Testimonianze. Le epoche cambiano ma le pratiche restano le stesse. Khadija Menebhi, sorella della leggendaria Saida Menebhi, e Rachida Baroudi, madre di Rida Benothmane, un detenuto islamico tuttora in carcere a Salé, raccontano il calvario a cui lo Stato marocchino le ha costrette. Un incontro edificante.
Con passi discreti ma sicuri Rachida Baroudi fa il suo ingresso nell’ufficio centrale dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo). La madre di Rida Benothmane, un prigioniero islamico detenuto nel carcere di Salé dal 2007, conosce bene questo posto. L’AMDH fa parte delle rare associazioni che seguono il dossier dei detenuti della “nuova era”. Qualche minuto dopo è la volta di Khadija Menebhi, sorella dell’indimenticabile Daida Menebhi, di Aziz Menebhi e moglie di Aziz Loudiyi, tutte vittime della repressione degli anni di piombo. Questa donna, un ex-membro di Ilal Amam, sembra aver conservato tutta la sua determinazione.
L’energico Abdelilah Benabdesslam, vice-presidente dell’AMDH, allestisce la sala. Ci sistemiamo tutti, le due donne si osservano. Somiglianze? Le due cinquantenni dai capelli corti offrono entrambe l’immagine della donna emancipata. “Vedete, sono la madre di un salafita e non porto il velo”, dichiara subito Rachida Baroudi. Ma è Khadija a prendere la parola per prima. Inizia a raccontare la sua esperienza. La madre di Rida ascolta. “E’ molto doloroso”, afferma all’inizio del suo discorso. Per cominciare preferisce parlare del 1977. Gli ultimi giorni di sua sorella Saida all’ospedale Averroès di Casablanca. Per la mancanza di cure appropriate è morta in seguito ad uno sciopero della fame durato quaranta giorni. Avviato il 10 novembre 1977 dal “Gruppo di Casablanca”, in carcere dal 1976, questo sciopero è rimasto impresso negli annali. “Sono rimasta al suo fianco per tutta la notte, sentivo il suo cuore battere sempre più lentamente, gridavo, piangevo, ma non ho potuto fare niente”, racconta Khadija con le lacrime agli occhi.
“Un processo all’amore”
“Non c’era nessun medico nei dintorni. Lo Stato marocchino è il colpevole di quanto accaduto quella notte”, tuona Khadija, caricando le sue parole di una rabbia profonda. Ha visto il cuore di Saida smettere di battere, sullo schermo dei macchinari medici. Ha visto un corpo, fino a quel momento in vita, trasformarsi in cadavere. E poi in leggenda. Per recuperare le spoglie ha dovuto affrontare un’altra estenuante battaglia. I responsabili cercavano di rinviarsi la patata bollente. “Il direttore della prigione mi disse che spettava all’ospedale occuparsi del corpo e delle esequie. I dottori replicavano che per recuperare le spoglie serviva una autorizzazione concessa dalle alte sfere politiche”, ricorda Khadija. Il regime finì per cedere. Il corpo di Saida venne restituito alla famiglia e agli altri prigionieri in sciopero fu riconosciuto lo status di detenuti politici. Questa è la storia di un gruppo di giovani che voleva rovesciare la monarchia alawita e che rivendicava il diritto all’autodeterminazione del popolo saharaoui. Quasi tutta la famiglia di Khadija ne era coinvolta. I suoi membri erano tutti militanti dell’UNEM (Unione nazionale degli studenti marocchini) e di Ilal Amam.
“Il regime è impietoso con i rivoluzionari, la storia lo dimostra”, analizza la signora Menebhi. “Se Saida avesse parlato sotto tortura, io sarei stata la prima ad essere incarcerata”. Suo marito fu arrestato nel 1972 e condannato a dieci anni di prigione. La sua prima figlia era nata soltanto da un mese. Per poterlo incontrare, serviva una autorizzazione del giudice di istruzione del tribunale di Casablanca. “Dovevo allattare mia figlia e non potevo certo portarla con me. Quando sono arrivata dal giudice avevo il latte che colava ancora dal seno. Ero tutta bagnata e sporca”, ricorda. Ma il giudice si rifiutò di concedere l’autorizzazione, pronunciando una frase degna delle più oscure epoche medievali: “lei è fortunata, qui non facciamo processi all’amore”. “Per me sarebbe un onore”, aveva risposto allora la giovane madre.
Lo stesso giorno il fratello Aziz riuscì a scappare dai locali del medesimo tribunale. Sparì per un anno, prima di ricomparire nel campus universitario di Rabat. Fu catturato dalle forze dell’ordine e condannato all’ergastolo in contumacia, mentre era detenuto clandestinamente nel bagno penale di Derb Moulay Cherif. “Il regime non voleva ammettere che Aziz si trovasse nelle sue mani”, continua Khadija. Un anno e mezzo di detenzione segreta, in seguito al quale venne trasferito nella prigione di Casablanca. Due anni dopo, nel 1976, il tribunale finì per liberarlo, pronunciando il non-luogo a procedere.
