[Galatea] Atterrare
a Marrakech e scoprire, qualche chilometro dopo l'aeroporto, la sontuosità del
palazzo La Mamounia, i fasti dell'hotel Royal Mansour o dei riad nascosti nella medina, a pochi
passi dalla celebre Jamaa al-Fna, è una sensazione che non lascia indifferente
nemmeno il viaggiatore più immune al fascino orientalista. Come del resto, passeggiare
sul lungomare di Casablanca lasciandosi sorprendere dalla grandiosità della
moschea Hassan II e dai cantieri di un rinnovato skyline in vetro e cemento, non
può che far pensare ad un paese dinamico e aperto alla modernità. Un paese in
pieno sviluppo, che "offre a tutti un'opportunità", come recitano le
brochure del ministero dell'economia. Allora perché i giovani continuano a
lasciare il paese? Perché si ha la sensazione, cantano gli Hoba Hoba Spirit,
"di stare come grilli nell'insetticida"?
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Jama'a al-Fna, Marrakech (Credit foto: Jacopo Granci) |
Perché
dietro alla facciata e ai panorami turistici da cartolina c'è Un altro Marocco, per rubare
l'espressione al poeta Abdellatif Laabi, che nella sua ultima opera denuncia
una strategia governativa fondata su promesse e apparenza, e si sofferma sulla
mancanza di un reale progresso umano, economico e politico. Perché il tasso di
crescita al 4%, che nell'ultimo decennio ha dipinto il regno alawita come uno
dei paesi più promettenti, non corrisponde ad un effettivo sviluppo, non
assicura la redistribuzione della ricchezza e non cancella le profonde
disuguaglianze sociali. Perché l'aver attraversato (quasi) indenne un periodo
di turbolenze e sconvolgimenti istituzionali, come quello che ha appena interessato
altri paesi della regione, non significa l'assenza di lotte sul territorio, di
rivendicazioni collettive, di esistenze al limite della sofferenza. Perché esiste
un "Marocco profondo" fatto di precaria quotidianità e di silenziosa
ricerca della dignità. Un Marocco che difficilmente balza agli onori delle
cronache, complice il bavaglio mediatico che lo circonda, ma che merita di
essere scoperto e conosciuto.
Le "mule" di
Melilla
Ogni
giorno migliaia di marocchine attraversano il confine che le separa dalla
piccola enclave spagnola, situata nella costa mediterranea del regno. Alcune lo
fanno per rifornirsi di merci troppo care dall'altra parte della frontiera. La
maggioranza invece contrabbanda alla luce del sole prodotti di ogni genere,
dai
vestiti alle coperte, dagli utensili per la casa ai pezzi di ricambio per
automobili, dai televisori agli alcolici. Ad agevolare questo comercio atipico, gli accordi siglati
tra Madrid e Rabat che permettono la circolazione giornaliera senza visto a
Melilla (e Ceuta) per gli abitanti dei comuni limitrofi. Le categorie sociali
che beneficiano dei traffici sono diversificate: oltre quattrocentomila
persone, secondo stime ufficiose, al di qua e al di là del confine. Dalle
famiglie più povere, che sopravvivono grazie agli spiccioli delle staffette,
agli intermediari marocchini, che ne sfruttano la miseria per arricchirsi. Dai
compratori dei grandi centri urbani dove le merci vengono vendute a prezzi
vantaggiosi, ai commercianti dello scalo spagnolo, che senza il contrabbando
sarebbero costretti a cambiare mestiere, considerati i magri consumi di una
città di appena 66 mila abitanti.
