In Egitto continuano le manifestazioni per chiedere la partenza di Mubarak. La Tunisia è di nuovo teatro di violenze e scontri in tutto il paese. La popolazione e i partiti di opposizione contestano la nomina dei nuovi governatori locali fatta dall’esecutivo provvisorio. Sabato 5 febbraio nella città di El Kef, quattro persone (due secondo il Ministero dell’Interno) hanno perso la vita durante un assalto delle milizie dell’RCD (partito dell’ex presidente) alla caserma della polizia. Intanto il ministro dell’Interno Ferhat Najhi ha annunciato la sospensione dell’ex partito al potere “in attesa di presentare una domanda ufficiale alla giustizia per ottenere la sua dissoluzione”.
Nel regno alawita cresce la tensione in vista della giornata di mobilitazione annunciata per il prossimo 20 febbraio. “Per cambiare il Marocco, libertà e democrazia subito” è lo slogan promosso da Rachid Antid, giovane internauta che ha lanciato l’evento su Facebook una settimana fa. L’Associazione marocchina per i diritti umani e l’organizzazione islamica Giustizia e Carità (non riconosciuta dal regime) hanno dichiarato pubblicamente il loro sostegno alle manifestazioni in programma su tutto il territorio nazionale. Nel frattempo aumentano i segnali di un possibile contagio delle rivolte scoppiate in Tunisia e in Egitto. Nelle ultime settimane si sono registrati quattro tentativi di suicidio. L’ultimo il 1° febbraio, quando un giovane insegnante si è dato fuoco di fronte al Ministero dell’Educazione. Nei giorni scorsi ci sono stati incidenti e decine di feriti nella città di Fes, dove le associazioni degli studenti marxisti avevano indetto una marcia di protesta repressa dalla polizia.
Perché il Marocco trema
Il settimanale Tel Quel (n. 459, 5-11 febbraio 2011) ha raccolto le voci dei principali esponenti della società civile marocchina. Ecco le ragioni per cui il Marocco non dovrebbe sentirsi al riparo dal “contagio” tunisino ed egiziano.
Fouad Abdelmoumni (attivista per i diritti umani): “L’istituzione monarchica non ha perso troppa credibilità in seno all’opinione pubblica. La classe politica è servita da valvola di sfogo, da capro espiatorio, per superare i momenti di tensione e le proteste animate nel paese. Ora però ci ritroviamo in una situazione di vuoto politico abissale. La gente non ha più alcuna fiducia nei partiti, tanto che si è perfino privata del voto (riferimento alle elezioni legislative del settembre 2007, quando votarono solo il 35% degli aventi diritto, ndr). Questo provoca un disincanto generale che può facilmente esplodere in aperta contestazione popolare. I casi tunisino ed egiziano sono là per ricordarcelo”.
Azzedine Akesbi (economista, professore all’Istituto di agronomia di Rabat): “Troppo spesso gli articoli delle leggi finanziarie avevano l’obiettivo di favorire gli interessi dei grandi gruppi. La libera concorrenza e la liberalizzazione economica non è che una facciata. A questo va aggiunto una sostanziale inefficacia delle politiche pubbliche. Il fallimento della politica agricola ci costringe, per esempio, in una situazione di dipendenza alimentare, proprio come i nostri vicini del Nord Africa. Se prima non era difficile nutrire il popolo senza troppa spesa, il regime si ritrova oggi intrappolato tra il martello (la debolezza del potere di acquisto) e l’incudine (l’innalzamento a livello mondiale del prezzo dei prodotti)”.
Lahcen Daoudi (economista, membro del Partito per la giustizia e lo sviluppo, di tendenza islamica moderata): “Oggi viviamo in un Marocco a tre velocità. Un regno fatto di vetrine di lusso, di autostrade e TGV; un altro delle periferie cittadine, dove gli abitanti sopravvivono come possono; e il paese profondo, abbandonato a se stesso, senza le condizioni minime per una vita decente. Le misure pubbliche adottate fino ad oggi si sono rivelate del tutto inefficaci”.
