(L'articolo “Les résistants de la cedraie” è stato pubblicato da Tel Quel, n. 417, 27 marzo – 2 aprile 2010)
Un’ora e mezza di viaggio separa Khenifra da Tikajouine, alias Ait Hnini secondo l’amministrazione marocchina. La strada, che si snoda lungo un percorso di circa sessanta chilometri, è stata rifatta di recente, ma l’asfalto ancora nuovo ha ceduto alle piogge e agli smottamenti del terreno. Entrando nel villaggio, nonostante la nebbia e il nevischio trasportato dal vento, si riesce ad intravedere la foresta d’Idikel, sulle pendici del monte Toujjit, distante un’ora di cammino. Quattromila ettari di cedri per quattromila abitanti. Malgrado questa ricchezza, la località ha un aspetto desolante. Dopo le precipitazioni violente della notte le vie sono immerse dal fango e per gli abitanti è impossibile mettere il naso fuori di casa senza indossare gli stivali di gomma.
La mattinata è glaciale. Alcuni bambini, in ritardo, affrettano il passo verso la scuola con dei vistosi ceppi sottobraccio. Spetta alle famiglie degli alunni provvedere al riscaldamento dell’edificio, un prefabbricato situato ai margini del paese. A causa del disboscamento, tuttavia, la legna da ardere è diventata un bene di lusso sempre più raro.
“Ecologisti” contro “bracconieri”
La bella abitazione rifinita a calce di Said Ait Aziz, costruita sul fianco della collina, si distingue nettamente dalle altre case del villaggio. Il proprietario, un contadino di quarantasette anni, è considerato il nemico numero uno della “mafia del cedro”. Una guerra silenziosa, infatti, da qualche anno sta dilaniando Tikajouine, dove gli “ecologisti” cercano di arrestare l’emorragia di legname causata dai “bracconieri”. L’ultimo colpo di cannone solo due settimane fa: Aziz è citato in giudizio “per aver attaccato la sacralità del re”. Ma ci vuole ben altro per convincerlo a desistere. Con il viso solcato dal tempo e arrossato dal calore della stufa, Aziz ripercorre la storia, in tamazigh (lingua berbera, ndt), della sua lotta per fermare la distruzione della foresta. “Mi sono sempre opposto all’abbattimento selvaggio dei cedri – spiega – poiché tale ricchezza se ne va altrove, senza alcuna ricaduta sullo sviluppo del villaggio”. Nel 2004 cerca di avvertire il caid della dimensione preoccupante assunta dal traffico clandestino di cui è testimone. Invano. Un anno dopo decide di aderire all’Associazione marocchina per i diritti dell’uomo (AMDH), nella speranza di dar forza al suo discorso. L’AMDH inizia ad occuparsi del problema e organizza azioni di protesta sul territorio, oltre a sostenere Aziz nella denuncia depositata al tribunale di Khenifra. Il resoconto presentato è preciso e dettagliato. Nel corso degli anni ha imparato a conoscere tutti i mezzi impiegati dai cervelli che gestiscono il commercio illegale dei cedri.
Nel 2007 la “mafia” propone del denaro ad Ait Aziz in cambio del suo silenzio. Dopo aver declinato l’offerta, sfugge ad un tentativo di incendio. Poi viene aggredito nel bosco. Ad ogni violenza subita risponde con una querela. Il vecchio contadino è ormai abituato a vedere i finestrini della sua auto regolarmente frantumati. Ma nella sua battaglia non è più solo. Alcuni insegnanti della zona, nel 2005, hanno creato l’Associazione Idikel per la protezione dell’ambiente e della foresta. “Un terzo degli abitanti del villaggio ci detesta”, afferma divertito Mouloud Ben Mouloud, uno dei fondatori. Un terzo del villaggio significa, per caso, tutti coloro che traggono profitto dall’abbattimento selvaggio dei cedri? Un impiegato della Delegazione delle acque e delle foreste improvvisa una stima del fenomeno: “I delinquenti noti in paese sono una sessantina. Ognuno di loro lavora con il supporto di quattro o cinque persone. Quindi arriviamo ad un totale di trecento bracconieri, senza contare l’indotto del trasporto e della commercializzazione”. Non è poi così sbagliato, quindi, pensare che circa mille paesani vivano del business dei cedri…
“Pensi di essere il re?”
L’Associazione Idikel e Ait Aziz hanno avviato un progetto innovativo di preservazione della flora locale che non ha sopravvissuto ai primi sei mesi di vita. Nell’estate del 2009, la Delegazione delle acque e delle foreste accetta di finanziare un’impresa di sorveglianza per vegliare sulla foresta. L’associazione si fa garante della buona fede dei guardiani assunti: sarebbe inutile assumere gente compromessa con la “mafia”. Quanto ai “pentiti”, invece, sono ben accetti per la loro ottima conoscenza del terreno. Ma per svolgere questo tipo di lavoro bisogna essere profondamente motivati: i guardiani, considerati degli “spioni” o addirittura dei “voltagabbana”, subiscono continue aggressioni fisiche e vessazioni simboliche (come la cacciata dal mercato settimanale).