A
tenere in piedi un ingranaggio ben rodato, che ogni anno muove un quantitativo
di beni pari a 700 milioni di euro, è la fatica e il sudore delle
"mule". Nabila è una di loro. Si sveglia tutte le mattine alle cinque
e costeggia il reticolato alto sette metri che protegge la fortezza Shengen,
per raggiungere il Barrio Chino. E' in questo punto che la donna entra in territorio
iberico per caricare sulle spalle il fardello quotidiano, fissato al petto e al
bacino con scotch e cordami, e riparte nell'altro senso piegata sulle ginocchia,
riuscendo a muovere a stento un passo dopo l'altro. "All’inizio pensavo di
non reggere - racconta Nabila, sulla quarantina - fare la portatrice è un
lavoro massacrante, ma ormai mi sono abituata". Ha appena concluso la
prima tratta della giornata, per un compenso di 50 dirham [meno di 5 euro]. I
carichi più pesanti, all'incirca un quintale, vengono pagati un po' di più. Con
una smorfia di sofferenza sul viso deposita il "pacco" in un pick-up
e ritorna ciondolante verso la fila in attesa, pronta a passare di nuovo dall'altra
parte. Un secondo viaggio le permetterebbe di raddoppiare il magro guadagno, da
riscuotere a fine giornata. Ma il varco rimane aperto poche ore e solo le più
resistenti riescono a compiere il tragitto due o tre volte prima della chiusura.
A
complicare la situazione il "pudico" sussulto delle autorità che, anziché
offrire soluzioni meno degradanti, ha optato per il trasferimento dell'attività
transfrontaliera dal vecchio accesso (Beni Enzar), ora riservato al traffico
dei veicoli, al Barrio Chino, piccolo attraversamento pedonale nascosto allo
sguardo di vacanzieri in crociera o turisti in arrivo da Almeria. "Prima
non si formavano queste code immense. A Beni Enzar c'era molto più spazio, qui
i tornelli sono troppo stretti - spiega la portatrice - e a volte è davvero difficile
passare con le nostre zavorre. Così, oltre alle botte dei poliziotti che
reclamano il bakchich [una sorta di
pedaggio], rischiamo di ricevere calci e spintoni da quelle che restano
bloccate dietro di noi".
Nabila,
fino a qualche anno fa operaia in uno stabilimento tessile, è riuscita a tirare
avanti dopo la chiusura della fabbrica solo grazie a questa attività. Non può
rinunciare alla sua unica fonte di sostentamento, ma non per questo trattiene
le sue critiche: "Spagna e Marocco sono ugualmente responsabili della
situazione, delle violenze che subiamo. Traggono vantaggio dal lavoro
estenuante delle mule senza correre il minimo rischio e senza offrire in cambio
strutture adeguate. Alla tv sento parlare di accordi commerciali, di
prospettive di sviluppo tra i due paesi, ma della nostra condizione nessuno
dice niente".
I dannati del carbone
di Jerada
Cambio
di scenario, nord-est del paese. Lasciando Oujda in direzione sud e percorrendo
una cinquantina di chilometri lungo la statale 19, si arriva ad una piccola e
all'apparenza anonima città di minatori adagiata sull'altopiano spoglio
dell'Orientale. L'intera area, all'inizio del secolo, era ricoperta da una
fitta boscaglia disabitata. Fino a quando una rivelazione inattesa - la
presenza di enormi riserve di carbone che ha attratto lavoratori da ogni angolo
del regno - ha cambiato in poco tempo il volto dell'intero paesaggio. Oggi, sull'orizzonte
urbano esposto al degrado, si staglia nitida una montagna nera, da cui sale verso
il cielo un rivolo di fumo biancastro. Ricordo di un passato
"glorioso". "Quello è il simbolo di Jerada. Rifiuti e scarti
provenienti dalla miniera accumulati lì anno dopo anno", informa l'autista
del grand taxi.
Le
gallerie scavate nel sottosuolo sono chiuse dal 2002, da quando la società
statale incaricata dell'attività estrattiva ha licenziato i 7 mila operai
perché il prodotto non era più competitivo sul mercato. La battaglia sindacale
che ne è conseguita ha spinto l'azienda ad indennizzare i lavoratori,
assicurando almeno per un po' la sopravvivenza della popolazione. Le
alternative promesse, invece, non le ha ancora viste nessuno. Così "a
parte la centrale elettrica e i piccoli commerci, gli abitanti sono tutti
disoccupati", spiega Jamal Allay, sindacalista e attivista per i diritti
umani. Di fronte ad una tale situazione, molti ex-minatori hanno deciso di riprendere
in mano gli attrezzi per estrarre un po' di antracite e venderla al dettaglio. Bloccato
l'accesso ai tunnel, hanno cominciato a scavare loro stessi dei
"pozzi" - cendriatta nel
gergo dei carbonai - con mezzi artigianali e in condizioni di sicurezza inesistenti.