Rachid Filali Meknassi (presidente di Trasparency Maroc): “In Marocco assistiamo ad un enorme paradosso: il governo si è appropriato del discorso portato avanti dalla società civile in merito alla corruzione, senza che ciò si sia tradotto in azioni concrete. Lo vediamo con l’Istanza centrale di prevenzione contro la corruzione (ICPC), che non dispone delle prerogative né dei mezzi necessari per compiere la sua missione. Oggi più che mai bisogna sanzionare i corrotti e mettere al bando la cultura dell’impunità che ancora aleggia nel paese”.
Abdelhamid Amine (vice-presidente dell’Associazione marocchina dei diritti umani): “Che non fosse il caso di sopravvalutare i passi avanti compiuti in materia di diritti umani nel paese l’abbiamo sempre sostenuto. Questi progressi reali restano a nostro avviso precari e possono scomparire da un momento all’altro. Per evitarlo, crediamo che siano ormai necessari dei cambiamenti radicali. In primis l’adozione di una costituzione democratica. E’ ora di smetterla con queste teorie della peculiarità marocchina. Non è servita di fronte al terrorismo, perché dovrebbe servire di fronte ai movimenti di protesta?”.
Said Essoulami (direttore del Centro per la libertà dei media in Africa del Nord e Medio Oriente): “Il restringimento della libertà di stampa ha drasticamente ridotto il numero di pubblicazioni critiche nei confronti del regime. Quelle sopravvissute si sentono in libertà provvisoria, soffocate sul piano economico dal boicottaggio pubblicitario. I giornali vivono con una spada di Damocle sopra la testa: multe astronomiche possono colpirli in ogni momento”.
Mohamed Darif (politologo, specialista di islam politico): “In Marocco la Commanderie des croyants, che attribuisce legittimità storica e religiosa alla monarchia, resta una valvola di sicurezza per neutralizzare l’azione islamista. Anche l’islamismo legale, rappresentato in parlamento, serve allo stesso fine. Il rischio viene però dai politici che, per interesse o per convinzione, predicano la distruzione radicale delle differenti organizzazioni islamiche presenti nel paese. Un simile proposito si rivelerà assai pericoloso per la stabilità del Marocco”.
Khadija Ryadi (presidente dell’Associazione marocchina per i diritti umani): “A Sidi Ifni (giugno 2008) i giovani sono scesi per strada spontaneamente per protestare contro le misere condizioni sociali a cui erano relegati. La loro reazione è stata violenta, contrariamente a quanto succede durante le manifestazioni e i sit-in contro il carovita, inquadrate dagli attivisti delle associazioni. Detto questo non è possibile fare alcuna previsione. Molti pensavano che l’Egitto non potesse vivere lo stesso scenario visto in Tunisia, con il pretesto che i due paesi non fossero comparabili. Siamo tutti testimoni di quanto è successo”.
Il Marocco non sarà risparmiato dalle rivolte. Le previsioni di Moulay Hicham
Moulay Hicham, “prince rouge” e cugino di Mohammed VI ostracizzato dalla corte di Rabat, pensa che il regno non sarà risparmiato dall’ondata di contestazione che ha scosso la Tunisia, l’Egitto e gli altri paesi arabi.
(articolo pubblicato da Mohamed Touati nel sito dell’Osservatorio internazionale per i diritti – Ossin)
La Rivoluzione del gelsomino, che ha provocato la caduta di Zine el Abidine Ben Ali in Tunisia, e le manifestazioni che stanno facendo vacillare il regime di Hosni Moubarak in Egitto avranno certamente ripercussioni anche nel Regno alawita. Il Marocco “non farà probabilmente eccezione tra i paesi arabi dopo la rivoluzione tunisina e le manifestazioni che mettono in discussione attualmente il potere in Egitto”, ha sostenuto lunedì il cugino del sovrano marocchino Mohammed VI. Il “Marocco non è stato ancora toccato… Ma non bisogna ingannarsi: quasi tutti i sistemi autoritari saranno colpiti dall’ondata di proteste. Il Marocco non farà probabilmente eccezione”, ha sottolineato Moulay Hicham nel corso di una intervista accordata al quotidiano spagnolo El Pais. Noto per le sue critiche nei confronti della monarchia marocchina e del suo sistema politico, il cugino del re si interroga: “Resta da vedere se la contestazione sarà di carattere sociale o anche politica e se le formazioni politiche, influenzate dagli ultimi avvenimenti, si daranno una mossa”.
