Dal libro Clandestin en Méditerranée, ecco la traduzione del secondo capitolo. (Vai al primo capitolo)
Dormire? Lì, in quella specie di zattera! Nessuno ci pensa. Anzi, capiamo subito che è necessario lottare contro il sonno per stare ben all’erta. Non possiamo fare gran ché in caso di pericolo, ma è meglio comunque restare svegli, in guardia, essere pronti nel caso in cui…
Fumiamo. Le nostre orecchie, e con loro la nostra attenzione, vengono catturate dai rumori del mare. Il capitano e il suo compare bisbigliano. Noi facciamo altrettanto. Il mio vicino, soprannominato Jeff, mi racconta la sua storia. Viene da Constantine. Dopo il lycée ha tentato di inscriversi in una università francese, ma l’Ambasciata transalpina ad Algeri non gli ha concesso il visto. Per questo ha varcato la frontiera, è arrivato a Tunisi e si è imbarcato clandestinamente. Il suo obiettivo è raggiungere la Francia, passando prima per l’Italia, dove degli amici lo stanno aspettando. Spera di rivederli una volta a Roma.
Il turno delle domande ora passa a lui, ma non ho il tempo di rispondergli. Bisogna stare in silenzio, poiché in lontananza una luce tremolante sta venendo dritto verso di noi. Il passeur non sembra tranquillo. Rallenta l’andatura quel tanto che basta per diminuire il fracasso del motore. Le luci danzano un po’ a pelo d’acqua e poi si allontanano. Pescatori? Guardia-coste? Forse un’altra barca di migranti diretta un po’ più a sud? Non lo sapremo mai.
Io e Jeff riprendiamo la conversazione, a cui si aggiunge questa volta anche il tunisino. Con un’aria solida e seria ci informa che il suo unico interesse è arrivare a Palermo. Sembra conoscere bene le dinamiche degli sbarchi clandestini, così gli chiedo cosa dovremo fare una volta arrivati a Pantelleria. “Per prima cosa bisogna evitare di andare in gruppo – mi risponde con tono calmo – in questo genere di cose è meglio procedere da soli. Non è il caso di attardarsi a Pantelleria, meglio prendere un traghetto per Trapani prima possibile. Il momento più delicato dell’operazione è percorrere i tre o quattro chilometri che separano la spiaggia dal porto dell’isola. Una volta a Trapani è fatta!”. Trapani, un piccolo rifugio di pescatori, sarà la faglia che ci permetterà di eludere l’arsenale di Shengen, penso tra me e me.
E’ ormai notte fonda. Delle coste e delle loro luci rassicuranti (quantomeno familiari) non c’è più nessuna traccia, ed è solo un’ora che navighiamo. Il freddo comincia a farsi sentire, prepotente. Mi imbacucco meglio che posso nel mio parka. Una fatica inutile. Non riesco a smettere di tremare: ai sussulti del freddo si aggiungono quelli dell’angoscia che cresce. Il mio connazionale sembra comprendere la situazione, lo stato d’animo in cui mi trovo, così mi offre una tazza di the. Poi, quasi per mettermi in guardia, mi sussurra piano all’orecchio: “Freddo e mancanza di sonno. Lo so, fratello, ci sono abituato. Dovrai farci l’abitudine anche tu, perché saranno i tuoi compagni più fedeli. Un clando soffre sempre il freddo e quando dorme lo fa con un occhio solo”.
Il malien non parla. Fuma e continua a fissarci con un sorriso pensieroso e compassionevole. Sembra sapere già cosa ci aspetta veramente laggiù. Mentre il tunisino continua a parlare, ricoprendoci di consigli, l’africano mostra una disapprovazione silenziosa. Le sole frasi che gli sento pronunciare sono per informarci che non sa nuotare e che è in viaggio per raggiungere il fratello a Lille. Gli domando allora se conosce già un po’ la Francia, se sa dove passare o se è in possesso di un contatto. Ma non ottengo alcuna risposta. Jeff mi confida che è meglio evitare questo genere di domande. Un clandestino non può mettersi a fare il terzo grado come un poliziotto! Mi ci devo abituare. Sono mosso ancora dall’istinto del giornalista, devo capire che la clandestinità ha altre regole, altri riflessi. L’altro algerino interviene nella conversazione: “è meglio evitare Ventimiglia, Menton e in generale la Costa Azzurra”. A suo dire l’esercito francese non esita a sparare senza preavviso. Gli rispondo sicuro di me, spiegando che in Francia l’esercito non è affatto schierato alle frontiere e che comunque queste cose non possono succedere in uno Stato di diritto. I miei compagni reagiscono alla mia ingenuità con un’alzata di spalle. (Queste voci non erano affatto prive di fondamento. In quei giorni infatti, dalla parti di Menton, dei doganieri francesi avevano aperto il fuoco su un’auto che trasportava sans-papiers. Ci fu perfino un morto. Nda).
