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venerdì 4 febbraio 2011

Le speranze (tradite?) di una rivoluzione

TUNISI - Sono passate tre settimane dalla fuga del dittatore Zine el Abidine Ben Ali e dalla caduta del clan dei Trabelsi. I popoli vicini, i media occidentali, perfino il presidente degli Stati Uniti Barak Obama hanno salutato con entusiasmo la rivoluzione tunisina l’indomani del 14 gennaio. Ma, per le strade della capitale, sta lentamente scomparendo quel profumo di gelsomino che in pochi giorni era riuscito a risvegliare la speranza dell’intero mondo arabo, diffondendo coraggio in tutta la regione, dall’Egitto fino allo Yemen. Quell’aroma dolce e delicato sembra aver lasciato il posto alle vampate aspre e irritanti del gas lacrimogeno. La polizia è tornata a reprimere, con violenza, i manifestanti che continuano a chiedere la dissoluzione dell’RCD (il partito dell’ex presidente) e l’epurazione dagli apparati istituzionali e amministrativi degli uomini chiave del vecchio regime. Durante il blitz alla casbah effettuato venerdì 28 gennaio i reparti speciali, intervenuti per disperdere una protesta pacifica di fronte alla sede del primo ministro Ghannouchi, si sono lasciati dietro i primi morti della Tunisia post-rivoluzionaria. Nonostante le testimonianze di alcuni avvocati presenti al momento del massacro, i media nazionali hanno taciuto, già proni ai nuovi equilibri e alle oscure manovre che reggono un “governo di unità nazionale” autoproclamato e privo di legittimità.





“Dove sei colomba della libertà?”
Accanto ai carri armati che stazionano di fronte al Ministero dell’Interno, un gruppo di ragazzi scatta foto con il cellulare e si sporge oltre il filo spinato per stringere la mano ad un giovane soldato. Elmetto ben calzato sul volto e mitra in spalla, appare quasi stordito dalle dimostrazioni di affetto con cui i tunisini hanno accolto l’esercito all’arrivo nella capitale. La stessa scena si ripete ormai da giorni: c’è chi getta rose sopra i cingoli dei tank, chi distribuisce dolciumi e caramelle. I militari, dopo il rifiuto del generale Rachid Ammar di sparare sul popolo in rivolta, sono diventati gli eroi della rivoluzione, assieme ai martiri di Sidi Bouzid e Kasserine. Con il ritorno della violenza nelle strade della città, gli sguardi dei passanti sembrano invocare di nuovo la loro protezione. Hanno ancora fiducia nell’esercito, nonostante sia rimasto immobile al momento degli attacchi sferrati prima dalle milizie e poi dalla polizia sui manifestanti.


Sedute sul marciapiede a pochi passi dai mezzi blindati, due ragazze dall’aspetto semplice e ordinario cantano il sogno di una Tunisia libera e democratica. “Dove sei colomba della libertà?/Dove sei colomba della pace?/Dove porti ora il tuo ramo di olivo?/Senza di te non credo che riuscirò a dormire…”. Selma e Salima, gemelle diciottenni, hanno lasciato la loro casa nella lontana periferia di Tunisi per raggiungere l’avenue Habib Bourghiba. Si sono portate dietro una vecchia chitarra acustica, ereditata dal fratello maggiore, con cui intonano le note di una strofa che hanno scritto nei giorni sanguinosi di inizio gennaio. “E’ il nostro piccolo contributo alla rivoluzione. Un omaggio a tutti coloro che sono morti per una Tunisia migliore”, confessano le due sorelle, voce timida e un profondo sguardo bruno. “Negli ultimi giorni la situazione sembra peggiorata, ma noi vogliamo conservare la speranza che la rivoluzione riesca a cambiare veramente le cose”, chiarisce Selma, a cui fa eco la sorella: “prima, quando c’era ben Ali, sarebbe stato impossibile cantare in pubblico una canzone che parla di libertà. Adesso siamo qui e lasciamo andare le nostre voci senza paura”.


