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giovedì 10 marzo 2011

“Ashab yurid dustur al jadid”

RABAT – “Il popolo vuole una nuova costituzione” (Ashab yurid dustur al jadid), “il popolo rifiuta la costituzione degli schiavi”, questi gli slogan che da domenica 20 febbraio rimbalzano da una parte all’altra del territorio marocchino, da Tangeri a Marrakech, dalle grandi città ai piccoli villaggi remoti del Rif, dell’Atlante e dell’Orientale. Anche domenica 6 marzo, le manifestazioni promosse dal movimento di giovani nato su Facebook, sulla scia della rivoluzione tunisina e di quella egiziana, hanno animato in maniera pacifica le piazze dei principali centri del paese (Casablanca, Tangeri, Marrakech, El Jadida, Oujda). Le forze di sicurezza, tuttavia, non hanno dimostrato altrettanta maturità e, come nel caso del sit-in a Rabat, hanno reagito con violenza gratuita e ingiustificata.



Freeze in Rabat
Il sole sta planando lentamente sopra i tetti bianchi della medina, pronto a nascondersi dietro alla linea azzurra dell’oceano. L’avenue Mohammed V, che dalla città vecchia raggiunge la stazione centrale situata nella ville nouvelle, è un brulichio di suoni e colori, un via vai di auto e passanti che, come ogni domenica, si riversano in massa nel centro della capitale. Al primo impatto, si direbbe l’epilogo di un tranquillo giorno festivo, se non fosse per le decine di furgoni parcheggiati ai lati del grande viale alberato, stipati di poliziotti in tenuta anti-sommossa. La coordinazione locale del Movimento 20 febbraio ha indetto questo pomeriggio una “veglia artistica” di fronte alla maison blanche, per rilanciare le iniziative di protesta che da quindici giorni si susseguono ininterrotte su scala nazionale. In effetti, avanzando lungo il marciapiede dell’avenue, si avverte nell’aria una certa tensione.
Lo scorso 20 febbraio, prima epifania del Movimento, circa 300 mila persone erano scese in strada, in cinquantatre centri abitati del paese, per chiede la fine dell’assolutismo monarchico e il passaggio immediato ad un regime democratico. Da allora le manifestazioni e i sit-in sono proseguiti in maniera spontanea, tanto nelle grandi città della costa atlantica quanto nei piccoli villaggi delle regioni interne.
Sono quasi le 17:00, quando le luci dei lampioni in contrasto con i colori ocra del cielo sembrano dipingere una scenografia dall’aspetto onirico, quasi irreale. Di fronte al palazzo del parlamento si sono radunati circa cinquecento attivisti. Oltre ai giovani cybernauti, ci sono i rappresentanti delle organizzazioni per i diritti umani, militanti dei partiti di opposizione e alcuni membri delle associazioni islamiche e amazigh, tutti riuniti dalle stesse rivendicazioni. Karama, hurria, la makhzen la ra’ya! (“Dignità, libertà, né makhzen – l’apparato monarchico di controllo – né sudditi”) è lo slogan gridato dalla piccola folla, mentre agita cartelli e striscioni con scritto “basta riforme inutili, vogliamo un cambiamento vero”, “democrazia subito”, “la libertà è necessaria”. Poi silenzio. I corpi dei manifestanti si bloccano. L’intero viale sembra fermarsi di colpo, ammutolito, inanimato. L’unico rumore a rompere l’incanto è lo scatto ripetuto dei fotografi, che immortalano le posture dei manifestanti, trasformatisi per cinque minuti in mimi anti-regime. Corpi a terra che alzano il braccio in segno di vittoria, pugni levati in aria, mani tese verso il cielo, bocche cucite con lo scotch a denunciare l’assenza della libertà di stampa. Al centro della scena, “la scure della giustizia marocchina” si abbatte sul popolo inerme rappresentato da un giovane in catene.

Un frammento del FREEZE, avenue Mohammed V, Rabat (Foto: Alice Dufour-Feronce)
“Abbiamo proposto un Freeze, una forma di mobilitazione pacifica e alternativa che cerca di attirare l’attenzione dei passanti e degli osservatori in generale. Il nostro obiettivo è superare il circuito Facebook per suscitare l’interesse e la partecipazione del marocchino medio, che per settimane è stato terrorizzato dalla propaganda di regime e che di conseguenza non conosce la vera natura e le rivendicazioni del Movimento”, spiega Nizar Bennamate, ascia di cartone ancora in mano, mentre si dirige assieme al resto del gruppo verso il giardino della maison blanche, a pochi passi dall’assise nazionale, sotto lo sguardo severo delle forze di sicurezza.