Ma i processi kafkiani ripresero e i tre membri della famiglia si ritrovarono tutti dietro le sbarre. Il calvario non era che ai suoi inizi. “Ogni volta che cercavamo di fargli visita i responsabili dell’amministrazione penitenziaria rifiutavano con differenti pretesti”, ricorda. Tutte le ragioni erano buone per umiliare la famiglia Menebhi. “Dopo qualche anno Fadwa, mia figlia, cominciava a fare delle domande sul conto di suo padre. Io le rispondevo che si trovava da qualche parte a difendere la povera gente”, spiega Khadija. Ma la piccola non lo accettava e replicava: “anche io sono povera ed ho bisogno di lui”. La vecchia militante conclude il suo racconto. “Vedere qualcuno che si ama, qualcuno con cui si trascorrono i giorni assieme uno dopo l’altro, sparire all’improvviso è semplicemente insopportabile”. Lo sguardo di Rachida Baroudi si perde nel vuoto. Sa bene di cosa sta parlando Khadija Menebhi.
“Una madre non si controlla”
Una donna entra nella sala e ci offre del the. Rachida Baroudi fa un segno per dire che è pronta a prendere la parola. “E’ stato uno choc. Quando mia nuora mi ha detto che Rida era stato arrestato, sul momento, non ho voluto crederle. Mi sono detta che doveva trattarsi per forza di un errore”, inizia a raccontare. Rachida Baroudi confessa di avere un buon rapporto con il figlio: “per prima cosa ha smesso di bere e di fumare, poi ha lasciato crescere la barba, ma nel suo comportamento nulla è cambiato”. Tutto è successo nel 2007. Dopo l’arresto, Rachida fa il giro di tutti i commissariati di Rabat. Nessuna traccia. Mossa da una speranza che rasentava la follia, prende una decisione coraggiosa: andare al centro di detenzione di Temara, un centro segreto. “Quando si tratta dei figli una madre non riesce più a controllarsi. Posso assicurarvelo, l’ho provato sulla mia pelle”.
Arrivata a Temara, non sa dove dirigersi esattamente. Domanda ad un agente addetto alla circolazione stradale. “Il poliziotto mi ha risposto che ero una pazza, ma ormai non avevo più paura”. Non demorde e alla fine riesce a raggiungere il centro di detenzione. “Ho imboccato una strada isolata, non c’era nessuno a parte una vegetazione pressoché selvaggia”. Dopo qualche chilometro si vede circondata da una decina di poliziotti. “Hanno incominciato a gridarmi addosso, mi hanno ordinato di fare marcia indietro, ricordandomi che non avevo alcun diritto di restare là”. Ma la madre resiste. Vuole avere notizie di suo figlio. “Ho la fortuna di aver studiato, leggo sempre i giornali e sono al corrente di quello che succede là dentro. L’idea che mio figlio fosse chiuso, magari incatenato, all’interno di quel centro mi rendeva folle di rabbia”.
Di fronte alla sua insistenza i responsabili della DST (Direzione per la Sicurezza del Territorio) sono impotenti. Alcuni cercano di minacciarla, altri la supplicano di ripartire. Tutti quanti, però, continuano a ribadire che i giornali raccontano delle menzogne, che solo la polizia giudiziaria ha il diritto di procedere agli arresti e che nessuno si trova recluso nel loro centro. “Uno in particolare mi aveva quasi convinto che mio figlio non fosse nelle loro mani, ma si è tradito dicendomi che Rida mi avrebbe chiamato sicuramente l’indomani”. Rachida Baroudi si decide allora a rientrare, certa ormai che suo figlio si trovi detenuto nei locali della DST. “Mi ha persino informata che Rida era accusato di appartenere ad un gruppo jihadista chiamato Ansar Al Mahdi – afferma la donna sconcertata, che poi continua – “Non so, forse la mia visita inattesa ha cambiato qualcosa”. Dopo due giorni la polizia giudiziaria di Casablanca la contatta per comunicarle che suo figlio si trova nella sede della prefettura cittadina. Alla fine, Rida Benothmane ha trascorso in tutto tre giorni nel commissariato di Temara.
Condannato per dare l’esempio
Dopo aver confiscato il suo computer, il giudice di istruzione ha continuato a domandare a Rida perché fosse entrato più volte in un sito gestito da salafiti. “Questa è la sola prova che avevano”, spiega Rachida. Ma tanto basta. E’ condannato a due anni di carcere in prima istanza, sulla base dell’articolo 218 della legge antiterrorismo. L’articolo in questione prevede pene severe per ogni individuo che abbia difeso un atto terroristico in un luogo pubblico o nei media. In appello la pena viene raddoppiata, “per dare l’esempio”. “E’ scritto nero su bianco nel verdetto”, testimonia Abdelilah Benabdesslam. “Gli avvocati mi hanno spiegato che in anni e anni di attività era la prima volta che si trovavano di fronte ad un caso simile. Condannato per dare l’esempio!”. La famiglia ha rivisto Rida solo dopo diciassette giorni dalla sua sparizione, all’interno della prigione civile di Salé. “La prima volta, vedendo sua figlia, si è sciolto in lacrime”, racconta la madre.
