“Taxi!”, grido all’angolo tra avenue Bourguiba e avenue de Paris. “Buonasera, Bab Saadoun, suk Sidi Abdessalem per favore”, snocciolo a memoria una volta seduto accanto all’autista. “Suk Sidi Abdessalem?”, mi guarda stupito mentre accelera con decisione, “ma a quest’ora non c’è niente, non è un posto sicuro. Glielo sconsiglio”. Non gli presto attenzione e con un cenno distratto lo invito a proseguire senza troppi problemi. Dalle mie labbra solo una battuta lapidaria: “vivo là”. Ma le sue parole continuano a ronzarmi in testa.
Suk Sidi Abdessalem, un dedalo di strade che si incrociano tra discariche di fortuna e case fatiscenti. Ad ogni angolo i venditori ambulanti espongono merci di seconda mano e aspettano seduti per terra, dalla mattina al calar del sole, di concludere qualche buon affare: camicie, scarpe, canottiere, pezzi di ricambio per cellulari, cd musicali, tavolini e quant’altro sono in vendita per pochi millim. Poco lontano frotte di ragazzini giocano a pallone in mezzo a cumuli di immondizia abbandonati da giorni, sotto lo sguardo perplesso di alcune pecore impaurite, finite lì per non so quale ragione: quasi tutti portano fieri la maglia a strisce gialle e rosse della squadra locale, l’Esperance Tunisienne.
Le fogne non funzionano, i canali di scolo sono bloccati da anni, forse decenni, ed il risultato è un fetore disgustoso. Le case sono piccole e basse, ammassate le une sulle altre. In alcuni casi alle pareti manca ancora l’intonaco. Muratura in calce e mattoni a vista. Probabilmente i soldi sono finiti all’improvviso e per completare i lavori si aspettano tempi migliori. Tempi lontani. Il ferro dei piloni in cemento armato, ormai arrugginito, fa capolino dai tetti, sotto lo sguardo immobile delle antenne satellitari. Se ne contano a centinaia. Basta alzare la testa e si resta impressionati dalla selva di parabole che spuntano da ogni lato. Illusioni lontane concesse, almeno quelle, a buon mercato. L’unico modo, forse, per oltrepassare, anche solo virtualmente, le frontiere di una condizione sempre più misera e opprimente.
E’ questa la Tunisi dove vivo, a due passi dalla celebre piazza Bab Saadoun. Il quartiere sorge nella zona nord occidentale della città, un prolungamento quasi naturale della vecchia medina che con i suoi mercati tinge di colori e vivacità rue Halfaouine e rue Sidi Abdessalem. Un arcobaleno di verdure, frutta e dolci è esposto ogni giorno in banchi improvvisati, carri o semplici teli stesi sui marciapiedi. Risalendo da Bab Suika fino al mausoleo in cui riposa, quasi dimenticato, Sidi Abdessalem, si incontrano luoghi meravigliosi, come la moschea Sidi Marhez, con le sue nove cupole candide e lucenti. Un capolavoro di architettura ottomana, l’unico segno tangibile lasciato in eredità dal Bey dopo cinque secoli di dominio sulla città. Un po’ più avanti, in piazza Halfaouine, svetta il minareto della moschea Youssef Sahib El Taba. Verso sera, quando il traffico di boulevard Hedi Saidi placa la sua furia, la voce del muezzin, che richiama i fedeli all’ultima preghiera della giornata, arriva ben scandita fino alla finestra della mia stanza, distante solo poche decine di metri.
Forse ha ragione il tassista, Bab Saadoun non è un posto troppo sicuro. Ma addirittura “sconsigliabile”! Cosa significa questa parola? Domande confuse mi assalgono. I pensieri partono, in cerca di risposte. Provo a mettere ordine nella mia mente.
Bab Saadoun è un quartiere popolare. Più di una volta mi è capitato di assistere a scene di violenza. Battibecchi oziosi finiti in rissa, risposte sbagliate alle persone sbagliate. In questo posto non è difficile perdere il controllo. Per molti le giornate si susseguono inutili. Le caffetterie sono sempre piene di gente, rigorosamente uomini, da mattina a sera: anziani che trascorrono interi pomeriggi davanti allo stesso café au lait, giocando a carte o fumando una chicha. Ma anche molti giovani, disoccupati, che attendono la discrezione dell’oscurità per fare rifornimento di Celtia (la birra locale) al mercato nero. E’ dunque la sua dimensione popolare a renderlo “sconsigliabile”? Credo di sì. Sarebbe “sconsigliabile” per un qualunque cittadino tunisino? Non so. Di certo, tutto quello che intacca “l’illusione ufficiale” è meglio che non arrivi agli occhi degli stranieri. Ne farebbe le spese la propaganda di regime. Il successo economico del modello tunisino, un insieme di capitalismo di Stato e apertura deregolamentata dei mercati, perderebbe di colpo credibilità.
A Bab Saadoun invece la realtà sociale del Paese si svela nella sua essenza più profonda. La tanto decantata classe media tunisina, in teoria prodotto spontaneo di questo successo, non è altro che un’invenzione. Non esiste. Di fronte ad un’élite di nuovi ricchi c’è l’ennesimo esercito di poveri, costretti a contendersi le briciole di una torta spartita ormai da tempo. Il miracolo economico resta un miraggio lontano, una benedizione che tocca solo poche famiglie dell’entourage presidenziale.
