Aman
Iman, “senza acqua non c’è vita”. E’ attorno a questo slogan,
scritto in lingua amazigh (o berbera), che è sbocciata una protesta singolare e
inedita nella storia del paese. Un intero villaggio - Imider, ottomila anime
incastonate tra le vette dell’Atlante e le sabbie del Sahara - è in rivolta
contro lo sfruttamento intensivo delle sue risorse naturali e la
marginalizzazione economica sofferta malgrado le ricchezze del sottosuolo. Aman Iman, due parole tracciate con
vernice bianca su sfondo di pietra rossastra a dare il benvenuto sul monte
Alebban, guardiano arido e sassoso che sovrasta la borgata, dove gli abitanti
si sono accampati dall’agosto del 2011 per ricordare alle autorità del regno
che la loro terra e la loro dignità non sono in vendita.
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(Credit foto: Jacopo Granci) |
Articolo originariamente pubblicato da Niglizia nel numero di Settembre 2014
Un
“Aventino” alle porte del deserto
La statale n. 10 è una sottile striscia d’asfalto che,
superate le oasi di Gulmima e Tinghir, passaggi improntati dagli antichi
carovanieri, scivola lenta e nodosa verso la turistica Ouarzazate. Nel gergo
del posto viene anche detta la “rotta delle kasbah”, come testimoniano le numerose
fortificazioni in pisé, sopravvissute al tempo e all’incuria, che fanno
capolino tra i palmeti o si mimetizzano negli anfratti dei pendii. Il paesaggio
è a dir poco cinematografico. I colori si rincorrono in un valzer di sfumature
- dal giallo della terra sabbiosa alle macchie verdi di una vegetazione
inattesa, fino alle venature scure dei rilievi - quando un gruppo di case
sparse lungo la carreggiata e un piccolo cartello di segnalazione annunciano
l’arrivo a Imider. Il villaggio sembra semideserto come la natura circostante.
Moha, ragazzone dai modi gentili, fa subito il punto
della situazione. “Chi possiede ancora una parcella coltivabile o qualche
animale è fuori a lavorare. Tutti gli altri, compresi donne e bambini, sono in
cima all’Alebban”. Sulla sommità del promontorio affacciato sulla stretta
vallata si trova la stazione di pompaggio che fornisce acqua alla miniera
d’argento, giacimento tra i più produttivi di tutta l’Africa controllato da una
holding di proprietà del sovrano Mohammed VI.
L’estrazione del prezioso metallo, iniziata nel 1969 ed
intensificatasi con il passare dei decenni, da promessa di sviluppo locale si è
rapidamente trasformata in una maledizione per la popolazione, che tre anni fa
ha deciso di scalare la montagna per mettere i lucchetti alle pompe. “L’aumento
dei foraggi e dei pozzi di alimentazione voluti dall’azienda hanno provocato l’essiccamento
della falda acquifera, riducendo - e in alcuni casi bloccando completamente -
l’approvvigionamento idrico alle famiglie”.
Le ricadute negative, continua il giovane attivista, non
si fermano qui. Il deflusso dei prodotti tossici (cianuro e mercurio)
utilizzati per il trattamento del minerale ha inquinato i terreni attorno alla
miniera. “I pastori hanno visto morire i greggi che si erano abbeverati con
l’acqua contaminata. La SMI (Société Métallurgique d'Imider, ndr) ha dovuto indennizzarli in fretta e
furia per evitare lo scandalo”. La penuria idrica e i veleni provenienti dall’attività
estrattiva sembrano aver condannato all’asfissia gran parte delle coltivazioni,
compresi i campi di mandorli un tempo fiore all’occhiello del villaggio ed oggi
poco più che arbusti rinsecchiti.
La
marcia della sete
“Ci rubano l’acqua, uccidono i raccolti e nessuno dice
niente. Le autorità difendono gli interessi dell’azienda, ovvio, in fondo si
tratta dello stesso padrone”, afferma Omar - studente universitario prestato
alla causa - riferendosi al monarca e alla sua elite, che nonostante le aperture
e le riforme degli ultimi anni mantiene uno stretto controllo sulla vita
politica e sulle principali attività economiche del paese. “C’è una nuova
costituzione che alcuni definiscono democratica, ci sono i codici, ma al di
fuori delle carte questi signori non vogliono sentir parlare di diritti e
tantomeno di rispetto dell’ambiente. Così abbiamo preso l’iniziativa”.