“Troppa polizia, dateci scuole e sanità”
Stando al programma diffuso in rete dalla coordinazione del 20 febbraio a Rabat, la veglia artistica sarebbe dovuta proseguire con reading ed esibizioni musicali, ma l’intervento violento della polizia ha disperso i manifestanti in pochi minuti. Verso le 17:30, mentre la folla vedeva le sue fila ingrossarsi e i primi musicisti si apprestavano a salire sul piccolo palco improvvisato, un cordone di agenti muniti di casco e manganello ha fatto irruzione lasciando a terra alcuni membri del movimento. Salmiya, salmiya! (“pacifica, pacifica!”), la risposta all’unisono dell’intero sit-in, che prima di lasciare l’avenue Mohammed V ha voluto sottolineare il carattere non-violento della protesta, rendendo ancor più incomprensibile la repressione attuata dalle forze dell’ordine.

Le cariche della polizia contro il sit-in, avenue Mohammed V, Rabat (Foto Jacopo Granci)
“Hanno voluto provocarci, sarebbe bastata la minima reazione da parte nostra per innescare un pestaggio in piena regola”, è il commento di Abadila, quarantenne disoccupato tra i promotori dell’evento. In effetti, attorno alla maison blanche, erano già pronti i rinforzi. “Il regime giustifica questo atteggiamento dicendo che le nostre iniziative non hanno ricevuto l’autorizzazione della prefettura e perciò sono illegali. Ma la giurisprudenza marocchina ha affermato il contrario. Una sentenza del tribunale emessa alcuni anni fa ha stabilito che il sit-in spontaneo non ha bisogno di chiedere autorizzazioni, a differenza dei cortei”, riferisce il professor Maati Monjib, presente al momento delle cariche, non facendo mistero della sua delusione per la miopia dimostrata dalle autorità nella gestione delle proteste.
Quanto successo a Rabat domenica 6 marzo non è un caso isolato. Lo stesso giorno la polizia ha represso duramente i dimostranti scesi in piazza a Marrakech, Tetuan e Tangeri. Decine le persone ferite o finite in arresto, stando ai comunicati delle ong per i diritti dell’uomo. “Il popolo vuole la fine della corruzione” è lo slogan scandito da centinaia di tangerois radunatisi a Beni Makada, prima dell’intervento delle truppe antisommossa e degli idranti della polizia contro i manifestanti, alcuni dei quali hanno atteso l’avanzata della “testuggine” in ginocchio e con le braccia alzate (video YouTube). Ancora una volta la risposta della folla è stata pacifica: “troppa polizia, dateci scuole e sanità!”. Nonostante il carattere non-violento che ha contrassegnato il movimento di protesta fin dal suo inizio, si fa sempre più frequente l’uso ingiustificato della forza nei suoi confronti, come dimostrano i casi di Fes, Sefrou, Guelmim, Kenitra e Imzouren dei giorni scorsi. Da non dimenticare poi, nel bilancio complessivo delle mobilitazioni, i nove morti registrati durante le manifestazioni di fine febbraio (sette nella sola regione del Rif).