Oltre a capire quando è meglio tacere, devo imparare che nel mondo dei clandestini le notizie viaggiano veloci. Raramente si ha il tempo di verificarle e in ogni caso è preferibile drammatizzare le cose piuttosto che addolcirle. Quante nuove abitudini da apprendere! E sono ancora all’inizio del cammino.
Ci spartiamo gli spuntini comprati prima di partire (sembra già un’eternità!). Mangiamo delle arance. Fumiamo tutti assieme. Il libico offre cioccolata. Mentre la distribuisce specifica che in nessun caso vuole attardarsi in Sicilia. Ha in mente di arrivare a Roma. A suo avviso le cose làggiù sono più facili che altrove in Europa. Ci confida che in realtà avrebbe potuto ottenere un visto, ma il Consolato italiano non gli ha risposto in tempo, a causa delle numerose inchieste a cui Roma sottopone i cittadini libici che vogliono lasciare il Paese.
Di nuovo, in lontananza, appaiono delle luci saltellanti. Siamo costretti a restare in silenzio. Ma questa volta il capitano non abbassa i giri del motore. Gli basta fissare bene la direzione da cui proviene la nuova inquietudine. Stando al numero e alla grandezza, queste luci sembrano indicare che si tratti di una nave da carico o di un traghetto, diretto nella nostra stessa direzione. Un punto oscuro e indefinito oltre le tenebre che ci avvolgono. Forse sta puntando leggermente più a nord.
Un traghetto? Ne ho presi molti, prima di vestire i panni del clandestino.
Mi lascio trasportare dai ricordi di quei tempi andati, e mi ritrovo a immaginare le azioni che i passeggeri della nave stanno compiendo in quel momento. Alcuni sono al bar, ad ascoltare musica mentre sorseggiano soddisfatti il loro bicchiere. Altri devono essere sul ponte a guardare le stelle. Altri ancora sono in cabina a leggere il giornale, forse stanno accarezzando la loro compagna di viaggio, o forse dormono. Fra qualche ora arriveranno, freschi e riposati, in un porto luminoso. Ricchi in mezzo ai ricchi. Nobili tra i nobili. Avranno la forza di guardare il mondo dritto negli occhi. Non avranno bisogno di nascondersi dietro una falsa identità, né di lottare contro il sonno. Sicuri dei loro visti, dei recapiti dei loro corrispondenti e del denaro che dichiarano di possedere, soddisfatti, ai doganieri, non racconteranno di aver perduto il passaporto, se ne fregheranno altamente dei poliziotti e degli schedari. Chissà se immaginano che, non lontani dalle loro cabine, sei viaggiatori clandestini, attanagliati dalla paura e dal freddo, stanno seguendo le loro tracce.
Mi assopisco cullato da questi ricordi. Ma sono immagini che appartengono ad un altro pianeta. Il pianeta degli esseri umani, un pianeta che mi sono lasciato alle spalle qualche ora fa.
Oggi, nella calma che avvolge il mio ufficio, non mi sento più capace di definire quell’emozione che si era insinuata allora dentro di me. Tristezza? Malinconia? Nostalgia? Probabilmente un insieme di tutto questo. Di certo, non avevo più la sensazione di vivere quella stessa temporalità che scandiva la vita dei passeggeri del traghetto dinnanzi a noi. Loro andavano con andatura risoluta e in linea retta verso una destinazione conosciuta e decisa in anticipo. Noi piroettavamo incerti nell’illegalità, verso un approdo che non avevamo scelto e di cui non conoscevamo gran ché. Loro sapevano cosa li aspettava dall’altra parte, noi potevamo a malapena indovinare il colore della spiaggia che ci avrebbe accolto. Era una sensazione strana e penosa. Come una sorta di vertigine, quasi fossimo astronauti in partenza verso un angolo remoto del cosmo. Vertigine, forse è questa la parola più adatta.