Pur di rimediare qualche sacco di carbone, sono disposti a calarsi fino a 60
metri di profondità, il più delle volte muniti soltanto di martello e
scalpello.
Alcuni
notabili della regione hanno fiutato le grandi possibilità di guadagno offerte
dal nuovo sistema di estrazione e, in accordo con le autorità locali, hanno
ottenuto l'esclusiva sui permessi di ricerca e sfruttamento, oltre al monopolio
della commercializzazione del prodotto. Quasi tutti gli operai, oggi, lavorano
per loro: sono pagati a cottimo, senza potere contrattuale per stabilire le
tariffe né ammortizzatori sociali o altra sorta di garanzie. Sulle colline si
scava a caso, affidandosi ai ricordi e all'esperienza dei veterani. Nell'ultimo
decennio le perforazioni sono andate avanti in maniera ininterrotta e i pozzi
continuano a spuntare come funghi attorno alla città. Sono circa duemila gli
operai che si immergono quotidianamente nelle cendriatta, con una corda come sostegno e pezzi di legno per
puntellare i 40 cm di ossigeno erosi alle pareti, in fondo al cunicolo.
"Un
pozzo dà lavoro ad almeno sei persone: due minatori che scavano e quattro aiutanti
che si occupano del trasporto in superficie - riferisce Aziz il
volto nero coperto di fuliggine, appena riemerso dalle viscere della collina -
per un guadagno giornaliero che oscilla tra i 70 e i 100 dirham [7/10
euro]". Poi ci sono gli addetti al triage.
Uomini e donne provvedono alla selezione del materiale estratto, che viene
scelto, lavorato e separato, a seconda della grandezza e della destinazione. Il
loro compenso varia da un minimo di 50 ad un massimo di 80 dirham. Dietro ad
ognuno di loro c'è un'intera famiglia, che tira avanti solo grazie ai proventi
del carbone.
Ma
il prezzo da pagare è alto. Vecchi e giovani lasciano all'alba le loro
abitazioni, consapevoli che la sera potrebbero non farvi ritorno. "Si
contano a decine le vittime di asfissia, rimaste intrappolate in seguito a
cedimenti o sepolte per un crollo improvviso. Indefinito il numero dei feriti,
che non possono contare su nessun tipo di assistenza", testimonia Jamal
Allay che con la sua organizzazione cerca di monitorare decessi e infortuni
occorsi nella zona. "Le ultime due vittime, in estate, erano studenti
universitari rientrati a casa per il periodo di vacanze". Per chi
sopravvive invece, oltre al pericolo e alla fatica, c'è da fare i conti con le
gravi malattie respiratorie contratte: quasi quattro quinti dei minatori sono
affetti dalla silicosi e difficilmente riescono a curarsi. "Quando era
attiva la miniera, la società e il Ministero della salute garantivano la
presenza di personale specializzato. Ora la clinica è praticamente dismessa e nessuno
ci copre più le spese mediche", riassume la situazione Aziz.
Quali
alternative hanno gli abitanti di Jerada? Nessuna, a parte l'emigrazione, come
testimonia il progressivo spopolamento della città. Le autorità locali hanno
annunciato recentemente un piano di riconversione economica, basato su turismo
e trasformazione dell'area in un parco di archeologia industriale. Il progetto
però, già in sé poco credibile visto l'isolamento di cui soffre la regione, non
sarà completato prima di dieci anni. Nell'attesa, i minatori rinnovano in
silenzio un'esistenza privata di umanità. Continuano le immersioni quotidiane
nel loro girone dantesco. Come dannati, il cui destino è alla mercé di una
risorsa teoricamente non più redditizia ma ancora sfruttata al minor costo
possibile; una risorsa che fa sopravvivere e che uccide allo stesso tempo.
Sviluppo o degrado?
