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lunedì 31 gennaio 2011

A Tunisi continuano le violenze della polizia e delle milizie

TUNISI - Nel momento in cui l’interesse internazionale si è spostato verso l’Egitto e i media stranieri hanno lasciato il paese, i manifestanti tunisini che ancora reclamano la dissoluzione dell’RCD (il partito del dittatore) e le dimissioni del primo ministro Mohamed Ghannouchi vengono messi brutalmente a tacere. Malgrado la partenza di Ben Ali e l’annuncio di un nuovo governo di unità nazionale, le milizie dell’RCD continuano a seminare il caos e la polizia ne approfitta per reprimere, lasciandosi dietro decine di arresti, feriti e i primi morti della Tunisia post-rivoluzionaria, come dimostra quanto accaduto nella capitale il 28 e il 29 gennaio scorso.





La “carovana della libertà”
Circa cinquemila manifestanti da domenica 23 gennaio hanno occupato la casbah, dove si trova la sede del primo ministro e di altri dicasteri. L’hanno chiamata la “carovana della libertà”, una marcia partita dalle regioni dell’interno (Sidi Bouzid, Gafsa, Kasserine, Thala e Metlaoui), dove più alto è stato il numero dei morti durante la rivolta scoppiata a fine dicembre, composta da ragazzi, studenti, disoccupati e madri con i figli al seguito. Raggiunta la capitale si sono accampati nella piazza dove si affacciano le finestre del premier Ghannouchi, sistemando alla meglio i materassi e le coperte offerte dagli abitanti della città. Si sono portati dietro le foto dei loro martiri, per ricordare che il sacrificio compiuto rimarrà vano finché il partito dell’ex dittatore non verrà dissolto, per protestare contro un governo e un sistema politico che conserva ancora i feticci del vecchio regime. “L’asino è partito in Arabia Saudita, ma il carro è rimasto qui”, è lo slogan emblematico scandito dalla piazza. Al sit-in promosso dalla carovana, nel corso della settimana, si sono uniti poi centinaia di cittadini provenienti da tutto il territorio nazionale. “Basta RCD”, “Ghannouchi vattene”, i cori hanno rimbalzato per giorni e giorni da una parte all’altra della città. Dalla casbah all’avenue Habib Bourghiba, il cuore pulsante della ville nouvelle, teatro quotidiano di marce e cortei pacifici. Almeno fino a venerdì 29 gennaio, quando il riemergere della violenza ha proiettato Tunisi in un brusco ritorno al passato.
I primi sintomi di un recupero dei vecchi sistemi di dissuasione si erano già avuti a metà della settimana scorsa, quando gli agenti anti-sommossa hanno ricominciato a sparare gas lacrimogeno sulla folla e a disperdere i manifestanti a colpi di manganello. Solo pochi giorni prima (sabato 22 gennaio, ndr) era stata la stessa polizia a scendere in piazza per esprimere la sua adesione alla rivoluzione e per scrollarsi di dosso la tetra immagine di “cane da guardia” della dittatura che si era guadagnata durante l’era Ben Ali. Nient’altro che una messa in scena, come dimostrano i nuovi eventi, per rifarsi una verginità agli occhi della Tunisia rivoluzionaria. A due settimane dal fatidico 14 gennaio, in un paese sull’orlo del caos, una cosa sembra evidente: Ben Ali non c’è più, ma i metodi brutali della sua polizia restano, al servizio del primo ministro Ghannouchi e delle eminenze grigie che stanno soffocando la rivoluzione del gelsomino e le speranze di un intero popolo.

