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sabato 10 aprile 2010

“E’ grazie a Bush se mio marito è diventato un terrorista”

Marocco. Incontro con Fatiha Hassani, vedova di Karim Mejjati. La "pasionaria del jihad" racconta la sua storia.

Nascosta nella periferia est di Casablanca, a due passi dall’autostrada che conduce a Rabat, c’è la sede di Ennassir (“l’aiuto”, in arabo). L’associazione, nata sei anni fa, difende i diritti dei detenuti islamici finiti in carcere dopo gli attentati che nel maggio 2003 hanno insanguinato la metropoli marocchina. Ogni sabato pomeriggio, un nutrito drappello di donne si ritrova nell’appartamento mal illuminato “a parlare di figli e mariti costretti alla prigione, vittime, per le loro idee, della politica anti-terrorista intrapresa dalle autorità”, spiega Abderrahim Mouthad, presidente dell’organizzazione. In effetti l’ondata repressiva che ha colpito gli ambienti salafiti, sparsi un po’ dovunque nel regno, è sfociata in centinaia di arresti sommari, seguiti da processi sbrigativi e di dubbia legalità (come denunciano i rapporti degli osservatori internazionali).
Seduta sul tappeto del salone, al centro dell’assemblea, Fatiha Hassani è coperta integralmente da un sobrio nikab corvino. “La mia è una storia particolare, diversa dalle altre” premette la donna, dimostrando una perfetta padronanza della lingua francese. Fatiha, conosciuta come “la pasionaria del jihad”, è la vedova di Karim Mejjati, cittadino franco-marocchino ucciso nel 2005 a Ryad, assieme al figlio undicenne Adam. Considerato uno dei fondatori del gruppo jihadista al-Qaida fil Maghrib, Karim Mejjati sarebbe tra i responsabili, secondo l’intelligence americana e spagnola, degli attentati di Casablanca (16 maggio 2003), Madrid (11 marzo 2004) e Ryad (12 maggio 2003). “Mio marito non c’entra con le stragi di Casablanca e Madrid - chiarisce subito la vedova - al tempo si trovava in Arabia Saudita, braccato dalla CIA. Credo invece che Karim abbia partecipato all’attentato di Ryad”, per vendicare il rapimento della moglie e del primogenito Elyas, prelevati in territorio saudita nel marzo del 2003 e trasferiti in segreto nel carcere marocchino di Temara.




Il ritorno all’islam
Quando scoppia la Prima guerra del golfo, Fatiha ha trent’anni, è impiegata all’Istituto marocchino di management ed ha in tasca una laurea in giurisprudenza. L’attacco americano all’Iraq e i bombardamenti sui civili spingono la donna, fino a quel momento lontana dall’integralismo religioso, ad un convinto ritorno all’islam. “Trovare la strada verso Dio è stato come rinascere. Avevo sempre sognato e idealizzato l’Occidente, che consideravo una terra di libertà, di diritto e di democrazia. Ma la guerra in Iraq mi ha svelato il suo vero volto, avido e arrogante”. Leggendo il Corano scopre l’hijab e così, nel 1991, sceglie di indossare il velo. “Era un modo per mostrare la mia solidarietà a tutta la comunità musulmana, ai martiri di Baghdad e a quelli della Palestina”. In quello stesso anno sposa Karim Mejjati, un giovane studente che ha conosciuto nell’istituto dove lavora. Padre commerciante e madre francese, Karim è cresciuto nella borghesia laica di Casablanca, e viaggia spesso negli Stati Uniti. Incoraggiato dalla moglie, il peccatore “che non esitava a mangiare maiale e a bere alcolici” recupera il cammino verso l’ortodossia. “All’inizio non capiva la mia ostinazione – ricorda Fatiha - non parlava bene l’arabo e fui io a regalargli una copia del Corano tradotta in francese”.
Karim Mejjati diventa ben presto un musulmano rigoroso, “sensibile alle sofferenze inflitte ai suoi confratelli e pronto a combattere in loro difesa”. Così nel 1993 lascia la famiglia per raggiungere la Bosnia, “senza il sostegno di alcuna rete militante o terrorista”, riferisce la vedova, che poi precisa: “l’avrei seguito anch’io se al tempo non fossi stata in cinta di Adam. Era nostro dovere partecipare al jihad per fermare il massacro”. Le violenze subite dalla popolazione musulmana, a Sarajevo come a Srebrenica, provocano un secondo choc in Fatiha Mejjati, che nasconde la sua pena sotto il nikab, “simbolo di attaccamento all’islam e manifestazione del dolore generato dalla pulizia etnica serba”. Al rientro in Marocco il mujaheddin riprende la sua normale attività da commerciante. I contatti con gli imam radicali si infittiscono, come del resto i sospetti della polizia fin quando, nell’agosto del 2001, Karim decide di partire per l’Afghanistan assieme alla moglie e ai due figli. “Avevamo bisogno di vivere seguendo i precetti della legge islamica”, confessa Fatiha, che descrive i “momenti straordinari” trascorsi a Kabul con parole cariche di nostalgia. Poi, cogliendo forse una nota di incredulità nel mio volto, aggiunge: “mio marito ed io siamo cresciuti immersi nella cultura occidentale. Per qualche mese ci siamo anche trasferiti in Francia, dove a causa delle nostre idee abbiamo conosciuto l’intolleranza e il razzismo. So di cosa parlo quando dico di aver fatto una scelta e di preferire un certo tipo di vita”.

