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mercoledì 27 gennaio 2010

I “dannati del carbone”

Reportage da Jerada/1
di Aziz El Yaakoubi e Jacopo Granci

Rivolte, arresti sommari, torture e processi: la piccola cittadina di Jerada ha vissuto gli ultimi giorni del 2009 nel segno della repressione. Interessi economici e clientelismo hanno trasformato i vecchi minatori della zona in nuovi schiavi-fantasma, nell’indifferenza delle autorità.

Lasciando Oujda in direzione sud e percorrendo una cinquantina di chilometri lungo la statale che conduce a Fguig, si arriva a Jerada, una piccola e all’apparenza anonima città di minatori. L’intera area, all’inizio del secolo, non offriva niente di più di una fitta boscaglia disabitata. Ma nel 1927, una rivelazione inattesa cambiò in poco tempo il volto del paesaggio. Una compagnia belga, giunta sul posto per effettuare dei rilievi geologici, scoprì che nel sottosuolo della regione erano nascoste immense riserve di carbone. Dopo qualche anno iniziò lo sfruttamento dei filoni. Furono scavati i primi tunnel e, nelle vicinanze, venne costruito un villaggio destinato ad ospitare i lavoratori e i responsabili della miniera, ufficialmente operativa dal 1945. Così nacque Jerada.

venerdì 22 gennaio 2010

La fede in questione

All’inizio del dicembre scorso alcuni cittadini stranieri, accusati di proselitismo, sono stati espulsi dal Marocco. Tra di loro c’era anche una famiglia svizzera. La casualità (o altro?) ha voluto che l’espulsione coincidesse con i risultati del referendum elvetico sui minareti. Alcuni vi hanno letto una risposta diretta delle autorità al voto svizzero. Ma è anche vero che la pratica degli allontanamenti forzati dal territorio marocchino di cittadini stranieri, per la loro presunta opera di conversione, è diventata una prassi assodata negli ultimi due decenni.


giovedì 21 gennaio 2010

L’Occidente comincia a Messina (parte 1)

Il terzo capitolo (parte 1) del libro-reportage Clandestin en Méditerranée, scritto dal giornalista tunisino Fawzi Mellah. Il piccolo scafo ha finalmente raggiunto le coste italiane. Per i clandestini a bordo inizia la lenta risalita dello stivale e, già in terra siciliana, arrivano le prime difficoltà....