Con
un'incidenza sul Pil del 6% e migliaia di posti di lavoro assicurati,
l'industria mineraria occupa una posizione di tutto rilievo sullo scacchiere
economico del regno. L'altra faccia della medaglia: le ricadute negative sulle
popolazioni insediate attorno ai siti di scavo. Nei dintorni di Khouribga ad
esempio - capitale dei fosfati distante un centinaio di km da Casablanca - il
paesaggio assume una tetra tonalità di grigio e il sole sembra quasi offuscarsi.
La pianura, estesa a perdita d'occhio, è spazzata da raffiche di vento che
sollevano un alone di sabbia e polvere proveniente dalla centrale di lavaggio
del materiale. A causa della dispersione di agenti chimici altamente
inquinanti, i terreni coltivabili sono stati in gran parte distrutti da quando
gli stabilimenti di produzione, per ridurre i costi, hanno optato per il
sistema estrattivo a cielo aperto.
Da
allora molti agricoltori della zona hanno fatto le valige per guadagnarsi da
vivere sotto altri cieli, come braccianti a giornata o manovali nei cantieri
delle grandi città, i più emigrando sull'altra sponda del Mediterraneo. "In
origine eravamo contadini, ma il degrado dell'ambiente ha reso impossibile
questa attività. Le terre non danno più frutti e gli animali muoiono in poco
tempo. Inoltre l'OCP [la società a partecipazione statale che ha il monopolio
nel settore] ha espropriato la maggioranza dei terreni con contropartite
monetarie ridicole", spiegano gli abitanti, oggi impiegati negli impianti
di estrazione e di trattamento del minerale. Ma il degrado, quando si parla di
fosfati, è un argomento bloccato dal sigillo della "confidenzialità".
Con il 25% delle esportazioni e il prezzo della materia in costante ascesa sui
mercati internazionali, i danni collaterali dell'OCP passano sotto silenzio.
Chi è rimasto a Khouribga ed è stato assunto non ha troppa voglia di mettere a
rischio il posto per sostenere battaglie ecologiste. Anche se i risultati sul
territorio sono inquietanti.
"Fino
ad ora le autorità hanno privilegiato la rendita all'equilibrio ecologico"
afferma il professor Abdelaziz Adidi, direttore dell'Institut national de
l'aménagement et de l'urbanisme di Rabat e autore di alcuni studi sull'argomento.
"L'assenza di una legislazione che imponga vincoli in materia estrattiva
ha agevolato questo tipo di politiche, sebbene «l'accesso all'acqua e ad un
ambiente sano» e «lo sviluppo sostenibile» dovrebbero far parte delle garanzie
costituzionali [art. 31] previste dall'ultima riforma del testo [2011]".
Per attuare tali misure, tuttavia, resta ancora molta strada da percorrere, soprattutto
se per farlo ci si scontra con gli "interessi superiori della
nazione" o meglio di alcuni suoi noti rappresentanti.
Occupy alle porte del
deserto
Quello
dei fosfati è un caso emblematico, ma non l'unico. Lo sanno bene gli abitanti
di Imider, da due anni e mezzo impegnati in uno scontro frontale con le
autorità e la società che sfrutta i giacimenti di argento presenti nel
sottosuolo.
Piccolo
villaggio berbero posizionato lungo la "strada delle casbah" - rotta
turistica per eccellenza che scende tra la cordigliera dell'Alto Atlante
Orientale e le prime sabbie del Sahara - Imider è poco più di una manciata di
case sparse ai bordi della corsia di asfalto, in apparenza semideserta come la
natura rossastra che la circonda. Dal 2011 infatti la popolazione locale ha iniziato
il suo "Aventino": si è accampata sulla vetta del monte Alebban,
qualche chilometro più ad est, e ha bloccato la principale stazione di
pompaggio che fornisce l'acqua alla miniera, proprietà di una holding del
sovrano Mohammed VI. Il suo sfruttamento, iniziato quarant'anni fa, non ha
determinato nessun miglioramento delle condizioni vita per gli abitanti, che
lamentano ancora oggi l'assenza di infrastrutture primarie: a Imider non ci
sono scuole, manca l'elettricità nella maggior parte delle abitazioni, internet
e perfino i giornali, mentre l'ospedale più vicino si trova a 200 km di
distanza e chi ne avesse bisogno deve pagare il carburante per l'ambulanza.