In realtà le tensioni tra gli abitanti di Imider e la
società mineraria erano già emerse in passato. Nel 1996 l’esproprio di alcune
terre collettive del villaggio - la cui gestione, oggi affidata al Ministero
dell’Interno, era storicamente regolata dal diritto consuetudinario berbero -
aveva provocato una prima sollevazione, rapidamente soffocata nell'indifferenza
generale. Quindici anni più tardi, con l’onda lunga delle “primavere” che provava
a farsi strada nel regno, il confronto è rispreso e si è radicalizzato,
complici anche l’aggravarsi della siccità e della disoccupazione, fenomeni
endemici nel Sud-est marocchino.
Nell’estate del 2011, mentre agli studenti rientrati per
le vacanze veniva negata l’assunzione temporanea nella miniera, i pozzi e i
rubinetti del villaggio sono rimasti a secco. In poco tempo ha preso forma un
vasto movimento di protesta sociale e di disobbedienza civile: una marcia della
sete diretta agli scavi ha serrato i ranghi di una popolazione ridotta allo
stremo, che si è presentata ai cancelli del giacimento "armata" di
taniche e bottiglie vuote. Aman Iman!
Di fronte al silenzio della SMI il sit-in è proseguito sulla cima del monte Alebban,
trasformandosi in insediamento permanente.
L'occupazione
Da allora infatti i ribelli di Imider non hanno più lasciato
l'accampamento. Tre anni di protesta, trascorsi a 1400 m di altitudine, dove le
prime tende in tela giallastra hanno lasciato il posto alle piccole case di
sassi e terra battuta, costruite a mano dai ragazzi del villaggio. "Da
quando abbiamo fermato le pompe, i ritmi di estrazione si sono ridotti e il
livello dell'acqua è tornato a salire", spiega Moha, seduto di fronte alla
porta in legno mentre versa un tè amaro insaporito dal timo.
Uomini e donne, anziani e bambini, tutti partecipano
all'occupazione dello château d'eau. Organizzati
in gruppi di lavoro si alternano con disciplina nei vari incarichi, dalla
raccolta delle pietre per nuove costruzioni al rifornimento di viveri. Durante
i momenti di riposo, invece, ognuno si dedica alle proprie passioni. Said ad
esempio - artista autodidatta - affresca le pareti delle stanze con i simboli
della cultura locale: le lettere dell'alfabeto tifinagh e la bandiera tricolore amazigh, per riaffermare una
lingua e un'identità a lungo negata dal governo centrale.
Fuori dal perimetro del campo, intanto, una manciata di
giovani sta scavando un pozzo servendosi di pala e picconi. "Le riserve
d'acqua stanno finendo ed è sempre più rischioso scendere al villaggio"
riferisce Hamid, folta capigliatura rasta, appena risalito in superficie.
"Vogliamo renderci autonomi, ma per incontrare la falda dobbiamo arrivare
almeno a 15 metri". Poco lontano, alcune donne avvolte in foulard
colorati, le mani solcate dalla fatica e tinte dall'henné, preparano il couscous con mezzi di fortuna. In prima fila ad
ogni marcia o durante le assemblee, intonano i caratteristici yuyu ed esibiscono decise le tre dita
del saluto militante. Quasi un monito, a ricordare che l'ambiente, l'essere
umano e la parola sono valori ancestrali tuttora imprescindibili.
Nessuno di loro è intenzionato a cedere, né di fronte
alle asperità atmosferiche - l'arrivo del caldo torrido dopo il gelo invernale
- né di fronte alle ondate di arresti sommari. "La zona è militarizzata,
la polizia protegge tutti gli accessi alla miniera e al villaggio e controlla
il transito sulla statale", conferma Yassine che ha già pagato con un anno
di carcere il suo impegno nel movimento.