Le coste di Pantelleria, annunciate da luci giallastre che sembrano lanterne all’orizzonte, si svelano poco a poco nel levare del giorno ancora fresco e pallido. Sono le cinque. Abbiamo navigato, senza grossi incidenti, per oltre sette ore in uno scafo sistemato alla meglio. Il mare ci ha graziato. Avanziamo piano piano verso terra, con la prua in direzione del sole. Il primo contatto con l'Occidente, dunque, avviene da est...
Ci congratuliamo rumorosamente, tanto che il capitano è costretto a richiamarci all'ordine. Fa presente che la manovra non è ancora terminata. L'assistente ci intima di sederci con tono secco. Ma, anche lui, sembra felice di essere finalmente arrivato. Il Malien mormora qualcosa, probabilmente un versetto coranico. Jeff si cambia la camicia e il maglione. Il libico sorride. Impugniamo i nostri sacchi e aspettiamo il segnale del capitano, che sta facendo del suo meglio per avvicinarsi ad una piccola cala rocciosa. Lo scafo, però, non sembra intenzionato a seguire le sue istruzioni. Allora viriamo a tribordo, lasciamo l'imbarcazione alla deriva per qualche centinaia di metri ed infine puntiamo di nuovo verso terra. Una spiaggia di sassi neri, in fondo a una caletta che si apre ad ovest. Lo scafo ondeggia in direzione della spiaggia a motore spento. C'è abbastanza luce per scorgere il paesaggio. Triste e smorto. Ciottoli neri. Costoni di roccia grigiastri. Qualche albero sparso qua e là. Una terra all'apparenza misera e austera.
Se non fosse per qualche casupola bianca attaccata sul fianco delle colline e una manciata di palme che mostrano da lontano le loro chiome, non crederemmo di essere ancora nel Mediterraneo. Saltiamo uno dopo l’altro sui sassi. Ci facciamo lanciare gli zaini dall’assistente, che ci concede appena un breve saluto. Il capitano, quanto a lui, si congeda dicendoci: “Che Dio sia con voi!”. Senza fare domande e senza nemmeno salutarci, il libico e il tunisino scalano il pendio roccioso e camminano fianco a fianco di buon passo. Il Malien resta un po’ nella spiaggia e guarda lo scafo allontanarsi. Evidentemente non sa da che punto cominciare. Allora domando a Jeff quello che ha in mente di fare. “Andare a Roma!”, mi risponde, come se potesse già scorgerne i campanili. “Io ho un contatto a Trapani, forse potremmo andarci assieme”, gli propongo senza pensarci troppo su. Si bagna il viso, sorride, beve una sorsata d’acqua a garganella e risponde con aria tranquilla: “Perché no? Anche io ne ho uno laggiù…”. Decidiamo di fare fronte comune.
Abbandoniamo l’africano alle sue meditazioni mattutine. Deve recuperare lo spirito giusto. Fa ancora fresco, ma non importa. Prima di tutto dobbiamo raderci, cambiare pelle, recuperare l’aspetto degli esseri viventi. Alla faccia di Shengen e dei carabinieri. Vogliamo lavarci, tornare puliti, perbacco! Un diritto elementare che nessuna polizia al mondo sarebbe in grado di privarci. Nel dar seguito ai nostri propositi, utilizziamo tutta l’acqua che è rimasta. Cambiamo le scarpe e ci infiliamo una giacca pulita.
Il sole è già abbastanza alto quando lasciamo la caletta, arrampicandoci sulla scogliera. Una volta in cima diamo un ultimo sguardo al Malien, rimasto giù, sul bordo del mare, a contemplare il cielo stiracchiandosi. Seguiamo una strada asfaltata senza troppe paure o timori. Felici e alteri. Come se essere scampati ai tormenti del mare, ai guardia-costa e alle loro vedette, ci donasse se non proprio delle ali, almeno un diritto sacrosanto. Il diritto di essere vivi, di occupare uno spazio, di essere allegri e ottimisti in questa mattina tranquilla su una piccola isola sonnolenta. Sembriamo dei normali turisti. Uomini felici che si godono le loro vacanze. Al diavolo la paura! Al diavolo il domani! Non ci preoccupa più, ormai siamo in cammino verso gli uomini, verso la terra degli uomini. Che siano italiani o cinesi, non è questo che conta. Sono uomini, esseri umani, quindi capiranno. Non abbiamo il visto, non siamo autorizzati a calpestare questo suolo, ma non ci preoccupiamo. In ogni caso avremo a che fare con degli uomini, e in quanto uomini capiranno…
Ma andiamo! Questi due buffi esseri in marcia sarebbero dei delinquenti? No. Siamo felici e fiduciosi, niente può farci cambiare umore. Siamo immersi in quella specie di estasi che si ritrova a volte, come uno stato di grazia, alla fine di un sonno agitato. Certo, di tanto in tanto, ci guardiamo in giro, per assicurarci che nessuno ci spii o ci segua, ma per ora, rimaniamo sereni. Camminiamo. In quale direzione? Quella che propone la strada d’asfalto. Il mare alla nostra sinistra, il sole dietro e sulla destra una montagna. Più avanziamo e meno siamo disorientati. Il paesaggio, in effetti, sembra la copia conforme di quello che abbiamo appena lasciato dall’altra parte del Mediterraneo. La stessa terra fragile, le stesse sterpaglie. Le stesse coltivazioni terrazzate (vigne, olivi, palme, fichi d’india e cespugli di lavanda), le stesse case basse, gli stessi muri in calce e mattoni. Le stesse tinte bianche e rosa.
Ad un tratto un autobus arancione ci oltrepassa: ecco la nostra bussola. Un autobus non può che condurre ad una città. Dopo un paio di chilometri arriviamo effettivamente ad un incrocio. I cartelli indicano: Pantelleria (sempre dritto), Aeroporto (stessa direzione), Boukkuram (a destra). La segnalazione non è che una conferma, ormai non possiamo più sbagliarci. La strada asfaltata ci condurrà senza problemi alla nostra città-scalo.
Impieghiamo meno di un’ora ad arrivare. Strada facendo, le vie, l’architettura, le genti e le indicazioni incontrate lungo il cammino, confermano la mia prima impressione: ci troviamo in un terreno familiare. Non solamente i tratti fisici sono uguali ai nostri, ma perfino i nomi dei luoghi e dei villaggi hanno una sonorità tipicamente araba (Damussi, Gadir, Bugeber, Bonsulton). Questa sola idea è sufficiente ad infondermi ulteriore serenità: è possibile temere delle persone che ci assomigliano così tanto?
