(Dopo aver accennato al sufismo e alle confraternite nel reportage da Salé, ho deciso di rimettere mano ad un capitolo della mia vecchia tesi di laurea per approfondire un po' l'argomento. Purtroppo il linguaggio del pezzo è rimasto oltremodo accademico, ma l'argomento trattato credo possa suscitare ugualmente interesse)
Il sufismo nella sua accezione più ampia rappresenta un fenomeno religioso articolato, tradizionalmente presente in tutto il mondo musulmano. Al suo interno occorre distinguere tra il sufismo dottrinale, le confraternite, che ne rappresentano la strutturazione organizzata, e il vasto fenomeno della devozione e del culto dei santi (spesso fondatori delle stesse confraternite), assai diffuso nel substrato popolare. Il sufismo dottrinale pone in primo piano la dimensione religiosa e spirituale del credente, insistendo sul cammino di perfezionamento interiore dell'uomo. Questa corrente si è scontrata fin dal X secolo d.C. con le forme più istituzionalizzate dell'islam, che hanno finito per prevalere ed imporsi come ortodossia ufficiale. Ciò nonostante, l’universo delle confraternite e del culto dei santi ha conosciuto un percorso di grande espansione, anche se, nelle epoche più recenti, ha dovuto fronteggiare l’ostilità del wahabismo (fine XVIII sec., Arabia Saudita) e dei riformisti salafiti (fine XIX sec., Egitto), che hanno visto nel misticismo popolare un sintomo di arretratezza culturale.
Trattare della nascita e dello sviluppo del sufismo, o semplicemente accennare ad esso come è nelle intenzioni di questa breve introduzione, significa rintracciare la genesi e la storia di una esperienza lontana, la cui origine è ancora oggi al centro di vivaci dibattiti. Secondo i maestri e le guide della dottrina, i suoi albori coincidono con la nascita dell'islam. La tradizione dell'orientalismo europeo, invece, ha visto nel sufismo un fenomeno di importazione, preesistente alla stessa cultura islamica. Una derivazione del monachesimo cristiano, delle pratiche ascetiche, della religiosità persiana e indiana e delle filosofie ellenistiche. Questo tipo di analisi ha avuto ripercussioni perfino sulla cultura islamica contemporanea, che ha maturato l'idea di un'estraneità di fondo del sufismo rispetto ai canoni dell'ortodossia.
Ad ogni modo, studiosi e storiografi concordano su un punto. Il movimento sufi ha assunto una sua fisionomia nella seconda metà dell’VIII secolo d.C., per poi consolidarsi nei secoli successivi. Le tracce di questo percorso, in realtà, erano già presenti nella prima generazione musulmana. Giorgio Vercellin ricorda che l'insegnamento del Profeta faceva riferimento, con una certa frequenza, alla ricerca di una dimensione più intima e spirituale del messaggio islamico. Una dimensione esplorata in seguito proprio dal sufismo.
Le controversie suscitate dalla nuova dottrina hanno dapprima investito, il delicato ambito della speculazione. Con il passare del tempo poi, è stata la pratica, più che la teoria, a trovarsi di frequente al centro delle polemiche. Le accuse rivolte dagli ‘ulama’ sembrano dimostrare, però, una incomprensione di fondo del fenomeno: il sufismo non ha mai avuto come obiettivo quello di sostituire i propri metodi di realizzazione spirituale ai precetti dell'islam (come i cinque pilastri). Più semplicemente, ha cercato di indicare una via integrativa alla stretta osservanza dell’ortodossia. L'invocazione del nome divino, la recitazione collettiva, l'ascolto degli inni e la danza, non sollevano affatto il fedele dall'obbligo di rispettare i comuni esercizi religiosi, ma si sovrappongono a questi senza alcun conflitto. Secondo Vercellin “il mistico, anziché far leva solo sulle norme stabilite dalla shari‘a per ottenere la salvezza, la cerca a livello totalmente soggettivo e trascendente, nell'unione diretta con Dio”. A molti, tuttavia, queste pratiche sono sembrate eccessive ed il loro carattere innovativo le ha rese sospette. D’altra parte è anche vero che, in alcuni casi, il sufismo urbano e rurale ha finito per diventare un'alternativa, più che un'integrazione, alle norme legalistiche imposte dai dottori della legge, non in grado di soddisfare a pieno le esigenze spirituali dei credenti. Per esempio, nel caso del rapporto tra il divino e il muslim, la nuova dottrina è arrivata a sostenere che la conoscenza di Dio derivi dalla devozione e non dall'istruzione (dei testi sacri). Una devozione possibile solo con il distacco dal mondo e con il ritiro in luoghi appartati, dove gli adepti si ritrovano per recitare il Corano e per ascoltare i grandi maestri.