Peggio, i lavori di scavo hanno provocato il progressivo impoverimento delle
falde, oltre all'inquinamento dei terreni limitrofi a causa dei prodotti
tossici degli scarichi.
La
tensione tra le ottomila anime della borgata e i rappresentanti dell'azienda
era già emersa in passato, ma mai aveva raggiunto i livelli attuali. Ad
aggravare la situazione, l'interruzione dell'acqua corrente dovuta ai nuovi
foraggi. Per il villaggio è stata l'occasione di denunciare apertamente la
marginalizzazione economica e la depredazione delle risorse senza
contropartita. "Come è possibile che una società che fattura milioni
attingendo alle nostre ricchezze pretenda di non avere i mezzi per assicurarci
un lavoro, nemmeno a tempo determinato?" domanda Brahim, tra i leader del
movimento di protesta. In effetti, sebbene uno dei giganti africani della
produzione di argento si trovi saldamente impiantato sul territorio, gli
abitanti di Imider rappresentano soltanto una minima parte della manodopera
totale. "Una violazione flagrante degli accordi conclusi tra delegati
dell'azienda e della comunità, che fissano al 75% la soglia di impiego
riservata ai locali".
All'inizio
sono stati gli studenti rientrati dalle università e i disoccupati a guidare la
contestazione, ma alle loro fila si sono aggiunti presto tutti gli altri, compresi
donne, anziani e bambini. "Marce della sete" settimanali, per
bloccare la statale che porta i turisti verso le dune di Merzouga, e sit-in
permanente in cima alla montagna, a guardia dello chateau d'eau "che ha rubato l'acqua al villaggio". La
reazione delle autorità, di fronte al calo della capacità estrattiva (e dei
profitti) di una miniera a mezzo servizio, non si è fatta attendere. Piuttosto
che una repressione violenta, negativa in termini di ritorno di immagine per il
monarca (la sua holding Managem si sta confrontando con altri focolai di
protesta sempre in contesti minerari), è in atto una strategia di soffocamento meno
eclatante, sebbene molto in voga nel regno: black-out mediatico sulla vicenda,
intimidazioni, condanne per reati di diritto comune nei confronti degli
attivisti. Azioni e sabotaggi che non hanno ancora intaccato la determinazione
degli abitanti, pronti a rievocare per l'occasione il passato eroico delle loro
tribù di fronte alla penetrazione coloniale. Nei dintorni di Imider, spiega
Omar, si combatté negli anni '30 l'ultima battaglia per frenare l'occupazione
francese. A pochi km da quel luogo di memoria e sacrificio - il monte Saghru - va
in scena oggi una nuova resistenza. "La posta in gioco non è più l'indipendenza,
ma la nostra dignità".
"Il paradiso si è
trasformato in inferno"
Altra
regione storicamente ribelle, tanto all'occupazione straniera (spagnola in
questo caso) quanto alle imposizioni del governo di Rabat, è il territorio Ait
Baamrane, situato nella fascia meridionale del paese, al confine con il Sahara
Occidentale (occupato dal Marocco nel 1975). La città di riferimento, Sidi
Ifni, è adagiata su un promontorio roccioso che si affaccia sull'Atlantico. Il
piccolo porto, ricavato su un'insenatura poco distante dal centro, è riuscito
per decenni a tenere in piedi l'economia della borgata. Le sardine di Ifni sono
diventate un marchio di garanzia perfino nei mercati internazionali. Poi
l'arrivo delle flotte d'altura e delle reti a strascico ha ridotto i pescatori
della zona in fallimento. "I grandi pescherecci provenienti dal nord utilizzano
tecniche illegali, come le reti piombate e a maglie minuscole, massacrando i
fondali e impedendo la riproduzione", spiega Ousmane, proprietario assieme
ai due cugini di una barca di modeste dimensioni.