E’ sabato. La piccola città di Pantelleria sta per risvegliarsi. Il sole non si sottrae al suo lavoro paziente. Il clima è gradevole, come sempre all’inizio della primavera. Di fronte al porto i bar sono già pieni. Seguiamo l’esempio degli altri avventori: caffè espresso e dolci a volontà. Che altro fare? Non mi sento intimorito, tutt’altro. Ho solo qualche problema ad entrare nel mio nuovo ruolo di clandestino. Come un attore al debutto. Cammino ancora dritto e sicuro di me. Parlo ad alta voce. Mi faccio cambiare i caffè, con quel tono che hanno spesso i turisti, che sanno di poter contare sul loro banchiere e sulla loro carta di credito. Ho ancora l’aria dell’uomo sicuro di sé, del suo passaporto e del suo buon diritto. Jeff cerca di farmelo notare ricordandomi che, malgrado tutto, la nostra presenza qui è illegale. Siamo appena sbarcati d’accordo, ma rimaniamo pur sempre dei clandestini. Mi consiglia di parlare in maniera più discreta e di guardarmi in torno con un certo contegno. Cerco di seguire le sue indicazioni, ma dentro di me penso che la sua paura sia esagerata. Darsi un contegno, che tipo di contegno e per quale motivo? Nel bar in cui ci troviamo sembra del tutto inutile. Nessuno ci nota. Nessuno nemmeno ci guarda. Più che turisti, sembriamo degli abitanti del posto. Come se fossimo a casa nostra.
Ciò nonostante continuo a fare quello che Jeff mi ha suggerito. In fondo, sento che le sue ragioni sono fondate (e il seguito del viaggio lo dimostrerà). Entriamo in una agenzia di viaggi situata vicino al bar e ci informiamo sulle partenze previste per Trapani, Marsala e Palermo. Ci assicurano che un traghetto della compagnia Siremar salperà da Pantelleria alla volta di Trapani alle ore 13. Quando compriamo i biglietti (42 franche ciascuno) sono ancora le 10: ci restano tre ore da spendere. Cosa fare? La stessa cosa che farebbe qualsiasi turista: visitiamo il posto. La città è piccola e in meno di un’ora facciamo il giro completo. Ci ritroviamo sotto il pendio della collina che domina il porto. Continuiamo la nostra camminata e scopriamo, impauriti, che la strada termina all’ingresso di una base militare. Bisogna essere proprio stupidi per gettarsi nella bocca del lupo in questo modo. L’unica soluzione è scendere velocemente e mescolarsi alla folla animata e anonima della città.
Il traghetto della Siremar, un battello piuttosto grande, bianco e blu, munito di due ciminiere, è già ormeggiato al porto. Quando dico “porto”, intendo in realtà un piccolo molo saturo di pescatori e dotato di una sola banchina. Macchine e viaggiatori sono in fila, in attesa di imbarcarsi. Bisogna raggiungerli. Mentre ci avviciniamo allo scafo, Jeff sembra ricevere un colpo al cuore, quasi l’inizio di un’apoplessia. Si ferma all’improvviso ed esclama: “maledizione ci sono dei controlli!”. Effettivamente, un uomo in uniforme è posizionato ai piedi della passerella e controlla i viaggiatori prima dell’imbarco. C’è poco da fare, ormai non possiamo più tornare indietro. Non si può ritardare il trasferimento. In tutta la giornata questo è l’unico traghetto in partenza per Trapani. Prendere o lasciare. Avanziamo verso l'imbarco, incoscienti e ardimentosi, con la stessa angoscia che assale quegli scommettitori che hanno puntato tutta la loro fortuna su un solo cavallo. Ma non c’è altra scelta e la nostra faccia tosta viene premiata. Il tipo ai piedi della passerella non è un poliziotto, ma un semplice impiegato della compagnia di navigazione incaricato di convalidare i biglietti. Risultato: ci imbarchiamo senza complicazioni.
Ci hanno detto che il viaggio dura sei ore. Vorrei dormire un po’, ma la notte appena trascorsa mi ha insegnato l’arte, o piuttosto la necessità, di lottare contro il sonno. Rinuncio a chiudere gli occhi, malgrado la stanchezza. Ma perché di colpo mi assale tutto questo panico? Fino a poco fa, in città, mi sentivo calmo e sereno, mentre ora, su questo battello, mi assale la stessa inquietudine provata durante la traversata del giorno prima. E pertanto non sembra esserci nessuna novità, non è stato dato nessun allarme. Al contrario, il viaggio sembra procedere secondo i piani previsti. Allora, perché inizio a sentire una sorta di pesantezza in fondo allo stomaco? Perché, anche in una nave italiana, sono costretto a lottare contro il sonno? Rivolgo queste domande al mio compagno, in realtà pervaso dalla stessa inquietudine. Come me, anche lui sta lottando contro la stanchezza. E’ ormai pieno giorno e questo ci aiuta a restare svegli. Sprofondiamo sulle poltrone, gli zaini ci fanno da cuscini. Restiamo in silenzio mentre guardiamo il mare che ci circonda, non più minaccioso come durante la notte. Il vento se n’è andato. I passeggeri contemplano beati il paesaggio. Nella mia mente riaffiorano i volti dei compagni di rotta. Non li abbiamo più rivisti. Nessuno di loro è salito su questo traghetto. Dove sono andati a finire? Saranno rimasti a Pantelleria? E per fare ché? Avranno tentato la sorte imbarcandosi per Marsala? Li avranno arrestati? Sono domande che affollano i miei pensieri per un po’. Poi finisco per dimenticare quei volti già distanti e cerco di concentrarmi sul seguito delle operazioni. Una nuova e detestabile abitudine che dovrò apprendere al più presto: conoscere persone, perderle di vista, incontrarne altre, abbandonarle, rivedere di nuovo i primi compagni, per poi dimenticarli ancora una volta… La stella del clandestino è per natura fugace. Gli uomini che scelgono questo cammino sono costretti a conoscersi, a perdersi, a ritrovarsi e perdersi nuovamente. Le amicizie sono rare, dal momento che non c’è abbastanza tempo per farle germogliare, né per consolidarle.
Quando arriviamo a Trapani è già notte. Sbarchiamo proprio di fronte al palazzo della dogana. Tre bandiere ne ornano la facciata scura: quella italiana, quella siciliana e quella europea. In breve, le tre istituzioni con cui d’ora in avanti bisognerà fare i conti. Distanti solo qualche passo, i motoscafi dei carabinieri puntano la prua in direzione del mare. Si apprestano a partire per qualche controllo o sono già di ritorno? Scivoliamo davanti agli uomini in uniforme, che proseguono tranquillamente i loro discorsi. Facciamo finta di conoscere il posto. Ci allontaniamo dal porto con un’aria apparentemente tranquilla e decisa. Appena qualche passo più avanti, però, domandiamo dove si trovi la stazione. Per fortuna è distante solo poche centinaia di metri.

