All’inizio del dicembre scorso alcuni cittadini stranieri, accusati di proselitismo, sono stati espulsi dal Marocco. Tra di loro c’era anche una famiglia svizzera. La casualità (o altro?) ha voluto che l’espulsione coincidesse con i risultati del referendum elvetico sui minareti. Alcuni vi hanno letto una risposta diretta delle autorità al voto svizzero. Ma è anche vero che la pratica degli allontanamenti forzati dal territorio marocchino di cittadini stranieri, per la loro presunta opera di conversione, è diventata una prassi assodata negli ultimi due decenni.
(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 425, 16-22 gennaio 2010)
Negli ultimi anni in Marocco si sono moltiplicate le espulsioni dei missionari accusati di proselitismo. Il caso più recente è quello di una famiglia svizzera, espulsa dal regno lo scorso dicembre. Il dibattito sulla libertà di culto non è mai stato così d’attualità.
Il dossier della famiglia svizzera, espulsa nel dicembre scorso dal Marocco per proselitismo, è tutt’altro che chiuso. La stampa elvetica si è appropriata dell’affare ed ha dato la parola ai “suoi missionari”. Un mese fa, la polizia giudiziaria di Oujda ha arrestato “diciassette persone nella città di Saidia. Tra loro c’erano degli stranieri, che avevano assistito ad una riunione pubblica non autorizzata dalla legge in vigore. Tale riunione mirava alla diffusione della fede cristiana, cercando di attirare nuovi adepti tra i cittadini”, si può leggere nella stampa marocchina. E poi, “le perquisizioni operate in seguito all’arresto hanno portato al sequestro di materiale utilizzato nell’attività di proselitismo, come libri, cd in lingua araba e altri in lingua straniera”, continua la versione ufficiale.
Espulsi senza processo
Oltre alla famiglia svizzera, sono stati espulsi anche due Sudafricani e un Guatemalteco. Mentre dodici Marocchini sono finiti agli arresti, poi rilasciati il giorno stesso. Sulle colonne del giornale svizzero L’Express, la coppia elvetica nega qualsiasi accusa che riconduca la loro opera all’attività di proselitismo. Il marito, un ingegnere, e sua moglie, fisioterapista, sostengono di essere in missione umanitaria in Marocco ormai da molti anni per conto dell’Ong Consulting, training and support, con l’obiettivo di fornire aiuto ai bambini marocchini handicappati. Tacciati di proselitismo, sono stati trasferiti il giorno seguente dalla polizia alla vicina frontiera di Melilla. “Senza nessun atto di accusa ufficiale, né altre forme di processo. Alla frontiera, ci hanno restituito i nostri effetti personali, finiti sotto sequestro, ma non i nostri permessi di soggiorno, validi fino al 2015”, sottolinea il capo-progetto. Questa la sua idea riguardo al comportamento delle autorità marocchine nella vicenda: “E’ una questione interna. Durante l’interrogatorio tutte le domande che ci hanno fatto convergevano sulle nostre relazioni con i cristiani marocchini della zona. Noi ci siamo dati da fare, nei limiti dei nostri mezzi, a fargli conoscere meglio questa fede, per loro ancora astratta, ma non abbiamo mai convertito nessuno”. Se la coppia svizzera ha affittato una villa a Saidia, dove teneva le riunioni della piccola comunità cristiana, era solo “per ritrovarsi in preghiera e per la lettura dei testi biblici, non certo per mettere in discussione i valori del regno”, spiega l’impiegato della Ong.
Non è la prima volta che il Marocco procede a questo genere di espulsioni. Cittadini stranieri sono regolarmente pregati di fare i bagagli per aver cercato di “intaccare la fede musulmana” dei Marocchini. In tali circostanze, la polizia giustifica la procedura evocando il sequestro di materiale, libri e cd, per la propaganda del cristianesimo. Questi stranieri che, stando ai rapporti della polizia, puntano a convertire i Marocchini musulmani, dovrebbero in realtà finire in giudizio. Secondo l’articolo 220 del Codice penale, rischiano dai sei mesi ai tre anni di carcere, più una multa dai 100 ai 500 dirham. Ma raramente finiscono in stato di arresto. Piuttosto vengono espulsi alla buona, come nell’esempio della famiglia svizzera, in violazione della legislazione in vigore. “Bisogna assicurare la protezione e la garanzia della sicurezza spirituale ai cittadini, bisogna assicurare la tutela delle specificità marocchine”, questi i propositi che vengono ripetuti fino alla noia nelle dichiarazione degli ‘ulama’ o dei responsabili dei partiti politici di obbedienza islamica per giustificare le decisioni delle autorità. Pertanto, la costituzione consacra la libertà di culto all’articolo 6. E l’islam stesso fa appello direttamente alla libertà di coscienza. Come, per esempio, nella sura Al Baqarah: “Nessuna costrizione nella religione! Perché il giusto cammino si è ben distinto dallo smarrimento”. Nemmeno l’apostasia viene considerata un reato dai testi giuridici marocchini. E’ il proselitismo a cadere sotto la scure della legge. Il problema è che, per parlare di libertà di culto, dobbiamo prima garantire la libertà, ai cittadini di altre confessioni, di discutere apertamente della propria fede. Punire i colpevoli di proselitismo, dunque, non sarebbe un attacco alle libertà individuali? Il dibattito è aperto.
Hicham Houdaifa
L’articolo 220 del Codice penale
“E’ punito con l’arresto da sei mesi a tre anni e con una multa da 100 a 500 dirham, chiunque impieghi mezzi di seduzione con l’obiettivo di far vacillare la fede di un musulmano o di convertirlo ad un’altra religione, sia sfruttando la sua debolezza o i suoi bisogni, sia utilizzando a questi fini dei luoghi di istruzione, degli ospedali o delle cliniche, degli asili o degli orfanotrofi. In caso di condanna, può essere ordinata la chiusura dello stabilimento che è servito a commettere il reato, in modo definitivo o per una durata massima di tre anni”.
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