Il Marocco è senza fiato? “La dinamica di liberalizzazione politica avviata alla fine degli anni ’90 è praticamente esaurita. Dare nuovo dinamismo alla vita politica marocchina nel contesto regionale, evitando i radicalismi, sarà una grande sfida”, fa notare il principe marocchino che si colloca in terza posizione per la successione al trono alawita. Quale potrà essere l’impatto della rivoluzione tunisina e delle manifestazioni in Egitto sul Marocco? Esse rappresentano una “rottura con gli schemi precedenti”, ha fatto notare il “principe ribelle”. Poi, rivolgendosi all’Europa, le ha consigliato di “risvegliarsi, di smetterla di appoggiare delle dittature che non sono vitali e di appoggiare invece i movimenti che aspirano ad un mutamento durevole”. Avendo scelto di manifestare il suo pensiero dalle colonne di un quotidiano spagnolo dell’importanza di El Pais, Moulay Hicham ha in qualche modo avallato quanto riportato dai media spagnoli sui movimenti di truppe verso Casablanca e Rabat per contrastare eventuali rivolte. Informazione o condizionamento? Il governo marocchino prende sul serio quelle che pure definisce “affermazioni infondate” ed ha reagito al primo colpo.
L’ambasciatore del Regno di Spagna a Rabat è stato convocato. Il Makhzen ci ha tenuto a protestare contro le informazioni propagate dai media spagnoli a proposito di movimenti di truppe marocchine per far fronte a ipotetiche manifestazioni. La reazione è stata all’altezza dell’informazione. “Il governo marocchino ha accolto con indignazione le informazioni faziose divulgate da certi media pubblici spagnoli, soprattutto la televisione pubblica Canal 24 Horas, oltre ad altri giornali che hanno ripreso delle affermazioni infondate relative al fatto che il Marocco avrebbe spostato delle truppe delle Forze armate reali stazionate nelle province del Sud verso Casablanca e Rabat, e ciò in previsione di supposte manifestazioni eventuali”, ha dichiarato domenica nel corso di una conferenza stampa il ministro marocchino delle comunicazioni, portavoce del governo.
I media spagnoli sarebbero all’origine di una crisi diplomatica tra il loro paese e il Regno del Marocco? L’ambasciatore del Regno di Spagna a Rabat è stato convocato dal capo della diplomazia marocchina. “Volendo trasmettere al governo spagnolo l’indignazione del Marocco per queste irresponsabili macchinazioni, il signor ministro degli Affari esteri e della cooperazione ha convocato oggi il signor ambasciatore del Regno di Spagna a Rabat ed ha avuto un colloquio col suo omologo spagnolo”, ha reso noto Khalid Naciri. Di nuovo soffia un vento glaciale sulle relazioni tra Madrid e Rabat dopo l’attacco delle forze di occupazione marocchine contro il campo saharawi di Gdeim Izik. Le dichiarazioni di Moulay Hicham a El Pais arrivano come un capello nella zuppa e rischiano di irritare per più di un motivo Mohammed VI.
In Marocco la rivoluzione sarà sanguinosa
Aboubakr Jamai denuncia le derive “alla tunisina” del monarca e della sua corte.
(Intervista ad Aboubakr Jamai, fondatore de Le Journal Hebdomadaire, pubblicata da Le Nouvel Observateur n. 2411, 20-26 gennaio 2011)
N. O.: Quale reazione si è avuta in Marocco dopo la partenza di Ben Ali?
A. J.: In un primo tempo non c’è stata nessuna reazione ufficiale da parte delle autorità marocchine. Il canale televisivo 2M, vicino alle posizioni della monarchia, proponeva reportage sul caos e lo stato di anarchia in cui era piombato il paese al momento della partenza del dittatore.
N. O.: La politica tunisina e quella marocchina hanno dei punti in comune?
A. J.: In Marocco c’è stata una fase di apertura, iniziata da Hassan II negli anni novanta. Ma il regime si è appoggiato molto presto sull’esempio tunisino per arrestare questa parentesi democratica. Il generale Laanigri, ex capo dei servizi di sicurezza, all’inizio del regno di Mohammed VI non faceva altro che vantare il modello Ben Ali. Il suo paese infatti, pur non rispettando i diritti umani, era percepito come il paese più stabile della regione che combatteva con successo gli islamisti. Le Journal Hebdomadaire, prima della sua chiusura ordinata un anno fa, aveva denunciato più volte la “benalizzazione” del Marocco.