I
pescatori di Sidi Ifni, emarginati nel loro stesso porto dai magnati
dell'industria ittica, hanno provato ad opporsi e ad alzare la voce. Nel 2008
hanno formato un collettivo, assieme a disoccupati ed attivisti, e occupato i
moli per alcuni giorni. La violenza repressiva (decine di arresti, torture)
abbattutasi su tutta la cittadinanza viene ancora ricordata come il
"sabato nero". A stroncare il collettivo poi, oltre alla brutalità
della polizia, ci ha pensato la cooptazione politica di alcuni leader del
movimento, che hanno ceduto alle promesse e a qualche contropartita. Ora
siedono in consiglio comunale. Intanto la città, un tempo grazioso gioiello di
architettura moresca, continua a deperire e i servizi si riducono all'osso.
"Dietro la facciata decrepita dell'ospedale non è rimasto più neanche uno
specialista e i macchinari sono obsoleti", fa sapere Ousmane. "Per
tenerci buoni ci hanno offerto nuove licenze di pesca, ma che ci facciamo se il
pesce lo prendono tutto loro? Senza contare che le barche costano e chi non si
è indebitato e ha la fortuna di averne ancora una, preferisce utilizzarla per
tentare la traversata verso le Canarie".
Lo
sfruttamento intensivo delle coste marocchine, incentivato dagli accordi poco
trasparenti conclusi con flotte straniere (quello con l'UE è in attesa di
rinnovo), sta progressivamente riducendo la ricchezza alieutica del regno.
Armatori e grossisti inseguono prede e guadagni a sud, dove lo scenario che si
ripropone è sempre lo stesso. Ce lo spiega il regista belga Jawad Rhalib con il
documentario Les damnés de la mer,
che accende i riflettori sui pescatori di Dakhla. Anche qui la disparità dei
mezzi a disposizione e il dispiegamento delle reti clientelari hanno determinano
la rovina di molti, i pescatori artigianali, e il successo di pochi, i
proprietari delle grandi imbarcazioni.
Il
film si apre sulla spiaggia di La Sarga, poco distante dagli aquiloni dei kitesurfers che affollano le rive ondose
della cittadina saharawi, dove le barche e le polpare sono desolatamente
ammassate a riva. E' il periodo di fermo biologico e i lavoratori del settore
sono tutti in "disoccupazione tecnica". Tutti o quasi. Chi possiede
il capitale per "oliare gli ingranaggi" può uscire in mare senza
temere controlli né provvedimenti giudiziari. "Sopravviviamo a stento nel
paradiso del pesce… ci stanno ingannando…il paradiso si è trasformato in
inferno", commenta la moglie di un pescatore, mentre sullo sfondo due
pescherecci svedesi stanno rientrando a terra con il bottino della giornata. Il
capitano spiega in seguito, di fronte alla telecamera, che ha firmato un
contratto di fornitura con un'azienda del posto e dispone di una licenza. Si
dice soddisfatto della sua permanenza a Dakhla, guadagna bene e lavora tutto
l'anno, mentre "in Svezia la politica ha rovinato la pesca" tanto che
l'unica soluzione "è spostarsi altrove", dove non ci sono quote o
restrizioni. In realtà le quote e le restrizioni ci sarebbero anche qui, ma chi
deve assicurarne il rispetto non lo fa. Per Hassan Talbi, presidente
dell'associazione di proprietari delle barche artigianali,
"l'amministrazione è nel migliore dei casi indifferente e nel peggiore
semplicemente corrotta".
"Come mosche
attorno a una carogna"
La
metafora ittica "i pesci grossi mangiano quelli piccoli" risulta
particolarmente calzante per spiegare quanto sta succedendo nei porti
marocchini. Ma non solo. Lo stesso adagio descrive bene la situazione vissuta
in un altro settore nevralgico dell'economia nazionale, quello agricolo, che
impiega circa il 40% della popolazione attiva. Per capire meglio le
trasformazioni in atto, basta fare un giro nelle pianure del Souss, zona di
coltivazione per eccellenza situata nell'ampia vallata che circonda Agadir. Fino
a ieri popolata - come la maggior parte della superficie rurale del paese - da
piccoli contadini (fellah) dediti
alla produzione di ortaggi e cereali per il circuito locale, la piana ha ormai
mutato il suo volto ed è divenuta un esempio del nuovo modello di produzione
agricola, moderno e intensivo, veicolato dal governo e dagli accordi internazionali
di libero scambio conclusi in materia (USA, UE).