Sul lungo viale alberato è tornato ad affacciarsi qualche timido raggio di sole dopo la pioggia caduta nei giorni scorsi. I muri dei palazzi portano ancora le scritte del glorioso 14 gennaio: Vive la liberté, RCD degage, Enfin libres, Zinoché au tribunal. Del dittatore in fuga non è rimasta nemmeno un’immagine. Quasi all’altezza della statua di Ibn Khaldun, una folla incuriosita si è radunata di fronte alle vetrine della libreria Al Kitab. In bella vista sul ripiano troneggiano alcuni dei titoli proibiti sotto il regime Ben Ali. “Siamo presi d’assalto, ci sono già arrivate centinaia di richieste ma purtroppo quei libri non sono ancora disponibili. Le copie in esposizione ci sono state concesse da alcuni privati che fino a qualche giorno fa le tenevano ben nascoste”, commenta Mohamed Bennour, dipendente della libreria da oltre vent’anni e membro del Forum democratico per la libertà e il lavoro (partito di opposizione all’ex presidente). Il signor Bennour prova a elencare rapidamente alcuni dei titoli più ambiti, La force de l’obeissance di Beatrice Hibou, Mon combat pour les lumieres di Mohamed Cherfi, La regente de Chartage di Cathrine Graciet…poi si ferma di colpo ed esclama con amara ironia: “pensi che da qualche anno perfino le guide turistiche erano vietate in Tunisia. Nelle ultime edizioni, Lonely Planet e Routard hanno accennato alle violazioni dei diritti umani nel paese e di conseguenza sono state bandite”. Il libraio spiega allora come funzionava la censura: “ogni volta che presentavamo un ordine ad una casa editrice straniera dovevamo consegnare la lista al Ministero dell’Interno, che cancellava i titoli giudicati sospetti o sconvenienti. Veniva poi fatto un secondo controllo al momento dell’arrivo della merce: i funzionari aprivano i cartoni ed accertavano che tutto combaciasse”. Mohamed Bennour si dice soddisfatto per il provvedimento adottato dal governo che straccia le liste nere imposte da Ben Ali sui prodotti culturali, ma resta scettico sulle capacita dell’esecutivo di imporre una vera transizione: “non hanno avuto nemmeno il buon senso di sciogliere l’RCD. E’ come se in Italia, dopo il 1945, aveste conservato il partito fascista. Non lo considero un buon presagio”.


“L’asino è scappato in Arabia Saudita ma il carretto è rimasto qui”
Per tre settimane l’avenue Habib Bourghiba, il cuore della Tunisi coloniale, è stata teatro quotidiano di manifestazioni e proteste contro il governo provvisorio. Le promesse di elezioni libere entro sei mesi, la scarcerazione dei detenuti politici e l’apertura di un’inchiesta sulle appropriazioni indebite del clan Ben Ali-Trabelsi non sono bastate a rassicurare gli animi di chi contesta la legittimità del nuovo esecutivo. Lungo il viale alberato che conduce a Porte de France e poi alla medina, hanno sfilato cittadini di ogni estrazione sociale, appartenenti a tutte le categorie professionali e provenienti da ogni angolo del paese. Il messaggio lanciato dalla popolazione è chiaro: dissoluzione immediata dell’RCD, via i feticci del vecchio regime, via il primo ministro Ghannouchi. “Molte delle esigenze primarie della rivoluzione restano ancora oggi incompiute. Bisogna neutralizzare i tentacoli della dittatura come l’RCD, le sue milizie e la polizia segreta, per impedire a questa piovra di ricostruire una nuova testa”, è il monito lanciato da Sihem Bensedrine, giornalista indipendente e fondatrice di radio Kalima, emittente on-line messa al bando dall’ex presidente.
Dall’altra parte della città, nella piazza della casbah, non c’è più traccia della “carovana della libertà”. Solo fino spinato e poliziotti di pattuglia che impediscono l’accesso al palazzo del primo ministro. Sotto le sue finestre, da domenica 23 gennaio, si era riunita una folla colorata e pacifica proveniente dalle regioni dell’interno, quelle zone remote e dimenticate in cui era scoppiata la rivolta a fine dicembre. Avevano portato le foto dei loro martiri, per ricordare alle nuove istituzioni che per loro la rivoluzione non era ancora finita. “L’asino è scappato in Arabia Saudita ma il carretto è rimasto qui”, scandivano le voci di Sidi Bouzid, di Gafsa, Kasserine e dei villaggi circostanti. In centinaia si erano accampati nella piazza con coperte e materassi, conquistando subito la simpatia degli abitanti che non avevano esitato a raggiungere il sit-in. “E’ la reazione spontanea di un popolo che non vuole veder morire il suo sogno, che non vuole farsi rubare la sua rivoluzione”, dichiarava Tarek Ferjani, un disoccupato di Metlaoui (400 km a sud di Tunisi) unitosi alla carovana. “Non abbiamo fiducia in questo governo, non possiamo credere alle promesse di chi per anni ha servito fedelmente Ben Ali”, rincalzava il giovane tunisino, indicando con la mano il palazzo del capo del governo. Un dubbio legittimo quello di Tarek, se si pensa che l’attuale premier Mohamed Ghannouchi fu nominato ministro dall’ex dittatore già nel 1987, all’indomani del golpe che destituì Bourghiba. Da allora ha sempre fatto parte di tutti gli esecutivi di marca Ben Ali, fino ad assumerne la gestione nel 1999. Una posizione a cui non ha voluto rinunciare nemmeno dopo la partenza del suo mentore.