N. O.: Che cosa intende per “benalizzazione”?
A. J.: Un processo sviluppatosi su due piani differenti. Il primo politico: il Partito dell’Autenticità e della Modernità dell’amico e consigliere del re, Fouad Ali El Himma, imita l’RCD tunisino nella sua volontà di egemonia sulla vita politica del paese. Ma soprattutto, e questo riguarda il secondo piano, stiamo assistendo ad una vera “monarchizzazione” dell’economia. I cablogrammi di Wikileaks hanno rivelato come la corruzione sia ben più presente oggi che ai tempi di Hassan II. “Se volete fare affari in Marocco, dovrete obbligatoriamente passare attraverso una di queste tre persone: il re, Fouad Ali El Himma o Mounir Majidi, segretario personale del monarca e proprietario della holding Siger, che si occupa degli interessi economici della famiglia del re”, spiegava un imprenditore vicino al Palazzo, non per criticare il sistema ma semplicemente per dare le giuste indicazioni agli investitori americani. Mohammed Vi è di fatto il primo banchiere del regno, il primo assicuratore ed è presente nel settore delle telecomunicazioni.
N. O.: Eppure il Marocco non sembra affatto alla vigilia di un sollevamento popolare…
A. J.: E’ un miracolo, in un paese dove la ricchezza è tanto oscena quanto la miseria. Quello che sta salvando il Marocco dalla rivoluzione è la presenza degli intermediari sociali, come l’Associazione marocchina dei diritti dell’uomo, che canalizzano la collera dei marocchini e degli islamisti, che si prendono cura dei poveri a livello locale. Ma il paese è già stato teatro, negli anni passati, di rivolte sporadiche contro il carovita e l’assenza di uno stato di diritto. La novità oggi sta nel fatto che le elite, secondo cui la democrazia condurrebbe un paese come il Marocco verso il caos, cominciano ad avere paura. Perché anche i sistemi autoritari devono essere gestiti con intelligenza. Mohammed VI ha commesso invece una serie di errori politici: è stato azionista di riferimento di Brasserie du Maroc (azienda che produce bevande alcoliche) e del casinò di Macao, proprio lui che è il Comandante dei credenti (vertice religioso del paese, come stabilito dall’art. 19 della costituzione, ndr). Le elite marocchine, che non sono disposte a rinunciare ai loro privilegi, ora devono scegliere: o accetteranno la democrazia o soccomberanno! E se il Marocco finirà per infiammarsi, la disparità della ricchezza è tale che la rivoluzione produrrà effetti ben più sanguinosi che in Tunisia.
Di seguito un estratto dell’intervista rilasciata dallo stesso Aboubakr Jamai a (r)umori dal Mediterraneo pochi mesi prima della chiusura de Le Journal Hebdomadaire imposta dalle autorità marocchine (24 gennaio 2010). Lo storico fondatore del settimanale racconta i vecchi e nuovi sistemi di censura messi in atto dal regime marocchino per ostacolare una vera libertà di informazione e di espressione nel paese. Jamai parla delle “linee rosse” imposte dal Palazzo, del codice della stampa che non esita a definire “liberticida” e del boicottaggio pubblicitario di cui era vittima la sua pubblicazione. Il biennio 2009-2010 ha sancito in Marocco la morte dei giornali indipendenti. Dopo Al Michaal, Al Jarida al Oula, Akhbar al Youm e Le Journal Hebdomadaire, è stata la volta di Nichane (settimanale arabofono), nell’ottobre 2010, a chiudere i battenti. Nelle edicole non resta che Tel Quel, la cui voce si sta facendo sempre più timida ed esitante. Nel gennaio 2011 il tribunale di Tangeri ha rifiutato di accordare a Khalid Gueddar, già caricaturista di Akhbar al Youm, Le Journal Hebdomadaire e Bakhchich, l’autorizzazione per la pubblicazione di un settimanale satirico in darija marocchino.