All’inizio della sua esistenza, il sufismo era sprovvisto di una vera strutturazione istituzionale. Le prime scuole sufi non erano raggruppamenti formali, ma semplici aggregazioni di discepoli attorno alle guide spirituali. Con il tempo, e precisamente a partire dal secolo XII–XIII d. C., questi gruppi hanno cominciato a darsi un nome, rituali codificati, regole precise e statuti. Un passo che ha sancito la nascita delle confraternite e degli ordini, l'aspetto visibile e istituzionalizzato attraverso cui il sufismo si è affermato nella storia. Ampie fasce della popolazione musulmana, anziché rivolgersi agli ‘ulama’ per avere un supporto nell’approccio alla religione, hanno fatto riferimento a queste nuove organizzazioni, conosciute dagli studiosi occidentali come confraternite mistiche o tariqa. I suoi membri sono chiamati faqir, in arabo, o darwish, in persiano, due termini letteralmente traducibili con l’espressione “povero di spirito”, ma che nel linguaggio corrente hanno assunto il significato di “discepolo” o “adepto”. Le tariqa costituiscono tuttora il mezzo di espressione più diffuso dell’universo sufi, in cui la dimensione comunitaria resta predominante. Le confraternite hanno avuto successo poiché sono riuscite ad aprire il loro spazio alle manifestazioni della religiosità popolare, preesistenti all’arrivo dell’islam: hanno favorito tanto la venerazione dei santi, quanto le pratiche devozionali eccentriche. Queste pratiche, in alcuni casi bandite dal culto ufficiale, erano rimaste ben ancorate nell’immaginario sociale, alimentate da esigenze antropologiche insite in ogni cultura, specie se di tipo rurale.
Le tariqa trovano nell'esperienza religiosa e allo stesso tempo secolare una sorta di coesione, statuita da un sistema di appartenenza spirituale a doppio livello. Da una parte c'è il richiamo al fondatore della confraternita, spesso considerato un santo, dall’altra c'è la venerazione quotidiana della guida vivente, lo shaykh. Costui è il personaggio chiave della tariqa, non tanto in qualità di massimo dirigente organizzativo, ma poiché detiene il potere di svelare la realtà divina all’adepto. Per suo tramite i fedeli possono godere della baraka, ossia di quella forza benefica di origine divina che trasmette ai faqir un benessere fisico e psichico, una sensazione di totale appagamento. La persona che è in possesso della baraka può intercedere presso Dio anche a nome di altri, favorendo così la cura delle malattie (sterilità, impotenza, pazzia). Tali manifestazioni diventano, nella credenza sufi, prove intangibili della santità di chi le esercita.
Le confraternite sono andate con il tempo diffondendosi e moltiplicandosi. Hanno acquisito un ruolo, non bisogna nasconderlo, sempre più incisivo nella vita delle società islamiche, un peso specifico che spesso ha finito per trascendere la mera dimensione religiosa. In più di un'occasione, infatti, la loro intromissione nelle vicende politiche e sociali della comunità ha quasi oscurato il ruolo prettamente spirituale delle origini. L’esempio marocchino, a questo proposito, è molto indicativo.