In fondo, non si trattava solamente di un’immersione nell’illegalità, che in sé resta un semplice cambiamento di status giuridico. Stavo sperimentando a poco a poco una temporalità inedita, il ché presupponeva una svolta ben più conturbante. Una nuova maniera di percepire la durata del tempo. Tutt’altro ritmo rispetto a quello dei cittadini ordinari. Di fatto, i passeggeri di quella nave e noi, individui oscuri in una barchetta tremolante, non appartenevamo più allo stesso tempo, non condividevamo più lo stesso spazio. Ormai non vedevamo più la terra dalla stessa angolazione. Un esempio. Quelle rive che avevamo appena lasciato, quei paesaggi familiari, per noi erano già lontani e stranieri.
Il battello che ci precedeva stava uscendo dalla portata della mia immaginazione. Quasi fosse un vascello di marziani. La sua stessa velocità mi appariva prodigiosa. In seguito, una volta cominciate le peregrinazioni terrestri, questa sensazione strana e dolorosa ha avuto più di una conferma.
La temporalità e il bioritmo di un clandestino hanno caratteristiche proprie. Vivendo fuori dalla legge, un illegale non sottosta più alle regole del tempo civile, non condivide con il resto degli uomini lo scorrere armonioso delle ore. La sua temporalità è fatta di scali forzati, fermate obbligate, improvvise, e scatti non previsti. Un ritmo caotico che non appartiene né al presente né al futuro. Una dimensione senza coordinate. Come si può parlare di avvenire a delle persone che non sono padrone nemmeno del loro immediato futuro?
Dovevo calarmi in questa dimensione il più velocemente possibile. Ogni volta che le mie abitudini, piuttosto borghesi, cercavano di opporsi, i miei compagni erano lì per ricordarmelo.
Jeff mi scuote dolcemente. “E’ meglio che ti distendi nel fondo dello scafo - mi dice - invece che ciondolarti in questo modo sulla panca”, offrendomi il suo sacco come cuscino. Rifiuto e gli assicuro di reggere alla stanchezza. L’africano non ha bisogno dei consigli di Jeff. Si è già sistemato sul fondo dell’imbarcazione. Raggomitolato, con un impermeabile fino al mento e la testa infilata sotto una sciarpa, fa partire una litania che assomiglia molto ad una preghiera. Le onde iniziano a dargli visibilmente fastidio. Onde sempre più minacciose, onde che fanno tremare lo scafo. Sarà il vento? Forse siamo usciti definitivamente dalla baia e andiamo incontro alle folate violente del mare aperto? Chi può dirlo?
I marosi solcano il mare con forza crescente, ci sbattono addosso e gli spruzzi infuriano su di noi come una pioggia di spine. Il malien ha previsto tutto fin dall’inizio. La sua sola paura, quella di annegare, si dimostra ben più concreta e reale delle nostre chiacchiere. Ci stendiamo attorno a lui nella pancia dello scafo. Siamo in sei, rannicchiati in una superficie che non supera i dieci metri quadrati, in mezzo ad un guazzabuglio di corde, bidoni, lattine e cassette per gli attrezzi. Accalcati gli uni sugli altri, tremiamo di freddo, oltre che di paura.
Se non temete il mare, dicono gli Irlandesi, finirete per morire annegati. Il nostro capitano sembra conoscere questo proverbio. Prende subito la situazione sul serio. Si siede sulla piccola panca, non lascia più la barra del timone e fissa non so bene che cosa all’orizzonte. Le condizioni del mare lo preoccupano, le onde catturano tutta la sua attenzione tanto che non degna più di uno sguardo i sei malcapitati stesi sotto di lui. Non è la rapacità dei passeurs che dobbiamo temere, ormai sembra evidente, ma i capricci di un mare imprevedibile.