Intervista ad Aboubakr Jamai, editorialista di Le Journal Hebdomadaire. Aboubakr Jamai è stato fondatore dei settimanali Le Journal e Assahifa nel 1997. Nel 2000 ha fondato Le Journal Hebdomadaire, di cui è stato direttore fino al 2006. (Casablanca, 17 novembre 2009) Vai al testo integrale dell’intervista
Jacopo Granci: Chi è Aboubakr Jamai? Qual è stato il suo percorso prima di dedicarsi al giornalismo?
Aboubakr Jamai: Ho seguito una formazione economica. Dopo la fine degli studi ho lavorato in una banca commerciale, la Wafa Bank, e poi ho collaborato alla fondazione di una banca d’affari. Nel 1996 sono stato nominato consigliere in materia di comunicazione del Secretariat Exsecutif du Sommet Economique du Moyen Orient e de l’Afrique du Nord. Un’organizzazione creata dopo il Summit Economico di Casablanca del 1994, che aveva il compito di accompagnare lo sviluppo economico dell’area. Ho lasciato l’incarico dopo un anno e mezzo, al momento della nascita di Assahifa e Le Journal (1997), di cui io sono uno dei co-fondatori, assieme ad Ali Amar.
J. G. : Da dove viene l’interesse per il giornalismo, data la sua formazione prettamente economica?
A. J. : Il giornalismo mi ha sempre interessato. Di natura sono curioso. Ho sempre letto la stampa nazionale e, soprattutto, quella internazionale. Credo che tutti i settori siano intrinsecamente legati tra loro. Non si può separare l’economia dalla politica, così come non si può separare la politica dal giornalismo. E in più sono cresciuto, fisicamente intendo, in un contesto giornalistico. Mio padre, Khalid Jamai, ha lavorato a lungo per il quotidiano L’opinion, di cui è stato anche capo-redattore (ora ha una rubrica settimanale, Chronique, su Le Journal Hebdomadaire).
J. G. : Che cosa aveva in mente con la creazione de Le Journal?
A. J. : Le Journal si è inserito nello spazio di apertura democratica promosso a gran voce a metà degli anni novanta. Assieme ad Ali Amar ci siamo detti che era quello il momento migliore per fondare un giornale, o meglio ancora, un polo giornalistico che comprendesse un quotidiano e un settimanale, in versione francofona e arabofona. Lo Stato si stava aprendo, stava allentando la morsa che per trent’anni aveva impedito il pluralismo nel Paese.
Il nostro modello era il gruppo Prisa, il gruppo di cui fa parte El Pais. Il quotidiano spagnolo venne fondato nel 1976, dopo la morte di Franco e l’inizio del cammino democratico. Avevamo questa idea in testa. Volevamo ripercorrere quella stessa strada.
J. G. : Nel 2000 Le Journal scompare, come pure Assahifa, e viene fondato Le Journal Hebdomadaire. Che cosa è successo?
A. J. : Per capire quanto successo nel 2000, bisogna prima prendere in esame il contesto e poi il fatto in sé. Il Marocco, già durante gli ultimi anni di Hassan II, ha intrapreso un cammino di apertura. Non dico di democratizzazione, ma di piccole riforme. Lo dimostrano le nostre pubblicazioni del tempo. Abbiamo osato cose oggi impensabili. Più di una volta abbiamo messo in copertina Ben Barka, addirittura Serfaty, ben prima del suo ritorno in patria, quando ancora era proibito anche solo parlarne. Abbiamo chiesto pubblicamente il licenziamento di Driss Basri quando ancora era ben saldo nella sua poltrona di Gran vizir. Le Journal si è dato una missione precisa: esercitare un controllo mediatico, un controllo critico, su tutte le elite che partecipano alla gestione del Paese.
Pensavamo che il nuovo Re proseguisse sulla strada della riforma e dell’apertura, ma ci siamo sbagliati. Nel 2000, ad un anno dall’ascesa al trono di Mohamed VI, ci siamo accorti che il monarca non aveva alcuna volontà di dare seguito alle sue promesse di democratizzazione. Non per questo abbiamo rinunciato alla nostra linea editoriale. Risultato: la morte del giornale. Ci hanno fatto chiudere i locali due volte in quell’anno, con una semplice circolare proveniente dal Ministero dell’Interno, dunque senza nemmeno un processo o un qualunque accertamento giudiziario. La prima volta in aprile, in via provvisoria, dopo la pubblicazione dell’intervista a Mohamed Abdelazziz (leader del Fronte Polisario). La seconda il 2 dicembre, questa volta in via definitiva.