Il sufismo in Marocco
La diffusione del sufismo in Marocco ha radici antiche e profonde. Il culto dei santi e il fenomeno del marabutismo in particolare vengono considerati come una riproposizione delle pratiche e dei rituali già presenti nella cultura berbera, insediata nella regione ben prima dell’arrivo degli arabi e della diffusione della dottrina islamica. Secondo il sociologo Laghrissi, il territorio marocchino ha conosciuto fin dall'XI secolo d. C. maestri sufi di grande prestigio. Nel XIII secolo due confraternite già ampiamente diffuse nel contesto musulmano, la Qadiriyya e la Shadiliyya, hanno messo per prime le loro radici nel regno. Nel XVI secolo, poi, è accertata la presenza di una decina di zawiya (in Marocco è sinonimo di tariqa). La maggior parte di queste confraternite si sono lentamente eclissate nel corso del XIX secolo, parallelamente all'espansione di due zawiya di più recente formazione, la Tijaniyya (il fondatore è Sidi Ahmed Al Tijani, morto a Fès nel 1809) e la Darqawiyya (il fondatore è Moulay Darkawi, nato nel 1737 nella regione di Bou-Brith), presente soprattutto nella zona nord del Paese. All'inizio del ventesimo secolo, infine, il panorama mistico marocchino ha visto l’affermazione di un’altra guida influente. Il suo nome è Sidi Boumedienne Bushish. Di origine e formazione qadirita, lascia la sua regione natale, nel nord-est del Marocco, per solcare in lungo e in largo l'intero territorio maghrebino sulle tracce dei mistici più autorevoli. Al termine dei suoi viaggi e della sua ricerca raggiunge un risultato eccezionale: riesce a fondere in un'unica confraternita la Qadriyya (quella dell’emiro Abdelkader, protagonista della resistenza algerina alla penetrazione francese) e le differenti ramificazioni della Shadiliyya, dando vita ad una nuova zawiya, la Qadiriyya Bushishiyya (di cui parleremo meglio più avanti).
Sino alla fine del XIX secolo, il sufismo marocchino aveva costituito una forma di religiosità extramondana. Non si era mai preoccupato del funzionamento della società e non aveva mai avanzato ingerenze nella sfera politica. Tuttavia, il sociologo Mohsine Elahmadi ricorda che “quando le armate straniere cercarono di assoggettare ed occupare il Paese con la forza, anche le confraternite reagirono impugnando le armi; uscirono dal volontario disimpegno politico-sociale e si lasciarono coinvolgere nel jihad”. Un esempio al riguardo fu il comportamento di Sidi Al Mukhtar Al Bushish, protagonista di una “resistenza feroce alla penetrazione militare francese”. Non tutte le confraternite, però, si opposero alla conquista coloniale. Al contrario, alcune di esse assunsero un ruolo di primo piano nell'amministrazione del Protettorato, prendendo parte attiva alla gestione amministrativa, come nel caso della Kettaniyya e della Zituniyya. “In seguito al raggiungimento dell'indipendenza – ricorda il professor Mohamed Tozy - le confraternite sufi furono colpevolizzate e emarginate dal movimento nazionalista–salafita, confluito nel partito dell'Istiqlal. Il re invece non prese parte, almeno inizialmente, al regolamento di conti”. Il professor Elahmadi è più esplicito su questo punto e sostiene che fu proprio Hassan II a proteggere le zawiya nei primi anni del suo regno, appoggiandosi ad esse per ottenere la fiducia del mondo rurale e per assicurarsi una stabilità politica altrimenti minacciata dalle élite urbane.
Il sostegno del Palazzo alle confraternite si è affievolito a partire dagli anni settanta, quando negli ambienti sufi sono apparsi i primi segnali di insubordinazione nei confronti dell'Amir al-mu’minin (il “comandante dei credenti”, carica rivestita dal sovrano, in base all’articolo 19 della costituzione marocchina). Secondo Laghrissi, “la marginalizzazione delle confraternite era diventata una necessità improrogabile per l’edificazione di uno Stato centralizzato”. In più la penetrazione delle correnti neo-salafite e wahabite, avvenuta negli anni ottanta, ha fortemente contribuito alla perdita di seguito e di importanza dei rituali popolari.
Parte degli studiosi ritengono che le confraternite non occupino più una posizione rilevante nel panorama marocchino. Ma i recenti sviluppi della politica religiosa di Mohamed VI ci fanno capire che, forse, qualcosa sta cambiando. Prendiamo ad esempio il caso del Ministero degli Affari Islamici. Il ministro, nominato direttamente dal monarca, ha la facoltà e i mezzi economici per creare delle proprie reti clientelari. Se all’epoca del ministro Mdeghri (1984-2002) questa clientela ha interessato, nella maggior parte dei casi, ‘ulama’ e imam di formazione wahabita, con l’insediamento del nuovo ministro Ahmed Taoufiq (2002) sono i membri delle confraternite sufi ad infoltire le schiere di collaboratori ed esperti religiosi che gravitano attorno al Ministero.
