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venerdì 18 febbraio 2011

Marocco: aspettando il 20 febbraio/2

RABAT – Manca poco ormai al 20 febbraio, giorno in cui in tutto il territorio nazionale sono annunciate manifestazioni di protesta contro l’assolutismo monarchico e in favore della democrazia. La società marocchina comincia a muoversi. Giovedì 17 febbraio le organizzazioni per la difesa dei diritti umani (quattordici in totale), guidate dal Forum Verità e Giustizia e dall’Associazione marocchina dei diritti dell’uomo (AMDH) hanno convocato una conferenza stampa per sostenere pubblicamente i gruppi di giovani che hanno promosso l’iniziativa via internet. “Condividiamo le rivendicazioni degli organizzatori e chiediamo: una riforma della costituzione che faccia del popolo la sola fonte di legittimità e sovranità; l’instaurazione di un regime parlamentare democratico, basato su una vera separazione dei poteri; il rispetto delle libertà pubbliche e individuali, e la fine della censura; il miglioramento delle condizioni sociali ed economiche per restituire la dignità al popolo marocchino”, questo in sintesi il comunicato rilasciato dalla coordinazione, riunitasi ieri pomeriggio nei locali dell’AMDH.





“Il popolo vuole il cambiamento”
La sala conferenze è gremita di gente. Oltre alle decine di attivisti, di simpatizzanti e di curiosi, una selva di telecamere e microfoni occupa le prime file della platea. Sono i giornali e le televisioni straniere, dei media marocchini nessuna traccia o quasi. Sul palco, vecchie e giovani generazioni di militanti siedono una a fianco all’altra. Ci sono Khadija Ryadi, Abdelilah Benabdesslam e Abdelhamid Amine, ospiti delle prigioni del regno negli anni ottanta ed ora capisaldi della resistenza democratica nel paese (e vertici della stessa AMDH). Accanto a loro Oussama Khalifi, il primo giovane ad aver diffuso un appello su YouTube a sostegno del Movimento 20 febbraio, fa il gesto della vittoria con la mano. “Sono un semplice essere umano che crede nella democrazia e nella possibilità di una vita dignitosa per tutti i miei compatrioti”, esordisce la diciannovenne Tahani, portavoce del movimento. Corporatura minuta e riccioli neri che sfiorano le spalle, Tahani sembra avere le idee chiare nonostante la giovane età: “la nostra protesta ha come obiettivo immediato la dissoluzione del governo e del parlamento in carica, poiché strumenti non rappresentativi del popolo marocchino e nocivi ai suoi stessi interessi. Il passo successivo sarà la convocazione di un’assemblea costituente, per la redazione di una nuova costituzione finalmente democratica e garante dei diritti e delle libertà ancora oggi negate nel paese. Nel frattempo, un governo provvisorio formato da personalità della società civile, dei sindacati e dei partiti politici, di riconosciuta trasparenza, assicurerà la continuità delle attività esecutive”. La giovane attivista parla poi della necessità di imminenti riforme sociali “affinché tutta la popolazione e non solo l’élite possa usufruire di un sistema sanitario ed educativo di qualità”. Interrogata su quale sarà la forma di Stato che il Movimento 20 febbraio immagina per il Marocco del futuro, Tahani non si sbilancia: “la forma di Stato che uscirà dalla costituente non ci riguarda adesso, potrà essere monarchica o repubblicana, purché assicuri libertà e democrazia”.
Mehdi Bouchua, studente all’università Cadi Ayyad di Marrakech, ritorna sul destino da riservare a Mohammed VI: “il movimento, costituito da differenti gruppi di giovani apparsi su Facebook, non ha una posizione unitaria in proposito. Le rivendicazioni più condivise propongono una monarchia parlamentare sul modello inglese o spagnolo, ma altri chiedono apertamente il passaggio al sistema repubblicano. In ogni caso la fine del monopolio monarchico sulla vita politica ed economica del paese è per tutti una priorità. Il re non deve governare, chi comanda deve essere scelto dai cittadini in assoluta libertà”. Anche Mehdi, ventitre anni, fa parte del Movimento 20 febbraio, lanciato da alcuni suoi coetanei attraverso il social network durante i primi giorni della rivolta egiziana. “Il gruppo più numeroso si chiama «Il popolo vuole il cambiamento» e oggi conta quasi 14 mila aderenti. In totale siamo più di 20 mila su Facebook, compresi gli infiltrati che si iscrivono per insultarci”. Il giovane universitario abbandona la sala conferenze e si siede ad uno dei computer messi a disposizione dall’associazione. Sulle pareti della stanza, una sequenza di poster testimoniano l’attività instancabile dell’AMDH, che da oltre trent’anni si batte per la difesa dei diritti e delle libertà in Marocco. Accanto ad una foto di Ben Barka, oppositore del regime assassinato dai sicari di Hassan II nel 1965, una mappa della Palestina ricorda il sessantesimo anniversario della Nakba. “Hanno diffuso fotomontaggi dove gli esponenti del movimento vengono ritratti con decine di bottiglie di wiskhy. Ci hanno descritto come degli hippy drogati, dei non musulmani nemici della patria che complottano con il Polisario per seminare il caos nel paese”, prosegue Mehdi indicando lo schermo. Sul displkay l’elenco di contributi, tra cui un commento sprezzante firmato Meryam (gli account sono creati sotto pseudonimo): “siete solo i figliocci dell’Algeria e di Mohammed Abdelaziz (il capo del Fronte Polisario, ndr)”.