Dopo la chiusura di Le Journal e Assahifa, ho chiesto immediatamente l’autorizzazione per la creazione di un nuovo giornale. Senza successo. Di fronte ad un rifiuto ingiustificato da parte delle autorità ho iniziato uno sciopero della fame, che per mia fortuna è durato solo due giorni. La stampa internazionale si è mobilitata attorno al nostro caso, così come le associazioni per i diritti umani. La buona fede e le promesse di Mohamed VI iniziavano ad essere messe in dubbio, ed il regime ha dovuto concederci l’autorizzazione. Così è nato Le Journal Hebdomadaire.
J. G. : Qual è stato l’atteggiamento del regime verso Le Journal Hebdomadaire?
A. J. : La monarchia ha mantenuto la stessa ostilità dimostrata nei confronti di Le Journal. Per spiegare meglio quello che è successo dal 2000 in poi le darò delle cifre. Lei sa bene che un giornale non vive di sole vendite. La fonte primaria per la sua sopravvivenza sono gli introiti pubblicitari. Il budget pubblicitario raccolto da Le Journal Hebdomadaire è crollato dell’80% nel 2001. In un solo anno. Se oggi lei sfoglia Le Journal Hebdomadaire e Tel Quel (altro settimanale indipendente) può capire la differenza. Diciamo che alcuni sono un po’ più accettati rispetto ad altri. Le aziende direttamente legate al Palazzo, come Royal Air Maroc o Maroc Telecom, hanno rinunciato ad inserire le loro pubblicità nel nostro giornale.
Le faccio un altro esempio. Nel 2001 sono stato condannato a tre mesi di carcere, ed il giornale è stato costretto a pagare 45 mila euro di ammenda. Il 1999, l’ascesa al trono di Mohamed VI era dietro l’angolo. Il nuovo regime, fin dall’inizio, ha testato su di noi la nuova strategia di repressione, che ha poi interessato Demain e Doumane di Ali Lmrabet, e in maniera più leggera Tel Quel.
J. G. : Come si è arrivati alla promulgazione del Codice della Stampa?
A. J. : Il Codice della Stampa è stato introdotto in seguito alla vicenda che nel 2000 ha coinvolto Le Journal e Assahifa. Fino a quel momento la libertà di espressione nel Paese era regolata da un vecchio dahir (decreto reale) del 1958. I due giornali, quando il regime li ha condannati a morte, stavano vivendo uno strano fenomeno, a tratti incomprensibile anche per noi che ci lavoravamo. Le vendite erano cresciute tantissimo, avevamo raggiunto un elettorato ampio e composito a livello sociale. C’era un grande interesse attorno ai nostri articoli e alle nostre inchieste. Evidentemente, la gente credeva nel cambiamento. Poi è arrivata la condanna. E quelle stesse persone, che ogni settimana ci leggevano, hanno iniziato a domandarsi: “ma se il Re vuole veramente la democrazia, perché ha fatto chiudere Le Journal?”. La monarchia, volendo preservare la sua immagine, si è nascosta dietro a Youssoufi e ha scaricato le sue responsabilità sul Primo ministro. Il governo, a sua volta, si è difeso dicendo di aver semplicemente seguito la legge. Così, per dimostrare la buona volontà del regime, Mohamed VI ha promesso nuove leggi più liberali. Il risultato è stato il Codice della Stampa, approvato nel 2003. Ma le leggi che contiene non sono affatto liberali, piuttosto le definirei liberticide. L’ennesimo inganno di Mohamed VI.
J. G. : Con il codice sono comparse anche le famose “linee rosse”?
A. J. : Sì, sono sancite dall’articolo 41. Prima non esistevano. La monarchia, con la scusa di promuovere un avanzamento in campo giuridico, ha creato una trappola mortale per chiunque voglia tentare di fare un giornalismo obiettivo e senza compromessi.