Ah, la stazione! Le stazioni sono indispensabili alla vita del clandestino, come il seno della madre per un lattante, come le stelle per il pescatore e la bussola per il marinaio. Cancellate le stazioni e sconvolgerete la vita di migliaia di uomini e donne, la cui sola colpa è di incamminarsi in giro per il mondo senza un regolare visto di ingresso. Del resto, dove dirigersi quando non si ha nessun posto dove andare? In quale direzione camminare quando non si è in possesso di alcun indirizzo? Dove sedersi quando il budget giornaliero è già esaurito? Alla stazione, dove decine di altre persone, nelle stesse condizioni di illegalità, transitano regolarmente ogni giorno.

Quella di Trapani è poco più grande di un fazzoletto. Le mura color ocra, le banchine pulite, tutto sommato un posto tranquillo. Credo ci sia una sola linea: Trapani-Palermo. Ma, almeno per ora, non è il caso di prendere il treno. Per questa sera il nostro obiettivo è trovare una sistemazione. Sono le otto e dobbiamo pensare ad un luogo dove dormire. Senza farmi troppe illusioni sull’indirizzo che ho ancora in tasca, domando dove si trovi il bar in cui, stando al passeur, ci sarebbe ad attendermi il contatto pagato duemila franchi. Dopo aver chiesto indicazioni ad un marinaio riusciamo a raggiungerlo. Fumosa e febbrile, la taverna risuona dei rumori tipici del sabato sera. Pescatori, marinai, contadini e soldati parlano dei loro sogni tra un sorso di marsala e l’altro. Una musica lieve accompagna i sospiri d’amore che escono dall’ebbrezza generale. Ma non c’è nemmeno una donna a raccogliere tali romanticherie.
Buttiamo giù il nostro sorso di marsala e poi, aiutati dal vino, troviamo il coraggio per domandare al barista notizie sul mio contatto. Lo conosce, ma questa sera non l’ha ancora visto al locale. Bisogna aspettare o tornare un’altra volta. Nel corso della breve conversazione, Jeff dimostra una padronanza della lingua italiana quasi perfetta, cosa che mi sorprende non poco. “L’ho imparata guardando la RAI”, mi dice senza esserne troppo fiero.
Passiamo la notte in una pensione umida, modesta e ben lontana dal centro, sedotti dal prezzo più che ragionevole (240 franchi per entrambi). Lo stato penoso in cui è ridotto lo stabile e lo spessore pressoché inesistente dei materassi spiegano il perché di una tariffa così modica. Ma anche qui non riusciamo a prendere sonno, allertati dai continui litigi che si odono all’interno della pensione, dalle grida e dal rumore degli sciacquoni mal regolati. La “condanna del clandestino” continua ad abbattersi su di noi. Siamo in tutto una dozzina di clienti ad occupare le tre camere del piano, mentre i proprietari abitano di sotto. Tra i nostri vicini contiamo tre Tunisini, una famigliola albanese e cinque Africani. Dal momento che non ci sono abbastanza letti né armadi a sufficienza, la ripartizione dei posti viene fatta alla cieca, o meglio, secondo un ordine di fantasia: ogni nuovo arrivato cerca di accaparrarsi il primo materasso libero a disposizione. Gli Albanesi (due adulti e un bambino) hanno una camera tutta per loro. Sfrattarli è impossibile, poiché la moglie e il bambino restano chiusi dentro per tutta la giornata.
I giorni seguenti ci tocca ancora camminare, camminare e camminare. Due o tre chilometri solamente per raggiungere la stazione, nella speranza di ottenere qualche informazione utile ai nostri progetti. Schiere di confratelli sono lì ad accoglierci e le giornate assumono subito un sapore abitudinario. Un espresso al bar, una panchina al sole, uno spuntino al tonno, una ventina di sigarette fumate in poche ore e una vaga e interminabile attesa. Attesa di ché? Chi potrebbe dirlo. Non sappiamo quale sorte ci aspetta e il tempo passa piuttosto in fretta in compagnia dei nostri nuovi amici. Per quanto stupido possa sembrare alle persone munite di orologi e agende, non abbiamo nemmeno l’impressione di restare lì in attesa di qualcosa. Ci troviamo semplicemente seduti su una panchina di fronte alla stazione di Trapani.
Volevamo l’Italia, ebbene ecco qui un posto al sole, di fronte ad una stazione che sembra assopita. In ogni caso non rimaniamo passivi. Nell’attesa parliamo, conosciamo gente, senza protocolli da seguire o regole non scritte da rispettare. Ci scambiamo spontaneamente le poche notizie a nostra disposizione, ogni giorno, senza timori o gelosie. Al centro delle discussioni restano sempre i clandestini, i naufragi e gli annegamenti. Giorno dopo giorno recitiamo questa sorta di cronaca macabra e ripetitiva, che i marinai bretoni chiamano “le fortune del mare”. I racconti presisi e circostanziati di tutti i mali che l’oceano può infliggere ai malcapitati che osano sfidarlo. Nei primi due giorni abbiamo saputo che un “carico umano”, arenatosi al largo di Brindisi, si è salvato in extremis grazie all’intervento dei carabinieri. Si tratterebbe, stando alle informazioni orali raccolte tra noi, di un centinaio di Pakistani e di Cingalesi in viaggio su un vecchio battello proveniente da Cipro, o forse da Malta, o addirittura dall’Egitto. Vai a sapere.

Incontro Toni, così chiamerò il mio contatto a Trapani, la domenica sera nel bar indicato sull’indirizzo (pagato a peso d’oro!!). E’ un siciliano simpatico e volubile. Promette di risolvere subito i nostri problemi di lavoro e di alloggio. Dice di conoscere molti allevatori che possono darci lavoro dalle parti di Mazara, Salemi, Alcamo e Marsala. All’inizio riceveremo cibo e alloggio, oltre ad un po’ di denaro. “Un salario o un po’ di soldi?”, cerco di informarmi, ma la mia domanda non ottiene risposta. Tutto ciò che Toni è disposto a dirci è che bisognerà sudare per ottenere il posto, i candidati sono molti. Tornerà dopodomani verso le 9, allo stesso bar, per cercarci e farci sapere come è andata. Alla fine gli offriamo un bicchiere. Non parla molto, non conosce i nostri nomi e non ci domanda nemmeno cosa sappiamo fare. Bisogna solo aspettare. Già, aspettare.

Un clandestino passa più della metà del suo tempo (della sua vita?) ad aspettare. O la risposta di un passeur. O l’arrivo in un porto improvviso e sconosciuto. O la buona volontà di un contatto. O l’incontro con un amico. O la magnanimità di un datore di lavoro a nero. O un’amnistia. O un’elezione presidenziale. O l’arrivo di qualche sorta di sinistra al potere. O la partenza di questa stessa sinistra. O una manifestazione di sostegno degli intellettuali. Magari l’occupazione di una chiesa. E perché no, l’espulsione. Ho spiegato in precedenza che non si può parlare di avvenire a persone che vivono di una temporalità fatta di piccoli futuri immediati. Dirò di più, per queste persone l’avvenire è un soggetto fuori questione: la loro temporalità è annientata dall’attesa dell’incerto.