Alla repressione violenta e su vasta scala, negativa per l'immagine
della monarchia, le autorità preferiscono una strategia meno eclatante ma
sempre più in voga nel regno: il black-out mediatico e una mirata criminalizzazione
del dissenso. Dall'inizio della rivolta sono circa una trentina i ragazzi condannati
a seguito di processi farsa. Gli ultimi tre, lo scorso aprile, sono stati prelevati
dagli agenti mentre scendevano a valle per accompagnare donne e bambini.
"Vogliono fiaccarci con la prigione e le minacce, senza destare clamore.
Del resto, a Rabat, nessuno sa cosa succede da queste parti…ma si sbagliano.
Che ci uccidano piuttosto, se non sono disposti a concederci i nostri
diritti!", tuona Yassine interpretando il pensiero dei compagni.
Aspettando
lo sviluppo
I dirigenti della SMI, da parte loro, hanno sempre negato
l'esistenza di legami tra le perforazioni e la penuria idrica, che dipenderebbe
piuttosto dalla ridotta pluviometria: "negli ultimi anni le precipitazioni
sull'altopiano sono state scarse - si legge in un comunicato dell'azienda, che
non ha voluto rilasciare dichiarazioni a Nigrizia
- ed è normale che tutta l'area ne soffra". Non è normale invece,
ribattono gli attivisti, che le risorse del territorio vengano impiegate per
l'arricchimento privato a discapito delle esigenze dei cittadini. "Sfruttano
le ricchezze di Imider, è un loro dovere partecipare allo sviluppo, dare lavoro
alla nostra gente e reinvestire qui parte dei profitti", lamenta Khadija,
sessantenne minuta e uno sguardo profondo di semplicità e fierezza.
In effetti, sebbene la SMI sia uno dei giganti africani
della produzione di argento, solo una minima parte della popolazione locale è
impiegata all'interno del giacimento. "La società ha violato gli accordi
conclusi con i nostri delegati secondo cui il 75% della manodopera deve
provenire dai villaggi vicini", puntualizza Hamid, tra gli esclusi dal
reclutamento effettuato poco prima dello scoppio della protesta. Oltre alla
mancanza di impiego, al furto dell'acqua e all'inquinamento dei terreni - responsabili
dell'esodo migratorio che da anni condanna gli abitanti della regione - Imider,
ignorato da un turismo che scorre indifferente sulla statale 10 verso mete più
attrattive, aspetta ancora l'arrivo dei servizi di base.
"L'ospedale più vicino si trova ad oltre 100 km e il
dispensario del paese non ha nemmeno i medicinali generici. Non parliamo poi
delle strutture e dei trasporti scolastici…" spiega Moha, mentre indica la
sorellina che, finita la lezione pomeridiana, ha appena raggiunto
l'accampamento risalendo un sentiero scosceso strappato al fianco dell'Alebban.
"Molti bambini devono camminare un'ora, a volte due, per raggiungere aule
fatiscenti. Gli alunni delle elementari e delle medie hanno scioperato e
manifestato per mesi, fino a quando il ministero si è deciso ad inviare almeno
banchi e lavagne".
Una
nuova resistenza
Mentre il riverbero del sole sembra adagiarsi sulla linea
dell'orizzonte, folate di vento rovente accompagnano il mutare dei colori e le
prime ombre della sera. Dal ciglio della montagna alcuni attivisti osservano i
fumi di polvere salire dalla miniera, situata sul versante opposto della
vallata. Tra poco le luci dello stabilimento rischiareranno i costoni neri del
Saghru, massiccio glorioso che quasi un secolo fa ospitò la tenace resistenza
delle tribù berbere della zona contro l'avanzata degli eserciti coloniali.
Negli anni '30 la confederazione degli Ait Atta, da cui
discendono Moha, Hamid e gli altri, riuscì a bloccare ottantamila soldati
francesi asserragliandosi sulle aspre vette della catena. Quelle gesta -
dimenticate troppo in fretta dalla storiografia nazionale ma non dalla gente
del posto - sembrano riempire d'orgoglio e speranza i ribelli di Imider, consapevoli
che oggi, a pochi passi da quel luogo di memoria e sacrificio, sono diventati
loro i protagonisti di una nuova resistenza. La posta in gioco non è più
l'indipendenza, tradita ai loro occhi da una cerchia al potere vorace e
autoritaria, ma la dignità.
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