Mi avevano segnalato questo pericolo. Mi avevano detto che il mare, nel Canale di Sicilia, costituisce l’ostacolo più grande all’emigrazione clandestina. Mi avevano ripetuto spesso che il Mediterraneo si fa complice di Shengen. Diffidente, non ci ho creduto. Più che gli umori del mare ho temuto la vigilanza dei guardia-coste e le manovre losche dei trafficanti. Mi sono sbagliato!
Fino ad ora il capitano è stato corretto ed i guardia-coste discreti. Ma il mare! Gli scossoni sono sempre più forti ed io spero quasi che arrivi qualcuno ad abbordarci. Qualcuno che interrompa questo calvario. Ma chi? Non c’è nessun faro nei paraggi, nessuna luce. Sarei felice anche solo di avvistare una motovedetta. A questo punto mi sembra il male minore. Cerco di tirarmi su e domando al passeur se abbiamo già varcato la frontiera. Borbotta qualcosa e mi fa segno di tornare a stendermi con gli altri. Mi consiglia di dormire un po’, sarà lui stesso a svegliarmi non appena avremo attraversato una qualunque frontiera.
Sbattuti dalle onde e sommersi di schizzi, proseguiamo la nostra marcia nelle tenebre. Torno al mio posto e lascio perdere il mare per un momento. Cerco di osservare i due piloti. Mi hanno talmente messo in guardia da questo genere di trafficanti che temo ogni loro mossa. Non si racconta forse che all’avvicinarsi di un pericolo alcuni di loro sono disposti ad abbandonare il carico in alto mare? Non vengono forse descritti come esseri privi di scrupoli, che non esitano a far correre i pericoli più assurdi ai loro passeggeri? L’angoscia e l’oscurità contribuiscono ad aumentare i dubbi e le apprensioni.
Con un certo distacco, oggi, ammetto che il passeur si è comportato in maniera corretta e competente. Ha svolto onestamente un lavoro disonesto. Ha corso i nostri stessi pericoli. Abbiamo sopportato le stesse orrende condizioni. Cosa poteva guadagnare nel gettarci in mare? Alleggerire la sua imbarcazione? E a che scopo, visto che lo scafo carico e pesante poteva resistere meglio alla furia dei marosi?!
Ancora adesso, seduto dietro alla mia scrivania, cerco di definire la sensazione esatta che ho provato in quelle ore di subbuglio e di pericolo. Nel mio racconto l’ho chiamata paura, ma non ne sono così sicuro. E’ una parola ormai abusata, utilizzata spesso in modo improprio, quindi troppo vaga. In un primo momento fummo presi dall’inquietudine, sopraffatti dalla brusca levata del vento e dall’inizio dei sussulti. Ma fu una sensazione breve. Poi ci ha invaso una sorta di turbamento interiore, lacerante per quanto silenzioso. Ciascuno di noi si domandava se il mare ci avrebbe lasciato passare o, nel peggiore dei casi, ci avrebbe permesso di tornare al porto. Alla fine è arrivato lo spavento, quello vero. Eravamo sconvolti dalla raffica continua di onde impazzite che stavano riempiendo lo scafo d’acqua. Ma se ben ricordo anche lo spavento non durò a lungo.
Inquietudine, turbamento, spavento. Sensazioni concrete, ma fugaci. La paura, invece, si insinua per giorni, non molla mai la presa, non lascia spazio al respiro, immobilizza. Spesso non ha causa apparente né un volto definito. Questo sentimento (non la sensazione ma il sentimento) non l’ho mai provato di fronte ai pericoli appena descritti. Non l’ho vissuto sullo scafo traballante che mi ha condotto fino alle coste italiane. La paura è arrivata più tardi, mentre stavo attraversando le Alpi. Mi ha braccato per due giorni interi. Eppure il passaggio a piedi attraverso il Col du Simplon era meno pericoloso rispetto alla traversata del Canale di Sicilia. Le Alpi meno capricciose in confronto al Mediterraneo. Tuttavia un malessere opprimente ha avvelenato quegli ultimi giorni di viaggio. Ma non è ancora il momento di parlarne. Siamo ancora lontani da Domodossola e dal confine svizzero. Altri rischi, altre avventure, altre fughe, altre attese, prima, meritano di essere raccontate in questo reportage.
Nessun commento:
Posta un commento