Le perplessità sullo stato di salute della rivoluzione tunisina aumentano se si prendono in considerazione i fatti avvenuti alla casbah venerdì 28 gennaio, quando la “carovana della libertà” è stata spazzata via in pochi minuti: un gruppo di milizie armate di bastoni e spranghe di ferro si è mescolato alla folla dei manifestanti per seminare il disordine, spianando così la strada all’intervento feroce della polizia. “Uno scenario tipicamente benaliano, è la stessa storia che continua a ripetersi. Le milizie dell’RCD provocano il caos, gli agenti intervengono massacrando i manifestanti e gli uomini armati lasciano la piazza indisturbati”, commenta senza troppi giri di parole Jilali Hamami, storico oppositore del regime, sindacalista e co-fondatore del Partito comunista operaio tunisino. Secondo la testimonianza di Hamami, confermata da alcuni avvocati presenti al momento dell’intervento, i poliziotti si sono lasciati dietro almeno due cadaveri e decine di feriti. I media locali hanno taciuto, quelli stranieri hanno voltato lo sguardo altrove e sono già partiti verso nuove destinazioni. Risultato, i primi morti della Tunisia post-rivoluzionaria restano solo un’ipotesi anonima, che il governo provvisorio si è velocemente scrollata di dosso. Per il sindacalista, i giornali e le televisioni nazionali non fanno che demonizzare le proteste e gli scioperi ancora in corso in tutto il paese: “gettano discredito sui manifestanti, invocano il ritorno all’ordine. Ma a quale ordine? Quello che c’era prima? Sembra quasi che dicano: «Basta con questa storia della rivoluzione, vi abbiamo lasciato sfogare ora è il momento di tornare ognuno al proprio posto»”.

Rivoluzione o colpo di stato?
E’ difficile spiegare cosa stia succedendo nel paese in questi giorni. Un dato tuttavia appare evidente: nonostante la caduta del dittatore, gli apparati su cui si reggeva il suo sistema di potere sono rimasti in piedi e cercano di perpetuarsi. Non è chiaro se Ghannouchi e il suo governo siano coinvolti nella repressione dei manifestanti alla casbah o se sia stata l’iniziativa di una polizia troppo legata ai vecchi metodi. In ogni caso il primo ministro e il ministro dell’Interno devono ritenersi direttamente responsabili dell’operato svolto dalle forze dell’ordine e della presenza nelle strade di milizie armate che seminano impunemente il caos.
Secondo Beatrice Hibou, ricercatrice al CNRS di Parigi, la partenza di Zine el Abidine Ben Ali non è sufficiente, da sola, a garantire la transizione democratica. “L’intero sistema che caratterizzava il regime di Ben Ali è ancora là, compreso il suo partito che da solo assicurava la repressione e il controllo sociale. L’RCD e la sua osmosi con le strutture istituzionali e amministrative del paese deve essere soppressa. Solo allora comincerà un vero cambiamento”. Ancora più esplicito è Taoufik Ben Brik: “una rivoluzione, per dirsi tale, deve portare a un cambiamento radicale sul piano politico, economico e sociale. In Tunisia non sta avvenendo niente di tutto questo”. Ben Brik, poeta e romanziere di fama internazionale, ha pagato con il carcere i suoi scritti incendiari all’indirizzo dell’ex dittatore. Oggi non nasconde la sua preoccupazione per gli sviluppi che potrà sembra assumere lo scenario politico tunisino: “temo che si stiano preparando le basi per un nuovo regime, identico a quello precedente. Questi capibanda che si ergono a rappresentanti dell’unità nazionale stanno cercando di soffocare la rivoluzione, la stanno trasformando in un golpe di palazzo. Hanno fatto velocemente mea culpa e ora siedono al governo senza alcuna legittimità”.
Quando il 7 novembre 1987 un colpo di stato “chirurgico” destituì Habib Bourghiba, fu il suo primo ministro Ben Ali a prenderne il posto. Un uomo del suo stesso partito su cui il vecchio presidente riponeva la sua fiducia. Le promesse fatte in quell’occasione, apertura democratica, pluralismo politico, rispetto dei diritti umani e della libertà di espressione, vennero dimenticate in pochi mesi. A prevalere fu il desiderio di stabilità e la difesa dei fondamenti dello stato contro la minaccia islamista di Annadha, assicurata da un uomo “forte” alla guida del paese. A ventitre anni di distanza sono molte le similitudini che si impongono allo sguardo del cittadino tunisino. Mohamed Ghannouchi, premier di fiducia di Ben Ali, sta facendo leva sugli stessi argomenti, utilizzati due decenni prima dal suo predecessore, per raccogliere un consenso trasversale attorno alla sua figura e per mettere fine alle proteste di un popolo desideroso di cambiamento. La tanto celebrata libertà di stampa sembra già essersi risolta in un rapido allineamento dei media nazionali sulle posizioni del governo provvisorio. Chi ha provato a criticare l’operato dell’esecutivo, come il canale privato Hannibal TV, è stato accusato di “alto tradimento” e “complotto contro la sicurezza dello stato” (l’accusa è stata poi misteriosamente ritirata e il proprietario della rete è stato rilasciato dopo 24 ore). Quanto al rispetto dei diritti umani, il blitz effettuato alla casbah lo scorso 28 gennaio e la ripresa delle violenze contro i manifestanti non sembrano offrire molte garanzie per il futuro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

bello, scritto bene, rende bene l'idea anche lo slogan dei manifestanti sul carretto che è rimasto!!
Complimenti.