Toni, a conti fatti, non riesce a risolvere nessuno dei nostri problemi. "Non è ancora la stagione adatta per i lavori agricoli", ci dice il martedì. La sola alternativa ad una nuova attesa è partire, spostarsi più lontano. Non sono poi così dispiaciuto. Non ho voglia di attardarmi a Trapani. Ma Jeff non la vede allo stesso modo e gli servono assolutamente dei soldi. Mi abbandona nel pomeriggio, tra il porto e la zona industriale. Lo rivedo soltanto in serata, quando torna alla stazione portando con sé un messaggio di speranza. Forse c’è la possibilità di un lavoro. Lo sapremo domani verso le 11. Come ha fatto? Chi ha incontrato? Non gli faccio domande.
Il giorno dopo a mezzogiorno, un colosso sorridente e bonario viene a cercarci con un furgone. Pavarotti (lo battezziamo subito così) sarebbe, secondo Jeff, il socio di un vago contatto maghrebino che passa la sua vita tra Roma, Parigi e Algeri. Chiedere maggiori dettagli e garanzie prima di accettare l’aiuto che ci viene proposto? Suvvia, poco importa che il gatto sia bianco o grigio, basta che acchiappi il topo. Questo proverbio cinese andrebbe bene come frontespizio per il grande libro della clandestinità. Tuttavia, neanche Pavarotti è capace di acchiappare il topo. Più dinamico che Toni, ci accompagna prima ad Erice, poi ad Alcamo e Mazara. In sua compagnia, facciamo visita a diverse fattorie, una panetteria artigianale, un’industria di pollame e molti bar. Senza successo. Evidentemente non è questa la stagione delle assunzioni e in più la concorrenza sembra davvero dura. La priorità ai siciliani. Poi agli Albanesi e infine agli immigrati regolari. Una logica implacabile.
“A Palermo o a Napoli avrete più fortuna”, ci assicura Pavarotti. Meglio seguire il parere di un esperto e non perdere altro tempo nella zona, dove il mercato del lavoro è oltremodo saturo. Gli offriamo un buon couscous siciliano e lui ici ricambia con dei consigli preziosi. Poi, come se volesse scusarsi per non averci trovato un impiego, ci aiuta nella negoziazione con i proprietari della pensione: non possiamo lasciargli due notti pagate in anticipo. Pavarotti riesce a trovare gli argomenti giusti e così recuperiamo i soldi.