Tra i dodici “angeli custodi” che battono giorno e notte i sentieri del bosco c’è anche Ait Aziz. Durante una perlustrazione, nel gennaio scorso, un battibecco con un bracconiere innesca l’accanimento giudiziario di cui è ancora vittima. “Pensi di essere il re per impedirci di entrare nella foresta?”, lancia la provocazione un trafficante. Al ché il contadino risponde: “No, ma i rappresentanti del re mi hanno affidato la protezione di questo luogo” – “Ah, mi siete tutti testimoni, quest’uomo pensa di essere sua maestà!”, conclude soddisfatto il bracconiere. Poco dopo il governatore della provincia di Khenifra riceve una lettera anonima e ordina l’apertura di un’inchiesta. Il 25 gennaio Ait Aziz è convocato dalla gendarmerie per un interrogatorio. Cinque testimoni (tutti bracconieri) rilasciano ugualmente le loro deposizioni. La sorte del dossier è attualmente tra le mani del procuratore generale.
L’ostilità degli abitanti, tuttavia, non dovrebbe sorprendere troppo se si analizza il contesto socio-economico della regione. “C’è così tanta povertà da queste parti che servirebbe un’intera brigata militare per riuscire a proteggere la foresta”, stima un impiegato della Delegazione. “La risposta non può essere solo repressiva, servono soluzioni per lo sviluppo della zona”. Bisogna dire che ogni metro cubo di legna di buona qualità può essere venduto fino a 8 mila dirham (circa 800 euro), grazie ad una rete ben organizzata. Denaro facile in una regione che non offre alcun impiego al di fuori dell’agricoltura tradizionale.
“In questo modo la gente si accaparra una parte della torta, poiché ne ha abbastanza di vedere le autorità locali incassare i soldi del taglio legale dei cedri, senza che in contropartita venga realizzato alcun miglioramento in termini di infrastrutture”, spiega Mouloud, l’insegnante. “Sono qui da diciassette anni e gli unici cambiamenti che ho visto sono l’arrivo dell’elettricità e il rifacimento della strada, niente altro”. In base al dahir (decreto reale, ndt) approvato del 1976, l’80% del denaro ricavato dalla vendita del legno ritorna nelle casse del comune e il resto in quelle della Delegazione delle acque e delle foreste. Le collettività, dal canto loro, dovrebbero reinvestirlo nel rimboschimento e in opere per lo sviluppo del territorio. “Da queste parti il comune non ha nessun programma di rimboschimento, nessun piano di sorveglianza della foresta di cedri – sospira Mouloud – né un progetto di investimento nel campo dell’istruzione”.
Telefoni satellitari per la mafia
Gli addetti locali della Delegazione, direttamente responsabili delle risorse boschive della zona, si dichiarano impotenti di fronte al sistema di sfruttamento selvaggio dei cedri dell’Idikel. Non possiedono i mezzi adeguati per sorvegliare quattromila ettari di terreno in modo efficace: soltanto due tecnici agronomi, due agenti a cavallo per il pattugliamento e qualche guardiano occasionale. In più, quando riescono a mettere le mani su un bracconiere, sono costretti a chiamare la polizia per il verbale, almeno secondo la prassi. Ma i cellulari non funzionano nella montagna e per tornare al villaggio ci vuole circa un’ora e mezza. “Una volta ho visto un trafficante con un telefono satellitare in mano”, ironizza un agente forestale. In più, stando a quanto riferito dai membri dell’Associazione Idikel, i rari verbali che i poliziotti riescono a redigere (la maggior parte sono contro ignoti, anche se si conosce l’identità dei responsabili) finiscono per accumulare polvere nell’ufficio del procuratore generale. “La giustizia non fa il suo dovere”, conferma Moustapha Allaoui, membro dell’associazione ecologista. “Se la mafia del cedro fosse realmente sottomessa alla legge e obbligata a pagare le sanzioni previste per questo genere di reati, si sarebbe potuto risolvere il problema velocemente”. Altra soluzione: bloccare lo smaltimento della merce su scala nazionale. A questo proposito i forestali puntano il dito sui gendarmi, che difficilmente intervengono per arrestare il traffico là dove la Delegazione delle acque e delle foreste non ha più competenza. “Come è possibile che i camion arrivino all’altro capo del Paese senza trovare il benché minimo ostacolo sul loro cammino?”, si interroga un tecnico.
Il commercio clandestino prosegue indisturbato, mentre per il bosco di cedri il futuro si fa sempre più incerto. Ma, in attesa che un vero “piano d’azione” venga calato dall’alto, il clan degli “ecologisti” non sta certo a guardare. La sezione locale dell’AMDH, assieme ai militanti dell’Idikel, si è lanciata in una campagna di sensibilizzazione sulla necessità della preservazione del patrimonio ambientale locale. L’associazione poi vorrebbe creare una cooperativa, per permettere a tutti gli abitanti del villaggio di beneficiare legalmente delle risorse boschive del luogo. Quanto a Said Ait Aziz, imperturbabile, continua le ronde notturne nella “sua” foresta, nella speranza di limitare almeno un po’ l’abbattimento selvaggio degli alberi.
Zoé Deback
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