Risultato:
la comparsa di oltre 10 mila ettari di serre, riservate alle monocolture da
esportazione (agrumi, pomodori, banane) e molto dispendiose in termini di
approvvigionamento idrico, il prosciugamento del fiume Souss e la progressiva
scomparsa dei piccoli contadini, fagocitati dai nuovi colossi del settore.
"Le dighe erette per assicurare l'acqua alle aziende esportatrici hanno
abbassato il livello della falda, che in alcune zone raggiunge i 100 m di
profondità", spiega Houcine Bouchabi, segretario regionale del sindacato
di categoria (FNSA). "I pozzi sono rimasti a secco e così i fellah vendono le loro terre per pochi
soldi e iniziano a lavorare come braccianti". Chi sono questi colossi del
settore? Una lobby ristretta, formata da gruppi europei stabilmente insediati
nella zona o grandi proprietari marocchini, l'attuale sindaco di Agadir e il
monarca due esempi su tutti, a conferma del solido legame tra potere e
affarismo.
Alcuni
agricoltori hanno cercato di rimediare alla scarsa competitività unendosi in
cooperative, ma la maggior parte è stata comunque estromessa, andando ad
infoltire il tessuto del sottoproletariato rurale, assieme ai flussi di
migranti che arrivano da ogni parte del paese per offrire manodopera. Secondo
le stime della FNSA sono più di 100 mila i braccianti che lavorano nel Souss, quasi
tutti ingaggiati a giornata per una paga media di 6 euro, senza nessuna forma
di tutela. Si ritrovano all'alba nei mawqef
dei villaggi, nella speranza di essere caricati sui furgoni diretti ai campi.
"Quando usciamo di casa non sappiamo se riusciremo ad ottenere il
posto..l'alternativa è l'elemosina. A volte ci facciamo concorrenza al ribasso
pur di lavorare qualche giornata in più. Viviamo come mosche che ronzano
attorno ad una carogna", confessa Fatima, 25 anni già sfioriti.
I
tre quarti degli operai ingaggiati nella zona sono donne. "Lavorano di
più, sopportano meglio lo sforzo fisico e sono ritenute più docili dai
padroni", riferisce Bouchabi. Sono anche le principali vittime di
aggressioni sui luoghi di lavoro, come conferma Fatima: "quando lavoriamo per
10 ore nelle serre, dove la temperatura arriva a 45° e l'umidità è
elevatissima, siamo costrette a svestirci un po' per evitare di soffocare. I
caporali ci guardano con smania, quasi indemoniati..per loro siamo solo oggetti
da sfruttare, anche sessualmente". Sono numerose le testimonianze di
ragazze che hanno perso il posto per essersi ribellate ai ricatti e ai maltrattamenti.
La FNSA cerca di battersi e fornire assistenza sul territorio, ma in generale -
la sua - è una constatazione di impotenza. Sono sempre più rari gli operai
sindacalizzati nel settore agricolo, come del resto in tutta l'industria
privata: la semplice adesione al sindacato o la rivendicazione delle garanzie
contrattuali previste dalla legislazione nazionale (salario minimo, contributi
pensionistici, assistenza sanitaria) può essere causa di licenziamento.
Un Marocco a due
velocità
Mentre
il paese è scosso da tensioni e contestazioni sociali - l'occupy di Imider è
solo uno dei tanti esempi di rivolte locali registrate negli ultimi mesi - e
affronta una crisi economica strutturale che impone al governo tagli alla spesa
pubblica, la politica dei grandi cantieri-vetrina e dei progetti faraonici prosegue
indisturbata. Lungo l'asse atlantico Tangeri-Casablanca continuano i lavori, e
gli espropri delle terre, per la costruzione del TGV marocchino, concepito
qualche anno fa dal tandem Mohammed VI-Sarkozy.