Alla domanda se il sufismo possa rivestire un ruolo politico nella nuova strategia di inquadramento della sfera religiosa, dettata dalle autorità del regno dopo gli attentati di Casablanca del 2003, il professor Ouazzani ha risposto in modo negativo, riconoscendo alle zawiya una mera funzione spirituale, mistica, incapace di allontanarsi dal contesto prettamente religioso e personale di ciascun individuo. Tuttavia, il politologo ha ammesso che “l'islam popolare, l'islam delle confraternite, potrebbe servire da utile contrappeso alle tendenze neo-fondamentaliste maturate in seno alla società marocchina”. L'obiettivo è l'indebolimento del fronte della salafiyya jihadiyya ma, sui risultati della nuova politica religiosa (o meglio parte di essa) impostata da Taoufiq e Mohamed VI, il professor Alami si è mostrato scettico: “Non sono molto fiducioso sull'esito di questa strategia, dal momento che è difficile spingere i fedeli alla scelta dell'esperienza mistica. Il percorso che conduce il musulmano ad una confraternita è un'esperienza ed un cammino assolutamente individuale”.
Il caso della zawiya Bushishiyya
Mentre l’insieme delle confraternite marocchine ha visto ridursi il numero dei propri adepti nell’ultimo mezzo secolo, la zawiya Bushishiyya ha fatto registrare un andamento in netta controtendenza. “Ha assunto i tratti della confraternita allo stesso tempo rurale e urbana, nazionale ed internazionale. E’ stato questo il motore del suo sviluppo negli ultimi trenta anni”, confessa il professor Tozy.
Sidi Hamza al-Qadiri al-Bushish è continuatore di una catena iniziatica ininterrotta, discendente in linea diretta da Mulay Abd al-Qadiri al-Jilani, maestro sufi vissuto a Baghdad nel XII secolo e fondatore della confraternita Qadiriyya. La Bushishiyya, più precisamente, non è che una ramificazione di questa tariqa madre, sviluppatasi nel XVIII secolo nella regione nord-orientale del Marocco. Il suo centro nevralgico si trova tuttora nel piccolo villaggio di Madagh, poco lontano da Oujda. Durante il mese di agosto, Madagh accoglie in media più di quattrocento fedeli, provenienti dai luoghi più disparati. Arrivano per congiungersi in raccoglimento e in preghiera, dimenticando il ritmo impossibile della società moderna. Medici, avvocati, alte personalità politiche o semplici disoccupati si riuniscono tutti i giorni, mangiano, pregano e dormono assieme. Alcuni parlano di ritiro spirituale, altri di università estiva, ma tutti sono mossi dallo stesso desiderio: ritrovarsi tra i discepoli più prossimi allo shaikh Sidi Hamza, condividere le loro esperienze, partecipare alle invocazioni collettive ed avere il privilegio di essere ricevuti dal maestro, anche solo per qualche istante.
Chi è esattamente Sidi Hamza Al Bushish? Nato nel 1922 a Madagh e cresciuto nella confraternita fondata dai suoi stessi antenati, ha ricevuto fin dalla giovane età una educazione rigorosamente religiosa, dapprima nella scuola coranica presente all'interno della zawiya, poi in una sezione della Qarawiyyin (l’università islamica di Fes) distaccata ad Oujda, dove è venuto a contatto con figure prestigiose dell’insegnamento islamico. In venti anni di studio, Sidi Hamza si è dedicato all’apprendimento del diritto malikita (la scuola giuridica sunnita seguita in Marocco) e della giurisprudenza islamica in generale, oltre alle discipline annesse, quali la morfologia, la grammatica e l'esegesi coranica. Dal 1972, in seguito alla morte del padre Sidi Abbas, ha assunto il ruolo di guida della zawiya.
