Fethi ha 26 anni, laureato in legge all’Università di Tunisi. Ha il viso spigoloso, come scolpito, ed una generosità sincera. Gli occhi scuri e profondi. La gestualità che accompagna le sue parole ha il tipico sapore del Mediterraneo. Parla un francese fluente, al contrario delle donne che mi guardano incuriosite alle sue spalle. Del resto non capita tutti i giorni di vedere facce nuove da queste parti, e di stranieri ancor meno.
Hammam Mellegue, 15 km ad ovest di El Kef, è un piccolo villaggio isolato sorto ai lati di un complesso termale di epoca romana (II secolo d. C.). Gran parte della antica costruzione è in rovina, tranne la stanza del calidarium, ben conservata. All’interno un piccolo lucernario consente a deboli raggi di sole di fendere l’oscurità: la pietra gialla delle pareti ha ceduto ad una lieve tinta rossastra, probabilmente dovuta al contenuto ferroso dell’acqua.
Hammam Mellegue, 15 km ad ovest di El Kef, è un piccolo villaggio isolato sorto ai lati di un complesso termale di epoca romana (II secolo d. C.). Gran parte della antica costruzione è in rovina, tranne la stanza del calidarium, ben conservata. All’interno un piccolo lucernario consente a deboli raggi di sole di fendere l’oscurità: la pietra gialla delle pareti ha ceduto ad una lieve tinta rossastra, probabilmente dovuta al contenuto ferroso dell’acqua.
Fethi mi invita a conoscere la sua famiglia e mi fa strada verso casa, una struttura costruita in pietre e calce a due passi dalle terme. Nel portico accogliente, ombreggiato, ricoperto da vitigni già carichi di piccoli grappoli rossastri, c’è un intero harem ad attendermi. Mentre ci avviciniamo mi racconta la storia di Hammam Mellegue, dalla lontana origine romana fino ad oggi. La sua famiglia ha il compito di custodirlo da due generazioni: sessant’anni trascorsi in un anfratto remoto della regione di El Kef, dove la strada, dopo una serie di tornanti insidiosi, termina senza preavviso in uno spiazzo sterrato prima di gettarsi in un burrone scosceso. Sotto la scarpata c’è un fiume, l’Oued Mellegue, e poi l’Algeria, quasi un miraggio nascosto da montagne irte e brulle.
Fethi entra in casa e mi lascia solo in compagnia delle donne che, oltre a lui ed al padre, compongono la famiglia. Incuriosite, si sono radunate tutte attorno a me e avanzano timidamente qualche domanda, chi in francese chi in arabo, per cercare di saperne di più su questo ospite inatteso. Selima, la madre di Fethi, è seduta alla mia sinistra, distesa elegantemente in un vecchio materasso. Il suo foulard scuro scende libero lungo la schiena, non è bloccato sotto il mento e lascia intravedere i lunghi capelli corvini. E’ un piccolo segnale che denota il potere di questa donna all’interno del contesto familiare. Il suo sguardo fiero, la sua postura ieratica, confermano subito questa mia sensazione. E’ lei che, appena mi siedo nel piccolo sgabello di legno, prende in mano la situazione: si alza e scompare velocemente all’interno della porta che immette nulla cucina.
Alla mia destra c’è Salwa, la nonna paterna di Fethi. I tatuaggi che porta in fronte e nelle guance, come pure i bracciali d’argento finemente lavorati che risplendono ai suoi polsi, testimoniano in modo inequivocabile la sua origine berbera. Ciocche di capelli arancioni, freschi di henné, sfuggono al foulard verdastro, sfumato anch’esso di color arancio, adagiato in maniera leggera e quasi distratta sulla testa. Al suo fianco c’è Aliya, la sorella di Fethi. Trent’anni e una bellezza sincera, leggermente svanita sotto i colpi del sole e della fatica. Dalle sue spalle fa capolino una testolina incerta. E’ il piccolo Ali, suo figlio. Ali sembra intimorito dalla mia presenza. Forse è la macchina fotografica a spaventarlo, forse la mia barba nera e ispida, vecchia ormai di due settimane abbondanti. Si nasconde tra le braccia della madre, in cerca di protezione. In una stretta calorosa Ali sembra trovare conforto, tanto che riprende coraggio ed inizia a fissarmi senza più timore, con occhi bruni pieni di curiosità. Cerco di avvicinarlo, gli rivolgo parole dolci, ma sfortunatamente non può capirmi, non conosce né il francese né l’arabo classico ed io non so parlare tunisino. Ciò nonostante i nostri sguardi già testimoniano l’inizio di una tacita intesa fatta di smorfie e sorrisi. Ci penserà lo zio Fethi a raccontargli la storia del viaggiatore barbuto. Nel frattempo si avvicinano altre donne, anch’esse appartenenti alla famiglia. Si accomodano con discrezione, dopo aver salutato tutti i presenti.
Selima esce dalla cucina con in mano un vassoio di plastica verde, su cui troneggia una tazza di caffè arabo che mi offre con cortesia. Fethi invece, si è portato dietro uno strano quaderno. Inizia a mostrarmi le foto che i pochi viaggiatori giunti fin lì gli hanno spedito una volta tornati a casa. Il rito dell’album fotografico sta molto a cuore al mio nuovo amico. Ci tiene a spiegarmi le storie legate ad ogni singolo individuo ritratto nelle immagini che scorre lentamente, con un pizzico di nostalgia.
La calma delle parole, dei racconti mandati a memoria viene però interrotta da un rumore lontano. Dopo qualche istante, nel fianco della collina che si innalza di fronte all’abitazione, punteggiata da grossi massi e cespugli di rovi ormai arsi al sole di un’estate rovente, appare la sagoma di un uomo in sella ad un mulo. L’animale procede lentamente, ma con sicurezza, come se conoscesse già le insidie del percorso. “Quello è mio padre di ritorno dalla fattoria” dice Fethi indicando l’uomo apparso in lontananza. Per tirare avanti e sopravvivere la sua famiglia ha ottenuto le terre nei dintorni delle terme dal governo del presidente Bourguiba. Tuttavia le pareti pietrose dei pendii circostanti non sono certo adatte allo sfruttamento agricolo, così il nonno ha deciso di utilizzarle per l’unico scopo possibile, l’allevamento di ovini.
La fattoria di famiglia conta ora una ventina di capre e qualche pecora, il necessario per assicurare carne grassa e sostanziosa nei freddi mesi invernali. “In gennaio la temperatura scende costantemente al di sotto dei dieci gradi” mi ricorda Fethi, “e non è difficile assistere a nevicate abbondanti”. Faccio fatica ad immaginarmi questa terra, così rossa, calda e irregolare, ricoperta da uno strato candido e uniforme di neve gelata. Per un attimo un brivido di piacere percorre la mia schiena fradicia di sudore.
Finisco la mia tazza di caffè sorseggiandola con calma, come è costume in questa sponda del Mediterraneo. Il sole si sta abbassando verso l’orizzonte ed è tempo di riprendere il viaggio iniziato da Tunisi due giorni fa; la strada per Tabarka è ancora lunga, meglio percorrerla prima che si faccia buio. Ringrazio Fethi e la sua splendida famiglia. La spontaneità della loro accoglienza mi ha sorpreso; non è scontata in un Paese dove gli eccessi del turismo hanno barbaramente impoverito i rapporti umani tra stranieri e tunisini. Prima di andarmene prometto che invierò le foto scattate durante la siesta: voglio ritagliarmi anch’io una nicchia nel loro scrigno di ricordi.
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