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lunedì 21 marzo 2011

20 marzo: sboccia la “primavera marocchina”

RABAT - Il Marocco democratico ha risposto in massa all’appello lanciato dal Movimento 20 febbraio: migliaia di manifestanti, in tutte le città del regno, sono scesi in strada nel “giorno della dignità” (domenica 20 marzo, ndr) per ribadire alle autorità che è ormai finito il tempo dell’autocrazia e del dispotismo. “Il popolo vuole far cadere il regime”, “makhzen (l’apparato tentacolare con cui la monarchia impone il suo controllo assoluto, ndr) vattene! Dissoluzione del governo e del parlamento!”, gli slogan che riecheggiano da Tangeri a Laayoune fino alle piazze della capitale.



Casablanca, 20 marzo
Difficile disporre al momento delle cifre complessive che hanno segnato una giornata storica per tutti i democratici marocchini, pronti a continuare le dimostrazioni fino a che la loro piattaforma non verrà accolta (tra le rivendicazioni, il riconoscimento della sovranità popolare e dell’uguaglianza tra tutti i cittadini e l’instaurazione di una monarchia parlamentare): mamfakinch!, “fino in fondo!”, dicono apertamente i cartelli esposti dai manifestanti. Di certo la partecipazione è stata ancor più numerosa rispetto alla prima giornata di protesta, domenica 20 febbraio, quando il Movimento era riuscito a mobilitare circa 300 mila persone in cinquantatre località del paese. I primi dati parlano di oltre 50 mila presenze a Casablanca, 10 mila a Rabat, Tangeri, Agadir, Fes e Chefchaouen (una documentazione video è disponibile su YouTube e sul sito http://www.mamfakinch.com/), mentre gli organizzatori attendono ancora i riscontri dalle città e dai villaggi delle regioni interne (Rif, Medio e Alto Altlante, Orientale e Souss).
Il silenzio dei media ufficiali in merito all’iniziativa è rotto soltanto da una breve nota diffusa nella serata di ieri dalla MAP (l’agenzia stampa nazionale) secondo cui “le manifestazioni hanno coinvolto in totale 35 mila persone che hanno scandito slogan contro l’aumento del costo della vita e per il miglioramento delle condizioni sociali”. Se la gran parte dei giornali ha ottemperato alle direttive di Palazzo, ignorando o minimizzando la portata delle dimostrazioni e la vera natura del malcontento popolare, il secondo canale della televisione pubblica, 2M, è andato ancora più in là, accusando direttamente l’associazione islamica Giustizia e Carità di essere la vera artefice della protesta e presentando il movimento guidato da shaykh Yassine come un’organizzazione “illegale ed estremista”. Pronta la risposta di Nadia Yassine, una dei membri di spicco dell’associazione e figlia del fondatore Abdessalam: “sosteniamo la necessità di una nuova dinamica sociale propositiva e innovatrice, di cui Giustizia e Carità, movimento non violento e pragmatico, rappresenta solo una parte al fianco delle altre realtà, che non vogliamo assolutamente prevaricare. Non abbiamo certo intenzione di gettare il Marocco nel caos, come qualcuno vorrebbe far credere in questo momento”.
In tutte le città le manifestazioni si sono svolte in maniera pacifica; la polizia, pur presente in forze nei quartieri interessati dalle marce e dai sit-in in programma, ha lasciato sfilare i cortei rinunciando all’atteggiamento repressivo e violento che aveva contraddistinto il suo operato nelle scorse settimane. Tra gli episodi più gravi, l’intervento brutale registrato domenica 13 marzo a Casablanca. In quell’occasione, come ricorda un comunicato di Amnesty International, “le forze di sicurezza hanno fatto un uso ingiustificato della forza per disperdere il sit-in organizzato dal Movimento 20 febbraio in piazza Mohammed V”, lasciandosi dietro decine di feriti e mantenendo in stato di detenzione (per 24/48 ore) almeno centoventi persone. Un simile intervento è sintomo di “una regressione inquietante che svuota di senso la promessa fatta qualche giorno prima dal sovrano del Marocco di intraprendere una riforma costituzionale di fondo e di garantire il rispetto dei diritti umani nel paese”, ha dichiarato Philip Luther, responsabile dell’ong per l’area MENA (Nord Africa e Medio Oriente). Lo stesso Luther aveva chiesto alle autorità marocchine, nel comunicato diffuso pochi giorni fa dall’organizzazione, “di rispettare il diritto dei manifestanti ad esprimere le proprie opinioni e rivendicazioni in maniera pacifica” e di “permettere lo svolgimento delle dimostrazioni previste per domenica 20 marzo”.