Per
il sovrano alawita, esibire il primo treno ad alta velocità del continente e
del mondo arabo, è un vezzo irrinunciabile. L'occasione per rinnovare un'immagine
di sé e del suo regno dinamica e moderna. Parigi invece, primo partner
economico e solido alleato politico in campo internazionale, può dare respiro ad
alcune aziende di punta del catalogo made
in France, che beneficiano delle commesse per la realizzazione dell'opera, messe
in ginocchio proprio dalla scarsa redditività del modello TGV (costi proibitivi
e spese di mantenimento). Anche nel caso marocchino, tuttavia, il peso di un
progetto dispendioso e di dubbia utilità rischia di avere, più che l'effetto
trainante annunciato dalle autorità, delle gravi ripercussioni su un'economia
nazionale compromessa dal deficit di bilancio e dall'indebitamento accumulato.
A denunciarlo è il collettivo "Stop TGV!", costituitosi durante le
mobilitazioni delle "primavere arabe", rappresentate in loco dal
Movimento 20 febbraio. Ne fanno parte, oltre ad attivisti, dissidenti,
organizzazioni studentesche e della società civile, anche piccoli e medi
imprenditori, stanchi di una gestione del paese opaca e verticistica.
A
sollevare le polemiche non è solo la questione del finanziamento (2,5 miliardi
di euro), affidato al budget di governo e ai prestiti stranieri, ma anche la
maniera in cui l'opera è stata imposta alla popolazione e ai suoi
rappresentanti, tenuti all'oscuro fino all'inizio dei lavori. E' l'ennesimo
specchio di una "democratizzazione" a lungo promessa, ma che ancora
tarda ad arrivare. "Nonostante in Marocco si tengano periodicamente elezioni
- spiega Hassan Akrouid, membro del collettivo e di Attac-Maroc - né ministri
né parlamentari hanno mai osato opporsi ad una decisione del sovrano, che resta
il vertice politico, religioso e militare dello Stato. Così il progetto
dell'alta velocità è in sé incontestabile, sebbene non sia stato accompagnato
né da gare d'appalto né da studi adeguati sulla sostenibilità".
Sostenibilità
che rimane un dettaglio non trascurabile per un paese in cui più di un quarto
della popolazione vive in condizioni di povertà e la metà è analfabeta (fonte ONU),
la disoccupazione giovanile è al 30% e il salario minimo non oltrepassa la
soglia dei 200 euro, quando si ha la fortuna di ottenerlo. "L'opera
toglierà risorse ad altri settori prioritari", continua l'attivista,
presentando alcuni dati del rapporto alternativo redatto dal collettivo. "Con
lo stesso budget del TGV, ossia il doppio di quello destinato alla sanità e due
terzi della somma riservata ai nuovi investimenti, si potrebbero costruire interi
comparti industriali, centri ospedalieri all'avanguardia, centinaia di scuole
nelle zone rurali e di montagna, oppure estendere il tracciato ferroviario
esistente, interamente ereditato dal periodo coloniale, ai territori
marginalizzati dell'interno, spesso sprovvisti addirittura di strade
asfaltate".
La
parabola del TGV, insomma, sembra riassumere fedelmente l'immagine del paese svelata
nel corso di questo lungo viaggio. Un paese che, nonostante i piani di sviluppo,
le cosiddette riforme e la relativa stabilità istituzionale, continua a
procedere a due velocità differenti. "In Marocco - conclude Akrouid - c'è
una prima classe che detiene la gran parte delle risorse e può permettersi
tutto, non conosce crisi né austerità, e c'è una seconda classe invece, ben più
numerosa della prima, che manca delle necessità di base e che lotta ancora oggi
per veder riconosciuti i propri diritti". Una prima classe che fra qualche
anno potrà viaggiare su treni di lusso a 320 km/h, fare colazione a Tangeri e
pranzare a Casablanca, e una seconda classe che continuerà ad andare a piedi, a
contrabbandare merci per sopravvivere, a svendere la propria forza-lavoro, a
percorrere anche 100 km per arrivare a scuola o raggiungere l'ospedale più
vicino. Fino a quando?
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