J. G. : Quali sono questi limiti da non oltrepassare?
A. J. : E qui arriviamo al nocciolo del problema. Inserire un articolo che punisce ogni offesa al re e alla famiglia reale, ogni offesa alla religione islamica, alla forma monarchica dello Stato e all’integrità territoriale, che cosa vuol dire? Difendere i diritti di chi non crede significa attaccare l’islam? Denunciare le false promesse monarchiche significa offendere il re? E soprattutto, chi deve stabilirlo? Dei giudici corrotti, manovrati direttamente dal monarca. Hanno lasciato campo libero all’interpretazione dei giudici, un’interpretazione che non segue alcuna logica giuridica, ma che varia a seconda dei bisogni di sua maestà e del clima politico che si respira nel Paese.
J. G. : In che modo l’articolo 41 condiziona il vostro lavoro?
A. J. : Le Journal Hebdomadaire non ha mai accettato l’imposizione delle “linee rosse” e ancor meno l’ambiguità che le accompagna. Nel nostro lavoro abbiamo deciso di non scendere mai a compromessi. Con i nostri articoli non facciamo altro che testare, ogni settimana, i confini di queste linee. La nostra sola arma è la professionalità. Fare un buon giornale, andare fino in fondo. Se veniamo condannati per questo, ci sottomettiamo al volere di una giustizia ingiusta e corrotta, consapevoli di essere sulla strada giusta. Quando Le Journal Hebdomadaire è stato portato in giudizio, non ha mai chiesto perdono al re, non ha mai fatto appello alla sua grazia o alla sua clemenza. Cedere ad un simile ricatto e a una simile umiliazione, significherebbe tradire i principi per cui ci battiamo.
J. G. : Oltre all’articolo 41, quali altre parti del Codice giudica lesive nei confronti della libertà di stampa?
A. J. : Non ricordo gli articoli precisi, ma in generale tutta la parte che riguarda i reati di diffamazione deve essere assolutamente rivista. Tutti gli articoli che prevedono la detenzione per i giornalisti devono essere cancellati. Non sono degni di un Paese che ha ancora il coraggio di definirsi democratico. Corresponsabilizzare, poi, coloro che stampano e distribuiscono i giornali per quello che in essi viene pubblicato, rappresenta un altro ostacolo insidioso alla libertà di stampa. Significa assegnare a queste figure un potere discrezionale sulla linea editoriale. Se non sono d’accordo con quello che hai scritto possono rifiutarsi di distribuire il tuo giornale o di stamparlo”.
J. G. : Dopo nove anni di attività una sentenza del tribunale vi costringe a versare 3 milioni di dirhams di risarcimento al Centro Europeo di Studi Strategici. Ancora una volta è un articolo sul Fronte Polisario a scatenare la repressione. Anche Le Journal Hebdomadaire, come già Le Journal, finirà sacrificato in nome della sicurezza dello Stato?
A. J. : Le Journal Hebdomadaire potrà sopravvivere alla multa che gli è stata inflitta. Abbiamo trovato un sistema legale che ci permetterà di dilazionare il pagamento, senza che intervenga il sequestro dei beni minacciato dall’autorità giudiziaria. Pagheremo, ma almeno continueremo a fare il nostro lavoro. D’altronde abbiamo rinunciato alla speranza di fare soldi, di guadagnare con la nostra attività. Non abbiamo più ambizioni di prosperità economica. I nostri introiti attuali ci permettono giusto di pagare i salari e i costi di stampa e distribuzione del giornale. La poca pubblicità che ci resta e gli incassi delle vendite servono a questo. Abbiamo capito che l’essenziale è permettere la sopravvivenza del nostro spirito critico. Vediamo che questo irrita il potere, quindi sappiamo di essere nella strada giusta. Se per proseguire dobbiamo rinunciare ai guadagni che un tempo, forse, sarebbero stati possibili, siamo pronti a farlo.
J. G. : Lei ha parlato di un clima repressivo che ha accompagnato tutti i dieci anni di regno di Mohamed VI. Non trova che negli ultimi mesi questa attitudine abbia subito una brusca accelerazione?
