’intellettuale friulano aveva trascorso alcuni mesi in Marocco, per cercare l’ambientazione adatta al suo Edipo re. Catturato dal sapore autentico profuso dalla città, Pasolini era tornato a Salé un anno prima di morire. Un vero colpo di fulmine. Lo stesso Taia, rapito dalla grandezza della sua opera, racconta che Pasolini aveva scelto questo posto come soggetto e ambientazione per un nuovo film, e che qui aveva deciso di convertirsi all’islam. Non so quanto ci sia di vero in tutto questo. Forse sono solo voci, solo fantasie, sufficienti tuttavia a stuzzicare la mia curiosità e convincermi a lasciare la squallida periferia di Casablanca, dove mi trovo intrappolato ormai da qualche mese. Sono pronto ad inseguire le tracce dei due letterati.
Mi lascio la stazione alle spalle e mi dirigo verso le vecchie mura che ancora circondano il centro della città. Risalgono all’epoca della dinastia merinide, più o meno la seconda metà del XIII secolo, quando Salé acquisì importanza sul piano commerciale ed il suo porto, di cui oggi è rimasto ben poco, divenne uno scalo irrinunciabile per gli Europei che si avventuravano nella costa atlantica. La calce che riveste i bastioni, un tempo bianca e lucente, è ormai gialla e sporca, deturpata dagli scarichi del traffico cittadino. Supero Bab Fes e muovo i primi passi all’interno della medina. Di colpo mi ritrovo immerso tra i vicoli stretti e chiassosi del mellah, il quartiere ebraico, almeno storicamente. Quasi tutti gli ebrei del Paese, infatti, hanno lasciato il Marocco dopo la Guerra dei sei giorni. Sono le undici del mattino e nel mellah è l’ora del mercato, dei traffici e degli affari. Un formicaio di volti, merci e colori a cui non sono preparato. Ho in testa le storie di Taia. I suoi racconti rievocano la presenza dei corsari, che resero celebre e temuta la città per oltre tre secoli, fino all’arrivo dei colonizzatori francesi. Si soffermano sui “santi”, le confraternite sufi e i marabut, che vegliano numerosi a protezione degli abitanti del luogo, gli Slaoui. E’ questo che mi interessa adesso. Non è ancora il momento di abbandonarsi all’allegria del suk e di perdersi in contrattazioni infinite. La ricerca è appena cominciata e, per quanto astratta e immaginaria, sono deciso ha proseguire nel mio intento senza concedermi distrazioni. Così, supero velocemente le strade affollate del mellah e punto dritto verso la Grande moschea, il cuore spirituale della città. E’ lì che troverò i miei tesori. O almeno credo. La Grande Moschea si trova dall’altra parte della medina e, per arrivarci, bisogna oltrepassare decine di strade e stradine, che al mio occhio inesperto sembrano tutte inesorabilmente identiche. Perdo ben presto l’orientamento. Provo ad imboccare qualche via a caso, nella speranza di imbattermi in un monumento noto che possa servirmi da riferimento, o di ritornare al punto di partenza. Senza successo.
Sono ancora perso in riflessioni e congetture quando un ragazzo magro e mal vestito si avvicina proponendomi il suo aiuto. Si chiama Abdelillah e fa la “guida clandestina”. Ogni mattina va alla ricerca dei pochi turisti che transitano da queste parti per offrire loro i suoi servizi. Così si guadagna la giornata. Probabilmente mi stava seguendo fin da quando ho lasciato il mellah. Il suo volto scuro è segnato da cicatrici, ai piedi porta delle ciabatte di plastica logore. In Abdelillah vedo subito i tratti del “ragazzo di vita”. Del resto, come scoprirò più avanti, anche lui è il prodotto di un sottoproletariato povero e violento, come i personaggi dei romanzi di Pasolini. I suoi capelli crespi mi fanno pensare al “Riccetto”. Sono sulla strada giusta. L’idea di proseguire la ricerca in compagnia di un autentico slaoui, probabilmente a conoscenza delle storie e dei racconti che vado cercando, non mi sembra così insensata. Accetto la sua proposta e ci incamminiamo assieme verso la Grande moschea, nella zona ovest della medina, quella che confina con il cimitero e poi con il mare. Abdelillah è nato lì, ne conosce ogni dettaglio.