“La rivoluzione è in marcia…”
Il Movimento 20 febbraio, tenuto in scarsa considerazione dalle forze politiche nazionali al momento della sua comparsa e screditato dalla stampa (Aujourd’hui le Maroc, Al Massae, Pouce…), che non ha perso occasione per insultarlo e attaccarlo mostrando mancanza di professionalità, sembra aver già raggiunto un primo risultato. Le sue proposte, le sue rivendicazioni e le sue dimostrazioni sono al centro del dibattito che ha animato l’opinione pubblica nelle ultime due settimane. “Si può dire che c’è un prima e un dopo 20 febbraio”, afferma a ragione Oussama Khalfi, basco nero e kefiah al collo, il volto più noto dei cyber-dissidenti rimasto contuso durante le cariche della polizia alla maison blanche. Gli fa eco la docente di Studi politici internazionali (Università di Losanna) Mounia Bennani-Chraïbi, che sulle colonne di Le Monde scrive: “è stato compiuto un grande passo; la rivendicazione di una monarchia parlamentare, lontana dal monopolio politico ed economico, non è più un tabù”.
Tutti i partiti (anche i più conservatori e fedeli alla monarchia), perfino i giornali di regime sembrano ormai convinti della necessità delle riforme. Un voltafaccia che da un lato cerca di indebolire il potenziale “rivoluzionario” del movimento, ma che dall’altro aumenta le pressioni sul sovrano da cui tutti, politici, intellettuali, e rappresentanti della società civile, si aspettano una risposta immediata e concreta. “La rivoluzione è in marcia. Si compierà con lei o contro di lei? Se si realizzerà con lei, allora dovrà dare l’esempio e guidare il popolo sulla via della libertà, della giustizia sociale e della democrazia. (…) Se invece vuole continuare a far finta di niente, la rivoluzione le si ritorcerà contro. E in questo caso, l’onda travolgerà tutto al momento del passaggio”, dichiara lo scrittore Abdelhak Serhane nella sua lettera aperta a Mohammed VI (Le Monde, 4 marzo 2011).
Nonostante le aperture e le promesse di transizione democratica che ne avevano accompagnato l’ascesa al trono, il monarca ha mantenuto la concentrazione di poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario, militare e religioso, come recita la stessa costituzione) ereditata nel 1999 da Hassan II. Mohammed VI regna e governa, senza che ci sia alcun contropotere istituzionale in grado di limitare le sue decisioni. In più la holding reale ONA-SNI, presente nei principali settori di investimento (banche, assicurazioni, telecomunicazioni, industria e immobiliare), non può essere oggetto di alcun controllo e domina in modo tutt’altro che trasparente le aste pubbliche. “Non è questa la monarchia moderna che i marocchini si aspettavano. Serve un nuovo contratto sociale, Mohammed VI deve rinunciare alle sue prerogative monopolistiche e accettare la formazione di una assemblea costituente indipendente, come richiesto dal Movimento 20 febbraio e dalle organizzazioni che lo sostengono”, conclude Oussama Khalfi. “La primavera araba, partita da Tunisi e dal Cairo, ha portato al risveglio di popoli troppo a lungo sottomessi. Il Marocco, forse con modalità e tempi diversi, non farà certo eccezione”.

P. S.: Mentre stavo scrivendo questo articolo è arrivata la risposta ufficiale di Mohammed VI alle rivendicazioni del Movimento 20 febbraio. Il sovrano, nel suo discorso alla nazione pronunciato la sera del 9 marzo, ha annunciato la formazione di una commissione (di sua nomina) che si incaricherà della revisione della costituzione e che dovrà sottomettere allo stesso re i suoi risultati entro il prossimo giugno. Le linee guida su cui lavorerà la commissione, enunciate nel discorso, sono incoraggianti (applicazione delle raccomandazioni dell’IER, indipendenza della giustizia, riconoscimento costituzionale dell’identità amazigh e maggiori poteri al primo ministro), ma non viene fatta alcuna menzione all’eliminazione dell’articolo 19 dell’attuale costituzione che, stabilendo la sacralità del monarca, è di fatto il perno del potere assoluto in mano al sovrano. Sarà interessante vedere quale sarà la reazione del Movimento (che ha previsto una nuova giornata di mobilitazione nazionale domenica 20 marzo), se i giovani dissidenti marocchini si piegheranno alle concessioni (verbali) di Mohammed VI o continueranno il loro cammino fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi prefissati.

P. P. S.: Secondo quanto riferisce il sito di informazione indipendente Lakome.com, Abdeltif Manouni, designato dal sovrano come presidente della commissione per la modifica della costituzione, ha precisato oggi 10 marzo che "non ci sarà una nuova costituzione ma solo una riforma di quella in vigore", di cui verrà conservato l'impianto generale. Inoltre, lo stesso Manouni, ha dichiarato che "non si può parlare di una monarchia parlamentare come obiettivo di questa riforma". Il Movimento 20 febbraio ha risposto al discorso del re rilanciando la sua piattaforma rivendicativa e dicendosi pronto a continuare le mobilitazioni, in primis l'appuntamento fissato per il 20 marzo.

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