Oltre all’attacco in rete ad opera degli hacker e dei servizi segreti, sono svariate le forme di repressione subite dai membri del Movimento 20 febbraio negli ultimi giorni. Minacce, pedinamenti, telefoni intercettati, poliziotti sotto casa ventiquattrore su ventiquattro. Senza contare la campagna di diffamazione orchestrata dalla stampa nazionale, sempre più spudoratamente al servizio delle autorità. Per esempio Rachid Nini, direttore del quotidiano arabofono Al Massae (il più letto nel paese, ndr), non ha esitato a definire questi giovani “delle pedine manovrate dalla Spagna per attentare alla sicurezza e alla stabilità dello Stato”. L’ultima notizia, diffusa in diretta durante la conferenza, è di due adolescenti di quindici e diciassette anni arrestati in mattinata a Kenitra mentre stavano distribuendo dei volantini di sostegno alla manifestazione (sono stati rilasciati dopo poche ore, ndr). “Solo il giornale on-line di Ali Anouzla e Taoufiq Bouachrine sulle colonne di Akhbar al Youm ci hanno difeso, denunciando la propaganda degli organi di regime”, conclude il ventitreenne riccioluto aggiustandosi la kefya attorno al collo.

Le adesioni si moltiplicano
Le associazioni per i diritti umani non sono le sole organizzazioni ad aver risposto pubblicamente all’appello “per la democrazia e la dignità” lanciato dai giovani marocchini. La prima a schierarsi a favore della protesta era stata l’associazione islamica Giustizia e Carità, da sempre critica nei confronti della monarchia, e per questo non riconosciuta dal regime. Il gruppo di shaykh Yassine, in un comunicato pubblicato ad inizio febbraio sul suo sito internet, si felicitava per le manifestazioni in Tunisia ed Egitto, invocando una “svolta democratica urgente” anche in Marocco. “Milioni di marocchini vivono in uno stato di povertà e di privazione. Non è giusto che la ricchezza del paese resti nelle mani di un’esigua minoranza”, si legge nel testo diffuso dall’organizzazione che, secondo una stima effettuata dal politologo Mohamed Darif, arriverebbe a riunire circa 100 mila aderenti.
La denuncia di un sistema autocratico e corrotto e la necessità immediata di un cambiamento sembra aver superato perfino le vecchie opposizioni ed i contrasti ideologici, raccogliendo i consensi di una rappresentanza civile e politica trasversale. Oltre agli islamisti di Giustizia e Carità, anche i partiti della sinistra radicale, esclusi dal parlamento, hanno confermato la loro presenza in piazza domenica 20 febbraio. Al loro fianco ci saranno gli attivisti berberi, nemici storici dei marxisti-panarabisti nei campus universitari di Meknes, Fes e Marrakech. “Per fondare il Marocco del futuro prima di tutto bisogna dimenticare gli attriti sterili che ci hanno diviso ed indebolito in passato”, afferma con voce fiera Mounir Kejji, militante amazigh della prima ora e co-fondatore del centro studi Tarik Ibn Zyad. “L’intera galassia berbera ha raccolto l’invito del movimento, dal Congresso mondiale amazigh a Tamaynout fino alle associazioni regionali del Souss e del Rif”, conclude Mounir.
Tra le tante adesioni raccolte una soltanto, giunta nelle ultime ore, lascia perplessi i promotori dell’iniziativa. Quella del PAM (Partito dell’autenticità e della modernità), organo politico della monarchia creato due anni fa da Fouad Ali El Himma, amico e consigliere di Mohammed VI. “Il PAM ha dichiarato sul suo sito internet che appoggia le manifestazioni e che sostiene l’avvio delle riforme. Quali riforme, ovviamente, non viene specificato..”, commenta con sarcasmo Samira, una delle principali referenti dell’AMDH, che poi aggiunge: “all’inizio hanno provato a sabotare l’appuntamento del 20 febbraio con ogni mezzo. Credevano di poter dissuadere i giovani dai loro propositi. Hanno creato perfino un gruppo Facebook chiamato «Io amo il mio re e domenica non esco». Ora stanno solo cercando di intorbidire le acque, giocando sporco come al solito”.
Al termine della conferenza viene fatto circolare tra i presenti un nuovo comunicato, questa volta redatto dai giornalisti indipendenti, e sottoscritto dalle penne più reputate e irreverenti della categoria, non a caso le più censurate. “Felicitiamo il popolo egiziano e tunisino per la loro vittoria contro la dittatura e l’autocrazia, in particolare i nostri colleghi che stanno riscoprendo la libertà di parola, di stampa e di espressione, e ricordiamo che la repressione di queste libertà fondamentali per la democrazia è tuttora all’ordine del giorno nell’agenda del regime marocchino”, recita il testo firmato, tra gli altri, da Aboubakr Jamai, Ali Lmrabet, Ali Amar, Driss Ksikes e Aziz El Yaakoubi, che nelle ultime righe esortano le autorità a non interferire “con il lavoro di informazione dei giornalisti marocchini e stranieri che cercheranno di seguire gli eventi annunciati per domenica 20 febbraio”. Una preoccupazione legittima, secondo il responsabile dell’Organizzazione per la libertà di informazione e di espressione Ali Benddine, “dato che alcune televisioni straniere, tra cui Al Jazeera, si sono già viste negare l’accredito stampa per poter filmare le manifestazioni. Una decisione non certo rassicurante”.

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