Proseguiamo veloci, cinque minuti di marcia e siamo di fronte alla zawiya Sidi Ahmed at-Tijani. E’ la sede della Tijaniyya, una confraternita sufi ben radicata nel tessuto sociale del Paese. Il sufismo è una specificità propria dell’islam marocchino che, con i suoi marabut (una sorta di santuari) e le sue confraternite, diffusi in tutto il territorio, si discosta dai canoni classici dell’ortodossia musulmana. La tariqa Tijaniyya è una organizzazione religiosa diffusa ormai a livello internazionale. L’accesso principale al misterioso luogo di culto è chiuso per lavori di ristrutturazione, ma dietro le impalcature si possono scorgere lo stesso alcune decorazioni in caratteri kufi (la calligrafia prende nome dalla città di Kufa, nell’attuale Iraq, altro importante centro legato alla confraternita). Abdelillah mi informa che i fedeli, i faqir (“poveri” in arabo), ogni giorno fanno il loro ingresso dalla porta secondaria sul retro, al termine della preghiera dell’alba, per compiere i rituali collettivi: è qui che si abbandonano alla danza e all’invocazione ripetuta del santo fondatore, per cadere in trance ed entrare in contatto diretto con il divino.
Proseguendo nel cammino che dalla moschea conduce all’esterno delle mura, verso la piccola spiaggia, ci imbattiamo nel marabut di Sidi Abdallah Ibn Hassoun, il “patrono” della città. Da quattrocento anni viaggiatori e marinai oltrepassano la soglia del santuario e depositano una piccola candela colorata sopra la tomba del sufi, nella speranza di ricevere la sua benedizione e la sua protezione, o meglio la sua baraka.
Poco più avanti, oltre il cimitero sconfinato e sobrio che si estende per tutto l’angolo nord-occidentale della città, c’è un altro marabut. Una casetta bianca, con il tetto dipinto di verde e una mezzaluna che spunta timida sopra la cupola. Il santuario di Sidi Ahmed Ben Ashir riposa solitario tra il cimitero e la spiaggia, di fronte all’immensità dell’oceano. “Era un dottore di origine andalusa, che arrivò a Salé all’inizio dell’Ottocento. Con strani unguenti e una profonda dedizione si dedicò alla cura dei folli”, spiega Abdelillah. Sono in molti a rivolgersi ancora oggi al “santo” per invocare la sua baraka. Taia, durante la sua infanzia, si ritrovava spesso ad accompagnare la madre fin dentro al marabut, dove questa si prendeva cura dei malati che lì trovavano rifugio durante la giornata. “Non so per quale motivo gli volesse così bene – scrive Taia – gli portava da mangiare, latte e datteri, e rimaneva per ore a parlare con loro. Percepivo una intimità che non riuscivo a comprendere e che a tratti invidiavo”.
Le attività dei corsari, però, non si limitavano alla compra-vendita degli schiavi. Per prima cosa, la “guerra di corsa” non deve essere confusa con la comune pirateria. Era una pratica regolata da codici ben precisi, da trattati che ne definivano zone e obiettivi. Questa attività dominò la scena mediterranea, almeno nella parte occidentale, dalla battaglia di Lepanto fino alla conquista di Algeri. Una guerra fatta di saccheggi, assalti e alleanze, a cui non si sottrassero nemmeno le flotte delle città europee. I bottini, le mercanzie e i marinai appartenenti alle flotte nemiche, servivano in parte a ripagare gli armatori e in parte venivano divisi tra l’equipaggio. “I corsari di Salé si lasciarono dietro prigionieri, vedove, orfani e bastardi. Si lasciarono dietro immensi tesori, nascosti da qualche parte nelle montagne dell’Atlante. Ma soprattutto, si lasciarono dietro, ben ancorati nella memoria popolare, dei racconti incredibili, storie favolose che non moriranno mai”, confessa Abdellah Taia in una delle sue prime opere, Le rouge du tarbouche.