L’autobus blu della compagnia Segesta fa avanti e indietro tra Trapani e Palermo di continuo. Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Il biglietto di sola andata costa dieci franchi, è fattibile. Prendiamo il bus delle 16. Fa bel tempo. Il paesaggio è tenero e sorridente. Nessuno sembra spiarci (possiamo tranquillamente passare per dei Siciliani). Stiamo andando a Palermo, la città delle fughe e dei prodigi. Certo, abbiamo meno soldi rispetto al principio, Jeff è molto meno entusiasta, ma fa parte del rischio del viaggio. Nel complesso possiamo dirci felici. La polizia italiana ci concede una pace da re. Abbiamo ancora un po’ di denaro per pagarci da mangiare e abbastanza energia per scalare una montagna. Cosa pretendere di più? Mi addormento con la testa al sole. Non per molto, purtroppo, dato che il tragitto dura poco più di un’ora. Sono le 17 e la stazione di Palermo è lì ad attenderci.
Non siamo soli. Decine di pretendenti ci hanno già preceduto. In tutta questa folla, come riconoscere chi è siciliano da chi è un immigrato regolare? Chi clandestino e chi un semplice marinaio in scalo? Chi è del posto e chi viene da fuori? Vai ad indovinare! Mescolatevi, mischiatevi e Dio riconoscerà certamente i suoi in questo bel mosaico di etnie, in questo brusio di lingue, in questa calca di facce così differenti e allo stesso tempo così simili.
Deambuliamo come il resto della truppa tra la sala di attesa e la banchina, tra la banchina e le vie adiacenti, tra le vie adiacenti e la stazione dei taxi e poi il bar di fronte e infine di nuovo la banchina. Sono esausto. Ah, voglio dormire, voglio un letto. In mancanza del letto, mi viene in aiuto la cattolicissima chiesa siciliana: nell’ingresso principale della stazione, una mano caritatevole ha creato una piccola cappella. Una stanzetta bianca che può contenere al massimo una dozzina di persone. Qualche fila di sedie, un grosso crocifisso appeso al muro, un candelabro acceso, una statuetta della Madonna e molto silenzio. All’interno ci sono alcune donne vestite di nero, uno o due barboni e un paio di ragazze. Trovo un posto. Una vecchia mi sorride mentre faccio finta di pregare. Nel frattempo, ben lontano dal perdersi in simili sotterfugi, Jeff ha abbordato una banda di Marocchini, che gli indicano l’indirizzo di una pensione nel quartiere La Cala.
Sono circa le 20, Palermo brulica di vita. Attraversiamo un pianeta fatto di uomini, di piazze ben rifinite, di terrazze aperte e accoglienti e di trattorie ripiene di bontà. Ma tutto questo non ci appartiene. Il nostro posto è nella zona adiacente al porto. In fondo ad una via sordida e oscura ci imbattiamo nei resti ingombranti di un quartiere sventrato e ridotto in brandelli. Macerie di vecchie dimore che qui nessuno si è dato la pena di spianare. Difficile da qualificare. La Cala? E’ il gotico senza poesia, fatto di gru e di depositi deserti. Una miseria spaventosa.
Una donna minuta, che occupa abusivamente un appartamento sporco e brulicante di gente, ci chiede 240 franchi per dividere una stanza con altre persone. Quante sono queste altre persone? Come dividersi i letti? Dove mettere i bagagli? Dove lavarsi? Domande bislacche e inconcepibili a La Cala. Corridoi vaghi sono trasformati in camere da letto, con materassi rachitici e teli impiastrati da ettolitri di sudore come lenzuola. E poi un odore… ah! L’odore di La Cala: mare e benzina, pesce marcio e naftalina, olio fritto da giorni, tanfo di alghe e pasta all’aglio. Conosco questi odori, ma fino ad ora li ho sempre assorbiti uno alla volta, in modo distinto. Non è facile mescolarli assieme e farne un unico effluvio indistinguibile. Ma nella pensione, che resta innominabile, accade anche questo. La donna esige e ottiene il pagamento di tre notti anticipate.
Travolto da un rimorso tardivo, confesso al mio compagno che non ho alcuna intenzione di dormire in una bettola simile. Piuttosto una panchina o la cappella della stazione, ma non qui. Jeff riesce a convincermi solo dopo un notevole dispendio di energie. Mi racconta che, con molta probabilità, riuscirà a trovare un lavoretto. Non me la sento di mandargli a monte l’affare. Così mi calmo e lo assecondo. Per celebrare la nostra intesa gli propongo una pizza. Mentre mangiamo, mi confessa la sua voglia di sposarsi e di trovare una sistemazione. Poi, sazi di vino e di immagini di donne inaccessibili, decidiamo di concludere questa lunga e interminabile serata nelle vie di Palermo, a volte completamente buie, a volte ben illuminate.
Jeff mi spiega che uno dei Marocchini incontrati nel pomeriggio gli ha fissato un incontro per domani, prospettandogli l’ipotesi di lavorare come rivenditore di sigarette a nero. Cullandoci su questa vaga promessa di ingaggio, rientriamo “a casa”, dove tre Africani e due Asiatici hanno avuto la buona idea di precederci. Gli Asiatici dormono, mentre gli Africani contano i loro soldi e sistemano le loro cose mugugnando. Non sembrano troppo soddisfatti della giornata appena conclusa. Non capendo niente dei loro bisticci li lasciamo in preda a calcoli astrusi.
L’obiettivo, adesso, è trovare una doccia. “Ah, ancora con queste abitudini da turista viziato!” - mormora Jeff, che prosegue - “quando prenderai le vere abitudini del clandestino?”. “Voglio giusto pulirmi un po’ i denti”, gli rispondo. “In questo schifo? Tu sei tarato, parola mia. Cercheresti mai un pozzo in mezzo al deserto dei Gobi? Ci ho guardato io prima, non c’è nemmeno un lavandino. Dai! Mettiti a dormire, vecchio mio, e non rompermi con le tue storie. Otto persone su dieci vanno a letto senza lavarsi i denti. Per una volta puoi fare anche tu come tutti gli altri”, conclude il mio compagno. Ma le sue parole non mi scoraggiano. Prendo le mie cose sotto braccio e, in punta di piedi, inizio la ricerca. Sono pronto a fare il giro dell’intera pensione se necessario.
La mia indagine, tuttavia, rischia ben presto di trasformarsi in un battibecco generale. Gli altri ospiti, svegliatisi di soprassalto, mi scambiano per un ladro. Un occhio sui bagagli e l’altro su di me, mi prendono per il collo, mi ricoprono di ingiurie e mi obbligano a tornare a letto. Protesto, cerco di scusarmi e, a mia volta, ricambio gli insulti. Di fronte alla loro reazione i miei sforzi sono vani. Così torno sui miei passi. Jeff, che ha seguito tutta scena, continua sullo stesso tono: “cercare una doccia in mezzo a questo casino. Ci vuole coraggio! Adesso dormi e fai come gli altri otto decimi di cui ti ho parlato”. Sistemo le mie cose, ormai inopportune, con la ferma intenzione di lavarmi domattina alla stazione.
Il giorno dopo, alla stazione, non c’è nessuna traccia del Marocchino che ci ha promesso l’ingaggio. Ma Jeff è ostinato. Mi lascia di nuovo solo. E’ convinto che riuscirà a trovare il modo di guadagnarsi da vivere in questa città. Senza troppe illusioni lo lascio fare e, fedele alla mia piccola cappella, riesco a dormire ancora un po’. Di ritorno da chissà quale lungo cammino, vedo Jeff sfinito e demotivato. Si trascina i piedi. Anche lui si è arreso ormai alla penosa evidenza che già da un po’ ha incominciato ad assillarmi: ci ritroviamo con pochi soldi in tasca, senza nessun lavoro in vista, sprovvisti del benché minimo contatto e, per completare l’opera, siamo sistemati in un alloggio malsano.

In questi casi, anche uno solo dei motivi sopracitati sarebbe sufficiente per convincere la persona meno ragionevole a cambiare spalla al suo fucile. Ma Jeff non ci pensa nemmeno. Non che siaesageratamente testardo o irrealista, solo che, nel corso della sua vita, la forza della speranza si èsostituita di fatto alla realtà. Così, non sonole mie argomentazioni o miei ragionamenti, peraltro sensati, a convincerlo. La decisione di seguirmi a Roma la prende solo dopo aver constatato quale inquietante novità ci attende al rientro nella pensione.

