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martedì 1 settembre 2009

Io vivo qui

"Io vivo qui" è l'ultimo capitolo del libro Je ne partirai pas, scritto dal giornalista e oppositore tunisino Taoufiq Ben Brik. Ecco la traduzione. 

Sono stanco della “prigione senza sbarre”. Voglio andare a vedere da vicino, voglio toccare con mano la vita di Hay El Akrad, il quartiere dei Curdi, il culo di Tunisi, l’antitesi di quell’immaginario pittoresco che il mio paese suscita nelle menti di migliaia di turisti. Ci siamo! E’ a soli trenta minuti da Bab El Bahar, la Porta del mare. Arriviamo in mezzo ad una baraonda infernale, motorini che provengono da ogni direzione e venditori ambulanti abusivi che urlano e schiamazzano…



Domando ad un amico che mi guida, un habitué di questi posti, se c’è pericolo. “Non troppo”, risponde alzando le spalle. Dalla sua risposta capisco che Hay El Akrad è un luogo molto pericoloso. “I responsabili non osano metterci piede, hanno paura. Ma i responsabili e gli uomini del partito (al potere, ndt) sono dei vigliacchi. Tu sei un giornalista no?! Basterà che non ti allontani troppo da me”. Secondo lui, infatti, per quanto un giornalista possa essere vile, per nulla al mondo può perdere l’occasione di fare un giro dalle parti di Hay El Akrad. Ed ha ragione. Lo capisco subito, non appena metto piede nel quartiere: a confronto Chicago dovrebbe assomigliare ad un asilo per bambini. Frecce artigianali svelano con discrezione l’ubicazione dei bar clandestini. Appoggiate agli stipiti alcune donne si offrono ai passanti per modiche cifre, ovviamente contrattabili. Entriamo in una catapecchia oscura e infetta, dove creature sporche e lascive, che sembrano arrivare direttamente dalla “Guerra del fuoco”, bevono con parsimonia le ultime gocce di vino. Il pericolo si percepisce nell’aria, come se da un momento all’altro, senza un motivo preciso, l’illusione di pace che ci circonda potesse trasformarsi in uno scoppio di violenza.
Me ne vado e, guidato dal mio amico, entro in una casa. Ma quando dico “casa” bisogna capirsi. Le case ad Hay El Akrad sono miseri tuguri di tre metri per quattro. In uno di questi tuguri vive il vecchio Lakhdar, assieme a sua moglie e ai suoi otto figli: dieci persone asserragliate in dodici metri quadrati! Una tale densità è la norma in tutto il quartiere. Vicino alla casa dei Lakhdar ci sono quattro rubinetti per l’acqua potabile, ma tre sono fuori uso da due settimane.
Per un secchio d’acqua fresca dunque bisogna rimanere in fila almeno due o tre ore.
Il vecchio Lakhdar, malato da un anno, ha smesso di lavorare. Sua moglie ha trovato un lavoro, come tuttofare, ad Hay Ennasser, il quartiere dei nuovi ricchi. Guadagna centoventi dinari al mese (65 euro, ndt). Uno dei figli, quattordicenne, lavora invece in un’edicola di giornali per cento dinari al mese (55 euro, ndt).
In casa Lakhdar si vive con venti dinari per persona al mese, quando un chilo di semola costa più o meno un dinaro. Ma si può raccontare la vita della gente di Hay El Akrad solamente con le cifre, per quanto queste siano incredibili? Quello che so è che la settimana scorsa la moglie di Lakhdar è rientrata con un drole d’air: ha visto la sua padrona comprare un vestito a duemila dinari. Quasi venti mesi del suo salario spesi in un colpo solo; non credeva che qualcuno in tutta Tunisi possedesse una tale somma.
Il sogno di tutti qui nel quartiere è di lavorare un giorno nelle industrie tessili. Lì pagano un salario da re: lo SMIG (Salario Minimo Istituzionale Garantito, in Tunisia equivalente a 225 dinari, cioè 120 euro. Ndt). Per ottenerlo bisogna battersi degli anni, prima accontentandosi del contratto a giornata, poi tenendo duro, sempre pronti ad elargire sorrisi al caporeparto. Ci si accontenta perciò di lavori precari, quasi miracolosi, e ci si stupisce ogni mattina di avercelo ancora. Eh sì, sono tanti i candidati che aspettano sulla soglia il minimo passo falso, pronti a subentrare per un salario ancora più basso!

Lasciamo i Lakhdar un momento per incamminarci nelle stradine di Hay El Akrad. Melma fetida, canali di scolo bloccati dal fango, immondizia a perdita d’occhio… Le vie, oltre ad essere intasate da fango e immondizia, sono affollatissime, piene zeppe di gente in ogni centimetro, conteso accanitamente. Chioschi, poco più grandi di scatole per giocattoli, si ammassano gli uni sugli altri. Uno vende Tabouna (pane fatto in casa, nda), un altro Ftaier (frittelle, nda), un altro benzina, un altro ancora del carbone. Un mese fa un vero e proprio diluvio si è abbattuto sul quartiere, che è scomparso sotto un buon metro di acqua nerastra su cui galleggiava ogni sorta di immondizia. Per giorni e giorni gli abitanti di Hay El Akrad hanno subito le conseguenze dell’alluvione. Le notti erano un vero inferno: ogni famiglia si radunava sopra il letto, il solo posto asciutto in tutta la casa. Due ore di sonno a testa, turni prestabiliti. Il resto della notte in attesa a bagnarsi.
Passo a fianco ad una marea ignobile, dove un gruppo di bambini si inzaccherano felici. Sanno ancora sorridere, i loro sguardi, folgoranti, esprimono gioia. Capisco il fascino che rapisce la mia guida: da Hay El Akrad, sprofondata fino ai capelli nella miseria più nera, sale costantemente il vociferare gaio dei bambini, che lavorano già dall’età di dieci anni, ma che non possono fare a meno di ridere, immersi nella polvere o nella melma fangosa. “Senza i bambini questo quartiere sarebbe un gulag”, confessa il mio amico.

In casa dei Lakhdar, dove torniamo per trascorrere le ultime ore del pomeriggio, una lampadina accesa pende dal soffitto. E’ un lusso raro da queste parti. Quando Lakhdar si è ammalato, i suoi vicini, che vivono in condizioni economiche un po’ meno disastrate, hanno fatto arrivare il filo elettrico fino a casa sua, senza avvertirlo, condividendo in questo modo qualche watts. Un aiuto silenzioso, una solidarietà forse fredda, ma efficace: nessuno può considerarsi solo nella spianata di Hay El Akrad. Familiarizzando con il disastro giorno dopo giorno si arriva a vincere la più favolosa delle scommesse: non morire troppo velocemente.
Quella di Hay El Akrad è una storia che Tarkovski racconta in modo più efficace. Un uomo tira fuori un altro uomo da un mare di merda, enorme, profondo. Stava già soffocando. Lo tira fuori rischiando la sua stessa vita. I due sono distesi sul bordo di questo mare orribile e non riescono a riprendere fiato. Alla fine quello che è stato salvato si gira verso l’altro e dice: “Che cosa ti è preso? Perché mi hai tirato fuori? Io vivo qui”.

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