Il tajine è finito e, mentre ci gustiamo quello che resta del digestivo (un rigoroso tè alla menta), Abdelillah mi fa capire che per lui è arrivato il momento di andare. Un sottile invito a mettere mano al portafoglio per dargli quel che gli spetta. All’inizio del giro, inebriato dall’entusiasmo e dalle aspettative della ricerca, non avevo pattuito alcuna cifra e solo adesso mi accorgo del grande errore commesso. Vuole 250 dirham, più o meno 25 euro, una tariffa da “americani”, secondo il gergo negoziale. Non ci siamo. Mi preparo ad una contrattazione serrata, come vuole il costume locale, e non ho alcuna intenzione di cedere. Le trattative vanno avanti per una mezz’ora, durante la quale il proprietario del locale ci offre un altro bicchiere di tè. Alla fine arriviamo ad un accordo: 100 dirham e mezzo pacchetto di Gauloises. L’altro mezzo lo conservo per il viaggio di ritorno a Casablanca.
Pago il conto, come stabilito. Lasciamo il ristorante e ci salutiamo con una calorosa stretta di mano, entrambi visibilmente soddisfatti. Abdelillah ha guadagnato ampiamente la sua giornata, ed io sono riuscito a penetrare parte dei misteri e delle leggende che avvolgono questa città in fondo sconosciuta, soffocata dalla vicina Rabat e, proprio per questo, incredibilmente autentica. Mi resta ancora un ultimo obiettivo prima di lasciare Salé. Raggiungere la spiaggia. Questa volta ho memorizzato bene le strade, percorse solo qualche ora prima assieme al “Riccetto”. Mi incammino lungo rue al Qashashin, una via stretta e invasa dall’immondizia, che taglia in due la medina come un perfetto asse perpendicolare al mare. Arrivo alla Grande moschea, poi ai marabut ed entro nel perimetro del cimitero. Superata l’ampia distesa di lapidi spoglie, avanzo a passi circospetti nella sottile lingua di sabbia che separa i bastioni della città dall’oceano. Il sole è già basso all’orizzonte. I suoi raggi rimbalzano sulla superficie liscia dell’Atlantico come saette, mentre alla mia sinistra la vecchia casbah della capitale risplende di una luce irreale. Il riflesso del sole ha velato le pareti gialle di una tinta rossastra. Sotto al promontorio, una manciata di barche sta rientrando adagio verso il piccolo porto incastonato tra le rocce e la foce del fiume Bou Regreg.
Pier Paolo Pasolini si rifugiava ogni sera di fronte a questo spettacolo, stregato dalla purezza di Salé e dalla semplicità genuina dei suoi abitanti. Qui aveva trovato dei nuovi “ragazzi di vita” e l’esaltazione di quel misticismo popolare descritto con passione nelle prime opere in dialetto friulano. Ora la mia ricerca è davvero finita. Mi siedo sulla sabbia ancora calda e aspetto il tramonto in silenzio, come era solito fare il nostro grande poeta.
6 commenti:
ottime capacità descrittive!
... complimenti
un saluto da Matteo (il libraio di Castello)
Complimenti, mi è piaciuto molto il tuo racconto!
Da grande vorrei scrivere anch'io racconti come il tuo !!!!!!!
Giulia
scrivi sempre in maniera splendida!!
un fedele lettore.
Che bella giornata...
il tuo racconto mi ha riportato ad un dolce girovagare per Salé con Kassim.
Abbiamo subito amato quelle piazzette e il suk.
Lì dove tu hai aspettato il tramonto, siamo approdati con una barchetta, breve inconsueto viaggio da Rabat, che mi aveva entusiasmato. Un pranzo di pesce fritto sulla spiaggia sotto una tettoia... una pace incredibile, un bimbo felice per il dono di una banana.
Quanti ricordi!
Certo allora, 1996 credo, non sapevo che sarei tornata proprio ad Hay Salam per visitare mio marito nel famigerato carcere di Salé... ma questa è un'altra storia.
Grazie Jacopo!
Salam khadija
bel racconto, un modo di narrare gentile e vero, sembra di poter palpare quanto scrivi.
Complimenti.
da un lettore de l'altra pagina.
Bravo! Bellissimo posto che visiterò presto ( un paese che ancora non conosco ).Cercherò di leggere tutto quello che ha scritto Abdellah che ho scoperto per puro caso due ore fà.!!! Grazie
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