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lunedì 5 ottobre 2009

Il Groupe MALI scuote il Marocco

Domenica 13 settembre, stazione di Mohammedia, qualche chilometro a nord di Casablanca. Ancora una settimana alla fine del Ramadan, ancora sette giorni prima dell’Aid Ftur, la festa della “rottura”, il primo pasto alla luce del sole dopo un mese di digiuno. Sulla banchina della gare, verso mezzogiorno, sei ragazzi si ritrovano circondati da un centinaio di poliziotti. In mezzo alla folla anche qualche giornalista. Dopo una discussione accesa, alcuni agenti costringono i sei a salire sul primo treno di passaggio, direzione Casa Port.



Comincia così l’affaire MALI (Mouvement Alternatif pour les Libertés Individuelles). Ma per raccontare questa storia bisogna fare un passo indietro. La vicenda ha inizio qualche settimana prima, in rete. Il 24 agosto Zineb El Rhazoui, giornalista, e Ibtissam Lachgar, psicologa, creano il gruppo MALI su Facebook. In pochi giorni si contano decine e decine di aderenti. L’iniziativa vuole difendere le libertà personali di cui godono per legge i cittadini marocchini. O meglio di cui dovrebbero godere, secondo i promotori.
La prima azione è fissata per il 13 settembre: “un pic-nic simbolico” a Mohammedia. Rendez-vous alla stazione e da lì in marcia verso il bosco che si trova appena fuori città. Una volta lontano da sguardi inquisitori, fuori i panini dagli zaini. Almeno queste erano le intenzioni.
La notizia corre veloce sul web, non solo tra i membri del Gruppo. Piovono ingiurie e offese per lo più, ma anche messaggi di appoggio. Le mail delle due fondatrici sono bombardate di minacce. La polizia viene messa al corrente dell’iniziativa. L’obiettivo dichiarato è denunciare l’articolo 222 del Codice Penale, in base al quale “ogni persona che, conosciuta per la sua appartenenza alla religione musulmana, rompa il digiuno in un luogo pubblico durante il periodo di Ramadan, senza alcun motivo ammesso dalla stessa religione, è punito con un’ammenda dai 12 ai 120 dirhams e con il carcere da uno a sei mesi”. Un articolo in contrasto con la legislazione internazionale, nello specifico con la Convenzione ONU relativa ai diritti civili e politici, ratificata dal Marocco quasi trent’anni fa. In base alla Convenzione, i cittadini marocchini hanno diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Diritto di credere o non credere. Diritto di rispettare il digiuno oppure no.

Le reazioni dell’opinione pubblica non si sono fatte attendere. Già l’indomani del fallito pic-nic, il consigliere reale Mohamed Moatassim ha convocato i leaders dei principali partiti politici, incitandoli a condannare con fermezza questa “azione sconsiderata”; il Consiglio degli Ulama ha attaccato gli autori dell’ “odioso atto di sfida”, mentre tutta la stampa conservatrice per giorni e giorni si è scagliata contro gli “agitatori irresponsabili”.
Le associazioni marocchine per i diritti umani, dal canto loro, si sono schierate a sostegno dei giovani attivisti, difendendo la legittimità dell’azione proposta e condannando l’accanimento ingiustificato della polizia e delle autorità giudiziarie. Infatti, dopo aver costretto i sei a lasciare la stazione di Mohammedia e a riprendere il treno per Casablanca senza che un solo panino fosse uscito dagli zaini, la polizia giudiziaria ha fatto partire un’indagine. Nessuna accusa ufficiale a carico del MALI e nonostante questo, da martedì 15 a venerdì 18 settembre, i sei dé-jeûneurs hanno subito minacce, intimidazioni e insulti per più di dieci ore al giorno nel corso degli interrogatori.
Commentando i fatti relativi all’affaire MALI il giornalista Ahmed Benchemsi, direttore del settimanale indipendente Tel Quel, ha parlato di uno “scontro inevitabile tra due dinamiche contraddittorie presenti nella società marocchina”. Una società che ai suoi occhi si fa via via meno tollerante, sempre più sospettosa e coercitiva. Contro il rischio di un ripiegamento ossessivo nei dettami del tradizionalismo (in questo caso) religioso, una minoranza combattiva sta cercando di far sentire la propria voce. Una minoranza di cui il MALI entra a far parte a pieno diritto. In gioco non c’è solo la libertà di culto, o più in generale il rispetto delle libertà individuali, ma il successo dell’intero processo di transizione democratica.

Il Marocco è un Paese in cambiamento e in quanto tale sta vivendo al suo interno contraddizioni profonde. Per proseguire nel cammino della transizione, per scongiurare il pericolo di lacerazioni sociali e brusche inversioni di rotta, queste contraddizioni devono essere affrontate con coraggio. In questo senso l’iniziativa dei dé-jeûneurs segna un passo nella giusta direzione. Con sei panini sono riusciti ad accendere un dibattito che si annuncia ben più proficuo del linciaggio mediatico a cui sono stati sottoposti in queste settimane. Non è ancora chiaro, tuttavia, quale sorte spetterà ai sei protagonisti. Se finiranno o meno sotto processo. E con quale accusa, visto che alla fine nessun pasto è stato consumato.

1 commento:

marina ha detto...

bravo iaqub...mi piace sempre venire a leggere i tuoi articoli.