Considerato un maestro spirituale autentico, Sidi Hamza ha rinnovato il rituale della confraternita ed ha stabilito una pratica spirituale più morbida in rapporto al sufismo sunnita classico, noto per il suo rigore. Le tre fasi attraverso cui si snoda il percorso mistico sono rimaste invariate: privazione, accettazione e rivelazione. La novità consiste nel diverso ordine in cui sono proposte le tre tappe. L'accettazione dell’adepto all’interno della zawiya avviene fin dall'inizio. E’ questo che spinge il faqir alla privazione. Invece di esigere un certo livello di purificazione preliminare per l'accettazione dei discepoli, la guida accoglie subito gli aspiranti bushishi. Inizia così un cammino interiore che porta l’adepto ad una privazione (materiale) crescente . “Il cambiamento voluto da Sidi Hamza – ha spiegato un discepolo – ha fatto sì che ogni persona potesse affiliarsi alla confraternita, anche un ubriaco, una prostituta o un ladro”. In effetti, fin dalle prime esperienze sufi, i maestri imponevano ai loro discepoli difficili prove, per verificare la presenza di una vera vocazione, prima di ammetterli nella zawiya. Nella Bushishiyya, invece, le prove sono state sostituite dalle invocazioni ripetute e salmodiate. “L'obiettivo è la purificazione dell’animo, necessaria per poter entrare in contatto con il divino”, ha sottolineato l’adepto.
Shaykh Hamza ripone una grande fiducia nella nuova politica religiosa condotta dal regime in seguito agli attentati di Casablanca. La nomina di Taoufiq, membro della Bushishiyya, al Ministero degli Affari Islamici ha suscitato grande entusiasmo nella sua entourage. Con molta probabilità potrà effettuare i suoi viaggi senza più dover chiedere l'autorizzazione alle autorità, i raduni della sua confraternita non verranno più ostacolati e i bushishi non saranno più licenziati a causa della loro affiliazione. Sidi Hamza stesso ha affermato che, per quel che riguarda l’insegnamento impartito dalla zawiya, non c'è da temere alcun pericolo di deviazionismo e che di fatto, dopo il lontano episodio di cui si rese protagonista Yassine, le autorità non hanno più avuto problemi con la sua confraternita.
Da dove proveniva, dunque, l’ostilità del regime nei confronti della Bushishiyya? Per capirlo occorre fare un passo indietro. Quando Hamza è succeduto al padre Abbas alla testa della confraternita, tra gli adepti vi era un intraprendente Abdessalam Yassine, all'epoca fedele convinto di Abbas Bushish. Si distingueva già al tempo per la sua erudizione e per la sua morale rigorista, tanto da essere soprannominato dagli altri fedeli “Abdessalam shari‘a”. Alla morte di Abbas, Sidi Hamza decise di aprire le porte della confraternita a tutti i ceti sociali. Yassine ne approfittò per sostenere l'idea di una radicale modernizzazione della zawiya. Lo scontro, inevitabile, tra il maestro e il discepolo ebbe luogo nel 1972 nella città di Marrakech. Sostenuto da alcuni compagni, Yassine cercava di pensare e vivere la religiosità sufi in un modo diverso. Nel suo progetto, ad un sufismo immobile doveva succedere un sufismo attivo e intraprendente, capace di sanare le piaghe di una società malata. La futura guida dell'associazione Giustizia e Carità aveva l'intenzione di snaturare la confraternita, assegnandole una funzione sociale e politica. Sidi Hamza reagì allontanando Yassine. Quando quest’ultimo entrò in aperto conflitto con il sovrano Hassan II (1974), a farne le spese fu anche la Bushishiyya, nonostante Yassine fosse già stato espulso dalla zawiya. I suoi membri furono posti sotto il controllo dei servizi di sicurezza ed il suo leader venne confinato nelle campagne di Oujda. Si è dovuto attendere l’inizio degli anni novanta per vedere un primo allentamento della morsa repressiva. Da quel momento la confraternita ha conosciuto una nuova fase di seduzione ed è rientrata nelle grazie del potere, per merito del crescente interesse suscitato in una borghesia in cerca di spiritualità. La nomina del ministro Taoufiq, quindi, non è che l’ultima tappa di un lento percorso di recupero, cominciato circa venti anni fa e divenuto oltremodo necessario al regime dopo i tragici eventi del 2003.
GRANCI J., I movimenti islamici in Marocco, Università di Perugia, Facoltà di Scienze Politiche, 2007.
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Mohamed Tozy (docente di Sociologia politica all'università Hassan II di Mohammedia), Casablanca, 2 maggio 2007.
Rachid Alami (docente di Scienza Politica all'università Cadi Ayyad di Marrakech), Marrakech, 6 maggio 2007.
Mohsine Elahmadi (docente di Sociologia della religione all'università Cadi Ayyad di Marrakech), Marrakech, 9 maggio 2007.
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