Cadaveri tra i manifestanti della casbah
Venerdì 28 gennaio, dopo la presentazione del nuovo esecutivo di “unità nazionale”, l’atteggiamento repressivo del governo nei confronti dei manifestanti si è fatto più esplicito. A pattugliare il centro della capitale, oltre ai militari e ai celerini, sono tornate le milizie dell’RCD, armate di bastoni, spranghe di ferro e coltelli. Alle 18:00 l’avenue Habib Bourghiba sembra un campo di battaglia. Nell’aria l’odore acre del gas lacrimogeno. Le saracinesche dei negozi abbassate e un silenzio pesante, rotto soltanto dal rumore degli elicotteri che sorvolano il viale. Ammassati sulla strada gli ombrelloni divelti e le sedie sfasciate dei café, oltre ai contenitori della spazzatura sradicati, circondati dall’immondizia accumulata in una giornata fino a quel momento pacifica. Ad ogni angolo della strada, gruppi di poliziotti in tenuta anti-sommossa sono affiancati da civili armati. Di fronte all’hotel Africa stazionano una decina di furgoni, su cui gli agenti stanno trascinando uomini in manette.
Questo è l’epilogo di una giornata di sangue cominciata qualche ora prima nei pressi della casbah, dove alcune centinaia di manifestanti rifiutavano di abbandonare la protesta nonostante le intimidazioni delle forze dell’ordine. “A metà pomeriggio le milizie sono penetrate tra la folla ed hanno iniziato a seminare il panico, lanciando pietre verso i poliziotti”, riferisce l’avvocato Mohamed Ali Hichri, testimone dell’accaduto assieme ad altri colleghi. “Qualche minuto prima i militari presenti sulla piazza ci avevano avvertito: «abbiamo avuto l’ordine di ritirarci, stanno arrivando gli anti-sommossa e faranno un massacro»”, continua l’avvocato. L’intervento delle milizie ha innescato la reazione feroce della polizia, che ha sgomberato la piazza a colpi di manganello e di gas lacrimogeno. Tra i manifestanti decine i feriti e le persone finite in manette, mentre le milizie hanno potuto lasciare la zona della casbah indisturbate in direzione dell’avenue Habib Bourghiba, dove hanno riprodotto lo stesso scenario che ricorda fin troppo bene le tecniche “benaliane” di sabotaggio del dissenso e di legittimazione della repressione. Stando alla testimonianza di Ali Hichri, alcuni colleghi dell’ordine degli avvocati, tra cui Ahmed Seddiq e Saïda el Haqmi, hanno constato personalmente “che almeno due cadaveri sono stati portati via dalla polizia durante gli scontri avvenuti alla casbah”, come si legge in una dichiarazione consegnata dai legali al ministero della Giustizia. Nella stessa dichiarazione gli avvocati affermano di aver visto alcuni agenti, dopo l’intervento, portare delle casse di coltelli nella zona del sit-in, “per giustificare il massacro con la scusa che i manifestanti erano armati”. Secondo altri testimoni, presenti al momento dell’arrivo delle milizie e dell’intervento della polizia, i morti sarebbero tre, tra cui una donna anziana soffocata dal gas e dalla calca prodottasi nella piazza.


I media locali tacciono
Il giorno dopo l’accesso alla casbah è ostruito da un recinto di filo spinato e da squadre di poliziotti che pattugliano i vicoli tortuosi della città vecchia. La piazza è vuota. Dei manifestanti non c’è più traccia. Alcuni hanno lasciato la capitale in modo precipitoso, altri hanno trovato riparo in ricoveri di fortuna, assistiti da dottori e avvocati accorsi volontariamente. La “carovana della libertà” è stata spazzata via. Nella Tunisia rivoluzionaria e democratica sembra già vietata ogni forma di dissenso.
Fuori dal Palazzo di giustizia, a pochi passi dalla casbah, una ventina di manifestanti finiti in arresto nei giorni scorsi è appena uscita dal tribunale. Hanno ottenuto la libertà condizionata, mentre la difesa ha chiesto l’apertura di un’inchiesta sulle violenze commesse dalle forze dell’ordine. Nei loro volti sono ancora evidenti le contusioni per i colpi ricevuti. Uno di loro solleva la maglia e mostra i segni delle bruciature e delle lacerazioni cosparse su tutto il torace. Si chiama Faysal, ha ventitre anni e viene da Sidi Bouzid: “ieri, dopo l’attacco delle milizie, i poliziotti mi hanno caricato in un furgone. Dicevano che mi avrebbero accompagnato all’autobus per tornare a casa. Invece mi hanno picchiato e rinchiuso in un sotterraneo per tutta la notte”.
Mentre i giornalisti stranieri hanno lasciato il paese per raggiungere il Cairo, a Tunisi continuano le violenze e la repressione. Oggi (sabato 29 gennaio, ndr) nell’incrocio tra l’avenue Bourghiba e Porte de France sono ricomparse le milizie, che hanno attaccato il corteo delle Fammes democrates (associazione per la laicità e l’uguaglianza dei diritti uomo-donna) e degli studenti delle superiori, sotto lo sguardo complice dei reparti speciali. I media locali tacciono sull’accaduto, troppo impegnati ad osannare il nuovo governo di unità nazionale e a chiedere la ripresa dell’attività economica. “Ho rifiutato l’invito di Nessma TV in segno di protesta contro il reportage mandato in onda dalla rete per discreditare i manifestanti della casbah e giustificare le violenze commesse nei loro confronti”, spiega sul suo profilo Facebook il giornalista e scrittore tunisino Soufiane Ben Farhat. “Da due settimane non si fa altro che parlare di libertà di stampa e di informazione ma a quanto pare, in questa seconda repubblica post-rivoluzionaria, le televisioni e i giornali hanno soltanto cambiato padrone”, è l’amaro commento dell’avvocato Ali Hichri.

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