Qui sono lontano dalle comodità dei villaggi turistici della costa. Non trovo il lusso e l’opulenza di avenue Habib Bourguiba o avenue Mohamed V. Non ci sono le luci sfavillanti che rivestono El Menzah di un benessere illusorio. Non ci sono nemmeno ville e giardini come in place Pasteur, la zona delle ambasciate e dei consolati. A Bab Saadoun ho scoperto una umanità ancora vera, per quanto a volte cruda e dolorosa. La precarietà del vivere quotidiano non è nascosta sotto ammalianti veli dorati o dietro cortine fumose fatte di alberghi di lusso, banche e palazzi ministeriali. Qui la posso toccare con mano. Basta che mi incammino per strada, tra la gente, nei mercati. In tutte le mie promenades non mi sono mai imbattuto in uno straniero. Nemmeno una volta. I turisti non vanno oltre la moschea Zituna, non si allontanano dagli “itinerari consigliati”.
Mi torna alla mente Zarkhan, un ragazzo del quartiere che ho conosciuto pochi giorni fa. E’ cameriere al café Ninfa, un posticino tranquillo dietro la stazione del tram, a due passi dal foyer dove alloggio. Il locale è del fratello e lui ci lavora quasi gratis. Lo immagino ancora seduto a fianco al chiosco di Nizar, mentre aspetta la cena: brik tunisien. Un uovo, tonno e prezzemolo racchiusi in una sfoglia croccante affogata nell’olio bollente. Le sue parole non le ho dimenticate. Vuole partire, vuole andarsene, in Francia o in Italia non importa. Anche lui vuole poter giocare le sue carte. “Sono stanco di questa palude. Tunisi ti risucchia, ti paralizza” – afferma scrollando la testa in segno di disappunto. Poi prosegue, “qui non c’è lavoro, non c’è futuro se non conosci le persone giuste. Si vive alla giornata, rinunciando ai sogni e alle speranze”. Ottenere un visto regolare è una chimera, e al mercato nero i prezzi sono una follia. Una follia che può costare anche 2500 euro. Una follia che un ragazzo senza soldi come Zarkhan non può permettersi. L’alternativa è la traversata clandestina. Conosce il punto da dove partono i pateras verso le coste italiane, non lontano da Biserta, ma questa soluzione lo spaventa. Teme la violenza delle acque del Canale di Sicilia e i controlli della marina tunisina, sempre più stretti dopo gli accordi siglati dall’Italia con Ben Ali.
Ricordo perfettamente il suo sguardo. Spento, rassegnato. Le frasi sussurrate appena, con timore. “Ogni volta che mi ritrovo a fare questi discorsi ho paura che passerò dei guai” – ha precisato prima di andarsene. “Da queste parti bisogna sempre fare attenzione alle persone con cui si parla, a chi ascolta con aria distratta, a chi osserva da lontano. Così le angosce restano dentro di te, intrappolate. Stanno lì a logorarti”. La sua frustrazione è la stessa di migliaia di ragazzi nelle sue condizioni.
Ci sono domande che in questo Paese non si devono fare. Problemi che non possono essere sollevati. Ufficialmente non esistono, quindi non troveranno mai una soluzione. Corruzione, disoccupazione e voglia di emigrare sono temi tabù. Trasgredire significa rischiare il carcere. Niente, infatti, deve intaccare l’immagine paradisiaca che il marketing dell’industria turistica (introito principale dell’economia nazionale) ha abilmente preconfezionato e venduto all’estero. Tuttavia, dietro agli indicatori macroeconomici positivi, che fanno della Tunisia lo Stato più florido dell’area maghrebina, si nasconde una realtà sociale drammatica. Il partito al potere monopolizza la scena politica, mentre all’opposizione è negata ogni possibilità di espressione e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Le denunce delle ONG impegnate in questo campo, come Amnesty International, Human Rights Watch e Reporters sans Frontieres cadono nel vuoto. I loro siti web sono oscurati dal sistema nazionale di controllo informatico. Nei Paesi occidentali di questo non si parla, neanche in quelli più vicini (vedi Italia), che restano fedeli alleati del regime. Dietro ad un pluripartitismo di facciata si nasconde uno stato di polizia pronto a reprimere ogni dissenso. Per noi, parte di quel mondo definito “democratico e industrializzato” è sufficiente avere libero accesso alla vera risorsa del Paese, la manodopera a basso costo. Le multinazionali del tessile e della meccanica possono delocalizzare alle migliori condizioni: niente tasse, un controllo statale totalmente assente e stipendi che raramente arrivano a 225 dinari al mese (120 euro), la soglia fissata dallo SMIG (salario minimo garantito). Per questo la comunità internazionale è sempre pronta ad elogiare il modello economico tunisino. Per questo passa facilmente sopra alla deriva autoritaria del Paese e alle violazioni dei diritti umani. E’ proprio la stabilità assicurata da questo tipo di controllo e di regime a permetterle affari d’oro quaggiù.
Il tassista richiama la mia attenzione con un energico “on est arrivé”, quando non restano che poche decine di metri a destinazione, ma faccio fatica a sbarazzarmi di questi pensieri. Il viale Hedi Saidi è pressoché deserto. Gli ultimi sprazzi di luce combattono contro un’oscurità che lentamente avvolge il fitto agglomerato di casupole ai lati della strada. La vita del quartiere, animata e caotica durante il giorno, si spegne piano piano. Anche gli ultimi venditori, probabilmente insoddisfatti per una giornata fin troppo magra, abbandonano il mercato con la testa bassa e il passo pesante. Riconosco il bar di Marwan, dove passo ogni notte prima di andare a letto per un ultimo tè alla menta. L’insegna luminosa della farmacia, la saracinesca gialla della teleboutique e subito a fianco l’épicerie di Saif, il mio fornitore di Mars legères. Appena scendo dal taxi avverto la puzza di fogna, ormai familiare, che mi attende al rientro ogni fine giornata. Arriccio il naso, mi guardo intorno con aria soddisfatta e sorrido. Mi sento a casa.
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