Due dei nostri vicini africani si affrettano a sistemare i bagagli, in modo febbrile. Il terzo è assente. La camera si trova in uno stato indescrivibile. Sorpresi da tanto disordine e da una tale precipitazione, gli offriamo il nostro aiuto domandando con fare discreto se sta per accadere qualcosa di grave.
“Il nostro compagno è stato arrestato dai carabinieri poco fa alla stazione”, mormora uno dei due. “Se fa il nome della pensione siamo fottuti. Ci sarà di certo un’incursione durante la notte”. “E allora?”, replica Jeff con il tono dell’avvocato sicuro di sé. “Passeremo la notte in commissariato e domani saranno costretti a darci un foglio di via valido due settimane. Avremo il tempo sufficiente per..”. L’Africano non gli lascia il tempo di finire la frase: “Noi abbiamo già quei fogli, sono scaduti da cinque mesi!”. Detto questo, i nostri vicini abbandonano velocemente l’alloggio.
Quanto a noi, sistemiamo le nostre cose negli zaini e, nell’impossibilità di andare da qualche altra parte, aspettiamo frenetici che i carabinieri arrivino a cercarci. Siamo pronti ad essere interrogati e a ricevere il famoso foglio di via. Trascorriamo la notte fumando e elaborando un’infinità di piani. Ci ripetiamo mille e mille raccomandazioni. Ma, invece della polizia, è la stanchezza a sorprenderci.
Il giorno seguente Jeff traccia mestamente il quadro della situazione. Conta di nuovo i soldi che gli restano, mormora vaghe ingiurie, inizia a dubitare del mondo intero e inizia a parlarmi del suo amico a Roma. Poi, spinto tanto dalla disillusione quanto dalla voglia di cambiamento, si rassegna a seguirmi verso la capitale.
L’autobus della Segesta lascia Palermo per Roma alle 18. Trecentosessanta franchi sola andata. Alcuni turisti stendono le loro coperte e, da bravi siciliani, si sussurrano dio sa quali segreti. Dei militari raccontano ad alta voce storie di donne e di denaro. Una musica languorosa contorna il tutto, creando un’atmosfera vacanziera. Non stoniamo poi così tanto rispetto al resto del gruppo. Si preannuncia un viaggio di tutto riposo. Solo un dettaglio ci infastidisce un po’: al momento della partenza due poliziotti si fermano ad osservare il veicolo; poi uno sale a bordo, dà un’occhiata ai passeggeri, parla con l’autista e riscende. Nel frattempo Jeff, invece che osservare i protagonisti della scena, non la smette di pizzicarmi la mano e di interrogarmi con lo sguardo. Come se fossi una cartomante.
“La paura dei poliziotti è l’inizio della…”, gli sussurro all’orecchio. Ma non ho il tempo di finire che Jeff reagisce di scatto. “Mi prendi per il culo!”. “No, non è mia la frase. E’ una citazione…”, cerco di spiegargli, ma lui reagisce ancora una volta: “vai a quel paese!”. Solo all’ingresso dell’autostrada molla la presa con cui si è attaccato al mio braccio e inizia a rilassarsi. Riesce perfino a farmi uno di quei sorrisi luminosi di cui sono capaci soltanto i convalescenti al termine di una brutta malattia. Stendiamo le nostre vettovaglie: ci dividiamo un succo di frutta e mangiamo con l’anima in pace. Dopodiché le palpebre sembrano impigrirsi. La vita, anche quella del clandestino, offre sempre brevi istanti di una gioia semplice e tranquilla. Per goderne a pieno è sufficiente esistere. Ci aspettano dieci ore di viaggio e sono intenzionato ad assaporarle una per una.
A risvegliarmi da questo stato di primitiva beatitudine in cui sono immerso ci pensa il famoso stretto di Messina. Il traghetto che trasporta da una riva all’altra macchine, pullman, treni e camion, oltre a fare un baccano tremendo, ha un aspetto mostruoso. Di dormire neanche più a parlarne. Senza contare poi che il paesaggio offerto dallo stretto, a metà industriale e a metà marittimo, vale la pena di essere ammirato. Di conseguenza abbandono ogni velleità onirica e contemplo il genio italiano all’opera, là davanti ai miei occhi. Immense gru, macchine complicate e uomini ingegnosi. Proprio qui, nello spazio di due chilometri, il nord e il sud sembrano sfiorarsi. Si voltano le spalle, collaborano e si ignorano allo stesso tempo. A sinistra c’è la Sicilia, rurale, povera e popolosa, mentre a destra siamo già in Europa.
Questa sovrapposizione brutale dei due mondi, così percettibile a Messina, mi toglie il riposo fino a Roma. Ciò che mi impedisce di dormire è la brusca sensazione che, lasciando la Sicilia e mettendo piede nel continente, io e Jeff siamo appena passati da una civiltà ad un’altra. Stiamo realmente transitando da una terra tutto sommato familiare ad una dimensione estranea e poco conosciuta. A Messina è finito l’Oriente ed è cominciato l’Occidente. Nel bene e nel male. Dovrei forse dire al mio compagno che da questo momento la nostra situazione inizierà a farsi seria? Dovrei forse dirgli che da adesso in poi saremo degli abbronzati in mezzo ad una marea di bianchi? Degli arabi tra gli Europei, dei musulmani tra i cristiani, dei poveri in mezzo ai ricchi, dei disoccupati in mezzo ad una massa di lavoratori, dei senza-tetto a contatto con i più fortunati, dei sottosviluppati in una terra sviluppata, dei pre-moderni in mezzo ai post-moderni? Sì, dovrei farlo. Rimugino questa lunga serie di dicotomie, cercando le parole giuste per comunicarle a Jeff, affinché comprenda che, una volta a Roma, Milano o Lione, non troveremo più la stessa familiarità provata a Palermo. Ma le parole adatte non arrivano. Pazienza, non gli dirò niente. Del resto non ho alcun diritto di spaventarlo. In ogni caso quando saremo là, con o senza le parole giuste, avremo mille modi per capire ciò che ci distingue dal nord (in positivo e in negativo).

martedì 19 gennaio 2010

Abderrahim Mouhtad, un “rivoluzionario più verde che rosso”