A. J. : Quello che è successo negli ultimi mesi si inscrive nella stessa dinamica di quanto già visto nei dieci anni precedenti. Mohamed VI non ha mai rinunciato ad attaccare i giornali indipendenti. Tuttavia il 2009 ha registrato un innegabile inasprimento della repressione. Mettendo in prigione Chahtane (direttore di Al Michaal) e maltrattandolo in carcere, costringendo Akhbar Al Youm alla chiusura con la scusa di una banale caricatura, il Palazzo ha voluto lanciare un messaggio: siamo noi a comandare e chi continua a metterci i bastoni fra le ruote la pagherà cara. E’ finito il tempo delle critiche e delle insubordinazioni. In più, la chiusura di Akhbar Al Youm è totalmente illegale. Non c’è nessuna legge che la autorizzi. E’ come se il regime dichiarasse: da adesso in poi la legge siamo noi. Quello che stabiliamo, indipendentemente dai codici in vigore, è legge. Quanto hanno fatto a Bouachrine e al suo giornale deve servire da esempio.
1 commento:
Voglio scrivervi una dura verità che dovremo affrontare nel caso in cui il 20 febbraio 2011 dovesse nascere una manifestazione popolare con disordini nel Regno del Marocco.
Io vi capisco e sono dalla vostra parte, anche se non posso essere presente, alla vostra manifestazione popolare per i vostri diritti umani di cui dovete sempre proteggerli e blindarli in modo che nessun governo vi possa togliere la dignità di vivere la vostra vita in totale libertà e armonia.
Il problema però è molto più complesso perché una manifestazione popolare non pacifica porterebbe a conquistare dei falsi diritti umani di ogni cittadino marocchino, sacrificando delle vittime e creando disagi interni a tutti i livelli sociali, portando così il reset assoluto del Regno del Marocco.
Tanto per capirci il nostro Marocco si fermerà e prima di ripartire ci vorranno decenni!!! Perciò ancora povertà e una falsa democrazia basata sulle istituzioni delle multinazionali americane che privatizzeranno tutte le nostre risorse che non saranno più Made in Morocco, ma Made in U.S.A.
Abbiamo sempre lottato come islamici per non perdere i nostri valori radicati nelle centinaia di anni e che tutt’ oggi possiamo vantare di essere ancora il popolo più solidale del mondo, ma se tutto questo verrà solo minimamente influenzato dai tenori di vita del sistema americano, potremmo perdere quei valori che in tutto il mondo ci rendono unici.
Leggo le informazioni di Wikileaks sul governo marocchino e mi vien da ridere perché tutto il popolo marocchino sa che la corruzione in Marocco è ovunque, non credo proprio che sia una novità.
Tutti i governi basati su una politica democratica, monarchica, anarchica, ecc. hanno dei leader corrotti e avidi che sfruttano i popoli pubblicizzando libertà ovunque, d'altronde “potere” si chiama “potere” solo perché è per pochi se fosse per tutti forse non ci sarebbero parole per descriverlo.
Perciò se pensiamo di eliminare la corruzione dal mondo manifestando per le strade mi sa che sarà un’impresa molto ardua Wikileaks.
Una cosa positiva che vi posso dire è che il Marocco è lo stato più potente al mondo per la sua posizione logistica. Questo ci fa pensare che le multinazionali americane non vedono l’ora di poter sfruttare il nostro stato come hanno fatto in tutti i paesi dell’africa schiavizzandoli e rendendoli più poveri di prima. Le manifestazioni che sono avvenute in Tunisia, Egitto e Libia hanno praticamente portato questi stati al blocco totale economicamente dando così il via libera alle multinazionali americane e al loro sistema finanziario corrotto che porterà questi stati nei prossimi 30 anni alla povertà più assoluta…………e questa si chiama libertà.
Questo scenario ha portato al Regno del Marocco, per i prossimi 50 anni, prosperità e ricchezza perché tutte le multinazionali di tutto il mondo investiranno nel luogo più sicuro dell’africa, il Marocco, perché tutto il resto del nord africa non è più sicuro a causa delle manifestazioni che hanno reso questi stati non più agibili per qualsiasi investimento, pensateci, ormai è questione di mesi e poi tutti investiranno nel Regno del Marocco perché tutto il resto del mondo soffre di una crisi ormai senza tramonto.
A noi e hai nostri valori islamici conviene tenerci, un regno corrotto come dice Wikileaks, piuttosto che avere una finta democrazia americana che sta usando la nostra manifestazione popolare del 20 febbraio 2011 per poter ribaltare il nostro sistema odierno nascondendosi dietro le parole “libertà” e “diritti”.
Human slaves
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