Durante la permanenza a Temara ha subito torture morali. Per tutto il giorno sentiva le grida di prigionieri sotto tortura. Alla madre ha confessato di non sapere se si trattasse di grida reali o di registrazioni. E’ rimasto per tutto il tempo ammanettato e con gli occhi bendati. Un superiore, con l’evidente intenzione di farsi intendere, ha perfino chiesto ai suoi subalterni di gettare il prigioniero nella fossa dei serpenti. In diciassette giorni, stando alle parole di Rachida, rida ha perso sei chili. Lei, invece, da un pacchetto di sigarette ogni tre giorni è passata a due al giorno. “Gli faccio visita regolarmente e posso assicurarvi che il trattamento dei prigionieri nelle carceri marocchine è inumano. I funzionari dell’amministrazione penitenziaria, poi, fanno di tutto per umiliare le famiglie dei detenuti”. Attese interminabili, insulti, provocazioni. “Una volta un secondino ha voluto insozzare la minestra di mio figlio controllandola con una sbarra di ferro tutta arrugginita”.
Khadija Menebhi ascolta, prende degli appunti e a volte interviene: “siamo talmente sottosviluppati che la maggior parte delle persone credono che le visite siano un privilegio concesso dall’amministrazione penitenziaria e non un diritto”. “Abbiamo appurato con il nostro lavoro che è ancora la paura a dominare queste situazioni. La gente, di fronte alla brutalità dei funzionari delle prigioni e anche di fronte ai casi di sparizione, nella maggior parte dei casi preferisce lasciar perdere”, testimonia Abdelilah Benabdesslam. Rachida Baroudi continua il suo racconto. “Mia nipote sta vivendo un vero incubo. Non smette mai di fare domande su suo padre. Per lei il sole sorgeva e tramontava al suo fianco. Ora, ogni volta che esco di casa, mi domanda se ritornerò. Ha già visto scomparire suo padre e non ha più fiducia”. Le lacrime prendono il sopravvento. Khadija Menebhi fa un gesto per consolarla. Le sue parole forniscono una lucida analisi della situazione: “nel nostro caso, per le vittime degli anni di piombo, l’intera società marocchina era al nostro fianco. Lo stesso dicasi della comunità internazionale. Nel caso dei detenuti islamici la realtà è ben diversa. Nessuno sembra muovere un dito, anche se l’ingiustizia è evidente. Le stesse associazioni per i diritti umani, a parte l’AMDH, restano immobili. Un triste esempio è quanto accaduto negli ultimi giorni all’interno del Forum Verità e Giustizia”. Le due donne continuano a parlare tra loro, sotto lo sguardo attento del vice-presidente dell’AMDH. Rachida Baroudi alla fine conclude: “quando penso a tutto questo, a quello che la gente ha subito e continua a subire, rimango perplessa. Cosa fare perché possa cambiare qualcosa?”. Spetta a tutti noi trovare una risposta a questa domanda.
Forum Verità e Giustizia. Silenzio sulle violazioni della nuova era.
Tutti si aspettavano che il Forum, dopo l’ultimo congresso, integrasse nella sua azione le violazioni commesse durante la “nuova era”. Non soltanto la decisione non è stata presa, ma il dibattito sulla questione non ha mai avuto luogo. “E’ un soggetto molto delicato. E’ vero che una parte dei militanti ha chiesto l’inclusione nell’organizzazione delle vittime delle violazioni gravi avvenute durante quella che viene definita la nuova era. Ma la maggioranza dei membri del congresso non era d’accordo”, testimonia Jawad Skalli, membro del nuovo ufficio esecutivo del Forum. Pertanto, il piano strategico adottato dall’associazione poco prima del congresso stipulava nero su bianco: combattere con i fatti le menzogne sul compimento della presunta transizione democratica nel Paese. La conseguenza, attesa un po’ da tutti, sembrava la modifica dello statuto dell’associazione e l’apertura del Forum alle vittime delle violazioni post-1999. “L’attuale battaglia del Forum riguarda l’applicazione delle raccomandazioni rimesse dall’Istanza di Equità e Riconciliazione. Una volta raggiunto questo obiettivo anche le vittime della nuova era potranno avere una giustizia indipendente che potrà indennizzarle”, spiega Mohammed Hassine, responsabile della sezione del Forum di Casablanca. Un avviso condiviso anche dall’attuale presidente Mustapha Manouzi, secondo il quale la repressione vissuta sotto Mohammed VI non sarebbe così sistematica quanto quella vissuta sotto gli anni di piombo. Le violazioni, quindi, “non sono così gravi come quelle commesse in passato”. “Per noi gli ultimi anni sono una sorta di laboratorio, per misurare la volontà del regime di rompere con la repressione”. Peccato che ormai sono passarti dieci anni e sarebbe tempo di prendere una posizione. “E’ inutile nascondersi. Dietro alle reticenze sull’apertura dell’associazione alle vittime della nuova era, permane il timore di un’invasione del Forum da parte degli islamisti”, riassume Jawad Skalli in conclusione.
Aziz El Yaakoubi
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