“Se il popolo vuole vivere…”
A mezzogiorno di domenica 20 marzo, nella capitale si respira aria di primavera. La temperatura, non solo atmosferica, si riscalda e il sole africano è già alto quando la folla radunatasi a Bab Lhad, circa 10 mila persone, si muove lungo l’avenue Mohammed V, puntando dritto verso il parlamento. Il centro di Rabat è invaso da un fiume colorato di striscioni e bandiere, da una selva di manifesti e megafoni che sfila sotto lo sguardo attento della polizia e delle forze ausiliarie. E’ un corteo pacifico e festoso quello organizzato dal Movimento 20 febbraio, ma ben determinato a far sentire la propria voce e a rilanciare le rivendicazioni che hanno animato il paese da un mese a questa parte. “Siamo più numerosi del 20 febbraio, a Casablanca ci sono 80 mila persone in strada”, esclama con entusiasmo Nizar, uno dei giovani promotori dell’evento, che poi continua: “le mobilitazioni stanno prendendo sempre più vigore, nonostante la repressione subita nei giorni scorsi e le promesse, insufficienti e ormai anacronistiche, fatte da Mohammed VI per guadagnare tempo e fiaccare la protesta”. “Il popolo ha detto no alle briciole offerte dal sovrano. Dopo la giornata di oggi non ci sono più dubbi: la frattura tra la società e l’élite che la dirige non può essere colmata dal sistema in atto”, rilancia Oussama Khalfi, altro volto noto dei dissidenti Facebook.
Le donne della salafiyya manifestano
Di fronte all’assise nazionale oltre ai ragazzi del Movimento 20 febbraio, che hanno lanciato la mobilitazione attraverso il social network, sono presenti le organizzazioni (circa ottanta) della società civile confluite all’interno del CNAM (Consiglio nazionale di appoggio al movimento). Ci sono i partiti politici della sinistra radicale, le ong per i diritti umani con in testa l’AMDH, le associazioni amazigh e gli attivisti del movimento islamico Giustizia e Carità, tutti uniti sotto le stesse parole d’ordine: “Dignità, libertà e giustizia sociale”, “la monarchia non deve essere sacra, la democrazia sì!”, “il popolo esige la dissoluzione della polizia politica”, “la holding reale deve essere nazionalizzata”. Dalla parte opposta del viale, intanto, un drappello formato da alcune centinaia di persone ha raggiunto il resto del corteo. Sono le famiglie dei detenuti islamici finiti in carcere in seguito agli attentati del 16 maggio 2003 a Casablanca. Anche loro hanno deciso di partecipare alla protesta. “Vogliamo la liberazione dei nostri figli e dei nostri mariti, torturati dai servizi marocchini e imprigionati ingiustamente, senza prove né un processo equo”, dichiara una donna ricoperta integralmente dal nikab corvino con in mano la foto del figlio Ahmed. Sono circa mille, attualmente, i detenuti della salafiyya (etichetta con cui vengono indicati i seguaci degli imam più radicali, ndr) rinchiusi nelle celle del regno, condannati a pene considerevoli senza garanzie giuridiche in seguito alla promulgazione della legge anti-terrorismo. Nessuna inchiesta sui veri responsabili degli attentati, invece, è mai stata resa pubblica.
Youssef e i versi di Chebbi
La “marcia della dignità” si è conclusa nelle prime ore del pomeriggio, quando i manifestanti hanno lasciato l’avenue Mohammed V con lo stesso atteggiamento pacifico con cui vi erano confluiti. A nulla sono servite le provocazioni lanciate da una ventina di loyalistes, giunti sul posto allo scemare della protesta con in mano le foto di Mohammed VI. I loro timidi slogan “viva il re, noi amiamo il nostro re, abbasso i traditori”, sono stati ignorati dalla folla che ha risposto con la più totale indifferenza. Tra gli ultimi ad abbandonare il sit-in formatosi in maniera spontanea di fronte al parlamento Youssef, trentenne diplomé-chomeur (come la gran parte dei suoi coetanei), attivista nelle file dell’Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH). Youssef ha appeso al collo un cartello, su cui ha ricopiato alcuni versi del poeta tunisino Abou El Kacem Chebbi dal sapore vagamente profetico: “se il popolo vuole vivere, il destino non può far altro che assecondare il suo bisogno. Le tenebre scompariranno, gli schiavi troveranno la libertà, il dispotismo verrà abbattuto e il popolo riuscirà a trionfare”. Il popolo marocchino ha “abbattuto” il muro della paura e sta dimostrando di “voler vivere”, con estrema consapevolezza e maturità. Il destino (o chi per lui) sarà in grado di “assecondare questo bisogno”?


Il 20 marzo a Rabat in immagini

"Karama, hurria, aadala ijtimaaia". Dignità, libertà, giustizia sociale, lo striscione esposto dai giovani del 20 febbraio.

La generazione Facebook.

Al momento della salat addhuhr (la seconda preghiera della giornata) alcuni dei manifestanti si rivolgono verso la Mecca.

Il movimento amazigh: "tamazight lingua ufficiale allo stesso titolo di quella araba".

"Niente immunità per Himma". L'ex consiglere del sovrano e fondatore del Partito dell'autenticità e della modernità (1° partito in Marocco) è accusato di corruzione e abuso d'ufficio.

"Sequestro dei beni dei corrotti..restituzione del denaro al popolo!".

Le donne democratiche: "vogliamo vivere con dignità".

Il corteo della salafiyya. I manifestanti espongono le foto dei detenuti e il libro sacro.

Alcune donne della salafiyya coperte dal nikab. "Dov'è mio figlio?" chiede una madre, che non ha più sue notizie dal momento in cui è stato prelevato dagli agenti dei servizi.

Il Marocco seguirà il cammino rivoluzionario intrapreso già da Tunisia ed Egitto?

(Reportage fotografico: Jacopo Granci)

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