Dal paradiso all’inferno
L’11 settembre e la risposta militare americana contro l’Afghanistan costringono i Mejjati a ripiegare su Kandahar. Il “paradiso” si trasforma in inferno. “I miei vicini hanno perso la vita sotto i bombardamenti. La nostra casa è stata distrutta – racconta Fatiha - non volevo lasciare Kandahar, ero pronta a morire laggiù. Mi sono rifugiata in Pakistan solo dopo che il mullah Omar ha ordinato l’evacuazione”. Karim resta a combattere al fianco dei Talebani e approfitta dell’occasione per integrare i ranghi di al-Qaida. La vedova, dopo un lungo istante di silenzio, riprende le redini della conversazione e puntualizza il concetto: “è grazie a Bush e alla sua guerra se mio marito è diventato un terrorista. Ho letto fin troppe menzogne nella stampa marocchina e internazionale. Fino al momento dell’aggressione americana Karim non aveva niente a che fare con Bin Laden”.
La famiglia Mejjati si ricongiunge a Karachi, ma il paese brulica di militari e di spie. Per un mujaheddin in fuga dall’Afghanistan, non è un luogo sicuro. Dopo un passaggio in Bangladesh, “il tempo necessario ad al-Qaida per farci avere i passaporti falsi”, l’ingresso in Arabia Saudita alla fine del 2002. “Cercavamo ancora la sharia, sognavamo la terra santa, ma tutto quello che abbiamo trovato era uno stato di polizia, dove noi non eravamo i benvenuti”. A Ryad la pressione dei servizi di sicurezza è asfissiante e i Mejjati, finiti sulla lista nera dell’Interpol, riescono a nascondersi solo grazie al sostegno della rete. “Era un incubo, non lasciavamo mai l’abitazione, a parte i casi di estrema necessità”. Il 23 marzo 2003 Fatiha esce di casa per andare dal dentista, accompagnata dal primogenito Elyas, al tempo undicenne. Durante il tragitto madre e figlio vengono sequestrati dai servizi segreti sauditi e, dopo tre mesi di internamento, trasferiti clandestinamente in Marocco su un volo CIA. “Scesi dall’aereo ci hanno rinchiuso in isolamento. Gli interrogatori sono andati avanti per mesi, tra minacce e insulti di ogni tipo. Io ero malata, avevo il cancro e accusavo i postumi di una tubercolosi mal curata. Per aggravare il mio stato di salute lasciavano la finestra della cella aperta giorno e notte”.
E’ il 17 marzo del 2004 quando Fatiha e Elyas lasciano Temara, “la Guantanamo marocchina”, un centro di detenzione segreta, gestito dai servizi di informazione dell’interno (Direction de la surveillance du territoire). Nonostante le denunce di Amnesty International e delle altre Ong internazionali, le autorità del regno continuano a negare l’esistenza della prigione. Tuttavia, dal 2002 ad oggi, sono centinaia le testimonianze apportate dai presunti jihadisti transitati nel triste luogo. Secondo le parole della Mejjati si tratterebbe di “un carcere americano”, dove la CIA appalta il lavoro sporco. “L’interesse dei miei aguzzini non era rivolto alla sicurezza del Marocco, bensì a quella degli Stati Uniti, al mio soggiorno in Pakistan e ai legami tra Bin Laden e Karim, di cui non ho avuto più notizie dal giorno del rapimento, fin quando al-Arabia ha annunciato la sua morte”, prosegue Fatiha, mentre il tono della sua voce, fin qui perentorio, si affievolisce per la commozione. Nel 2005 Karim Mejjati viene ucciso dall’esercito saudita assieme al figlio Adam, dodici anni, in una piccola località a nord di Ryad. La donna, ribattezzata dai media “la vedova nera di al-Qaida”, aspetta ancora la restituzione dei due corpi.