Mi inoltro nella lontana periferia di Casablanca, a bordo di un petit taxi, tra il cemento dei palazzi tutti uguali e l’autostrada che conduce a Rabat. Il luogo si chiama Sidi Bernoussi. La strada per arrivare a Mansour extension ha ancora un vago ricordo dell’asfalto con cui fu costruita. Di fronte a quello che un tempo doveva essere un vecchio mercato di quartiere, cinque o sei capre brucano insoddisfatte tra i cespugli e i cumuli di immondizia accatastati a lato delle macerie. Camminando ancora un po’, sotto lo sguardo incuriosito di alcuni ragazzi che giocano a pallone, raggiungo la rue n. 2. Qualche passo e poi mi fermo davanti ad una porta di metallo, a cui è affisso il numero 66. E’ il posto che sto cercando. Qui abita Abderrahim Mouhtad, il presidente dell’associazione Ennassir (“l’aiuto” in arabo), una piccola organizzazione che da qualche anno fornisce assistenza e sostegno ai detenuti islamici. L’appuntamento è per le tre. Sono un po’ in ritardo, quindi suono il campanello senza pensarci troppo su. Ad aprirmi è lo stesso Mouhtad, con la sua solita aria sorridente.
Il settimanale Tel Quel, in una recente intervista, l’ha definito “un vecchio sovversivo”, o meglio ancora “un rivoluzionario più verde che rosso”. Abderrahim Mouhtad ha fatto parte della prima organizzazione islamica militante marocchina e, a quanto ne so, non ama molto parlare del suo passato, dei suoi trascorsi nelle fila della Shabiba Islamiyya (la Gioventù Islamica). Si mormora addirittura che stia scrivendo un libro su questo capitolo di storia ancora oscuro. Ciò nonostante, accetta di rispondere ad alcune domande che esulano dal tema centrale della nostra chiacchierata. Così, prima di addentrarmi nello specifico dell’associazione, cerco di saperne di più sulla vita di questo personaggio incredibile.


lunedì 18 gennaio 2010

Marocco: islam e sufismo

(Dopo aver accennato al sufismo e alle confraternite nel reportage da Salé, ho deciso di rimettere mano ad un capitolo della mia vecchia tesi di laurea per approfondire un po' l'argomento. Purtroppo il linguaggio del pezzo è rimasto oltremodo accademico, ma l'argomento trattato credo possa suscitare ugualmente interesse)


sabato 16 gennaio 2010

Inseguendo Taia e Pasolini (appunti di viaggio da Salé)

Il treno ha appena superato la stazione Rabat-ville. Mi affaccio al finestrino e vedo la torre di Hassan spuntare fiera sui tetti delle case circostanti. Poco più in là c’è la casbah des Oudayas, che domina dall’alto del suo promontorio l’incontro silenzioso tra il mare dell’Atlantico e il fiume Bou Regreg. Questo piccolo corso d’acqua, poco più di un rigagnolo, nasce nelle lontane montagne dell’Atlas. Percorre centinaia di chilometri, scavando il suo letto tra le rocce aride dell’interno, prima di gettarsi sull’oceano proprio in questo punto, separando così Rabat da Salé. Due città vicine, “gemelle” a detta di alcuni, ma in realtà distanti secoli e secoli l’una dall’altra. La prima governa la vita amministrativa e politica del Paese, ed è rivestita di bei palazzi in stile coloniale e luci scintillanti. La seconda sembra aver fatto capolino nel ventesimo secolo soltanto da qualche decennio.

venerdì 15 gennaio 2010

Il Marocco un nemico di Internet?

La stampa indipendente marocchina torna sugli eventi che hanno sconvolto la cittadina di Taghjijt (nella regione di Agadir) all’inizio di dicembre. Gli interrogativi più inquietanti, oltre alla reazione violenta delle autorità, riguardano l’atteggiamento repressivo e intimidatorio dimostrato dal regime all’indirizzo di coloro che cercano di esprimersi nel web. Il fenomeno dei blogger permette alle regioni più remote del “Marocco profondo” di uscire dall’isolamento mediatico di cui sono vittime da lunghi decenni. Le acquisizioni nel campo informatico fanno sì che gli abusi e le violazioni perpetrate dalle autorità, lontano dagli sguardi indiscreti, possano essere pubblicamente denunciate. Il regime sembra più che mai infastidito e reagisce a suon di condanne.


giovedì 14 gennaio 2010

La repressione nella vecchia e nella nuova era

(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 424, 9-15 gennaio 2010)

Testimonianze. Le epoche cambiano ma le pratiche restano le stesse. Khadija Menebhi, sorella della leggendaria Saida Menebhi, e Rachida Baroudi, madre di Rida Benothmane, un detenuto islamico tuttora in carcere a Salé, raccontano il calvario a cui lo Stato marocchino le ha costrette. Un incontro edificante.


mercoledì 13 gennaio 2010

Mohamed Sebbar e il Forum Verità e Giustizia

Mohamed Sebbar è stato Presidente del Forum Verità e Giustizia dal 2003 al 2009. In seguito al III Congresso dell’organizzazione, tenutosi a metà del dicembre scorso (pochi giorni dopo il nostro incontro), ha lasciato l’incarico a Mustapha Manouzi. Sebbar è anche l’avvocato del detenuto italiano Kassim Britel.
L’intervista all’inizio si concentra sulle specificità e sugli obiettivi che muovono il lavoro dell’associazione e sul contesto politico in cui è avvenuta la sua creazione. Poi prende in esame il lavoro svolto dall’Istanza di Equità e Riconciliazione e le prospettive del Forum negli anni a venire.


giovedì 7 gennaio 2010

Alla scoperta di Abdelilah Benabdesslam, militante da una vita

Intervista ad Abdelilah Benabdesslam, vice-presidente dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo) dal 2007. Uno sguardo illuminante e privo di reticenze su alcuni tra i passaggi più cupi della storia passata e presente di questo paese. L’intervista è divisa in due parti.


Benabdesslam, una vita al servizio dei diritti dell’uomo

(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 412, 10-16 ottobre 2009)

Abdelilah Benabdesslam è uno dei protagonisti principali nella lotta per la difesa dei diritti umani in Marocco. Semplice, discreto e efficace, il vice-presidente dell’Associazione marocchina per i diritti dell’uomo (AMDH) sta portando avanti una battaglia profondamente legata alla sua storia personale.


venerdì 1 gennaio 2010

Taghjijt, una nuova Sidi Ifni?

(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 422, 19-25 dicembre 2009)

Per aver diffuso in Internet alcune testimonianze sulla repressione messa in atto a Taghjijt, un piccolo villaggio nel sud del Marocco, il blogger El Bachir Hazzam è stato condannato a quattro mesi di carcere, colpevole di aver “infangato la reputazione del Marocco nel settore dei diritti umani”.