Mio figlio non ha colpa
Fatiha è uscita da Temara senza alcun provvedimento giudiziario a suo carico, anche se l’appartamento nel quartiere Gauthier, in pieno centro di Casablanca, resta tuttora sotto stretta sorveglianza. Quanto al figlio Elyas, ormai diciottenne, non si è più ripreso dal trauma della prigione. Per nove mesi sottoposto “ad un trattamento inumano, privato del sonno e costretto a fare i suoi bisogni all’interno della cella”, è affetto da gravi problemi psichici, che degenerano in una violenta aggressività, crisi isteriche e ripetuti atti di autolesionismo. A causa della disfunzione ormonale, dovuta alla patologia e ai farmaci, il suo peso ha raggiunto i 130 chili. “Elyas non va più a scuola”, afferma la madre mentre estrae dalla borsa alcune foto e i certificati medici. Rifiutato dai compagni, senza più amici né il sostegno dei parenti, trascorre le giornate chiuso in camera. La sua nuova cella.
L’associazione per l’assistenza medica alle vittime della tortura fornisce a Elyas consultazioni gratuite, “ma il costo delle cure è troppo elevato e i soldi che guadagno con il mio lavoro di decoratrice non bastano”, lamenta Fatiha, che nei mesi scorsi ha deciso di denunciare le autorità marocchine. “Voglio che lo Stato si assuma la responsabilità delle sofferenze imposte a mio figlio e si faccia carico delle spese richieste dalla sua terapia”. Se per il regime quelle della signora Mejjati “sono soltanto calunnie”, dal momento che “né Elyas né sua madre sono mai stati oggetto di una convocazione ufficiale”, Abderrahim Mouthad, presidente di Ennassir, è di tutt’altro avviso: “sosterremo Elyas e Fatiha al momento del processo. Il Marocco, in nome della guerra al terrorismo, continua a violare impunemente i diritti umani, condannando innocenti alla prigione e utilizzando sistemi illegali per estorcere confessioni”. La vedova Mejjati approfitta delle parole di Mouthad per lanciare un monito, che ha il sapore di una premonizione: “le politiche repressive messe in atto dai paesi arabi non fanno altro che alimentare l’ostilità dei veri musulmani, stanchi di governi subdoli e corrotti. Non c’è da stupirsi se alcuni di loro scelgano di rispondere alla violenza con la violenza”. Poi si alza da terra e raccoglie un tappetino verde piegato con cura. Prima di congedarsi, Fatiha conclude con ritrovata decisione: “ero pronta a pagare per le mie idee e le mie scelte. Ma Elyas non ha nessuna colpa e non merita certo la punizione che gli è stata inflitta, neanche se suo padre fosse il più pericoloso terrorista in circolazione”. Dalle finestre aperte, intanto, si percepisce il richiamo lontano del muezzin. E’ il momento della salat al-maghrib, la preghiera del tramonto.

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