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mercoledì 19 gennaio 2011

La rivoluzione è contagiosa

Il ricorso al suicidio come estremo tentativo di ribellione alla miseria e alla repressione si sta espandendo velocemente all’interno dei paesi arabi. Tunisia, Algeria, Egitto e perfino Mauritania. Lunedì 17 gennaio un giovane mauritano si è dato fuoco a Nouakchott, di fronte al palazzo presidenziale, per esprimere la sua rabbia nei confronti del regime guidato dal generale golpista Abdelaziz, secondo quanto riferito da fonti giornalistiche locali. Lo stesso giorno, al Cairo, il proprietario di un piccolo ristorante si è cosparso di benzina davanti al Parlamento ed ha appiccato le fiamme sul proprio corpo. Il gesto è stato imitato la mattina seguente da altri due giovani egiziani, immolatisi di fronte al palazzo dove si riunisce il Consiglio dei ministri. I tre, come del resto il giovane mauritano, si trovano ricoverati con ustioni diffuse su tutte le parti del corpo. In Algeria sono già sette i tentavi di suicidio segnalati da mercoledì 12 gennaio. L’ultimo caso martedì 18 gennaio: una donna si è data fuoco nella provincia di Sidi Belabs (600 km a sud-ovest di Algeri) dopo che le autorità locali si erano rifiutate di concederle una sovvenzione per l’alloggio. Prima di lei due giovani disoccupati, uno nella regione di Mostaghanem (350 km ad ovest di Algeri) e l’altro nei dintorni di Tebessa (al confine con la Tunisia) avevano tentato di mettere fine alla loro vita con le stesse modalità.
L’estremo gesto compiuto da Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid il 17 dicembre scorso, che ha dato il via al sollevamento del popolo tunisino fino alla destituzione del dittatore Ben Ali, sembra avere un eco e una diffusione sorprendente tra le società arabe e arabo-berbere della regione, accomunate dalla gestione autoritaria e repressiva del potere e dalla grave condizione socio-economica cui si trovano a far fronte. Bouazizi, ventiseienne disoccupato morto il 4 gennaio a causa delle ustioni, è divenuto un martire della “rivoluzione del gelsomino” ed un’icona di riferimento sia in Maghreb che nell’intero mondo arabo. Il rischio di contagio preoccupa i regimi dell’area, legittimati non certo dal consenso popolare ma dallo stato di polizia con cui da decenni sorvegliano popolazioni fino ad oggi rimaste asservite. I vari Bouteflika, Mubarak e perfino i loro sostenitori occidentali (USA e Francia), pur felicitando il popolo tunisino, si sentono più che mai minacciati dal pericolo che il seme rivoluzionario si espanda alle altre società della regione.



Di seguito un articolo sullo stesso tema pubblicato dal quotidiano algerino El Watan il 16 gennaio 2011.

I regimi arabi in stato di allerta

La caduta del potente Zine El Abidine Ben Ali dopo ventitre anni di dominio assoluto, sotto le pressioni di una autentica rivolta di popolo, mette i regimi arabi in stato di allerta. Coscienti della loro ampia impopolarità, della loro illegittimità e del risentimento covato dalla popolazione, i dirigenti arabi cercano di premunirsi contro la diffusione di uno “scenario alla tunisina”.
Pur precipitandosi a dichiarare il proprio sostegno al popolo tunisino in rivolta e ormai rivoluzionario, i regimi arabi si preparano fin da ora a neutralizzare un possibile contagio. “La rivoluzione tunisina è il primo sollevamento popolare di questo tipo che riesce a rovesciare un capo di stato in un regime arabo. Può essere una fonte di ispirazione per l’intera regione”, afferma Amir Hamzawi, ricercatore alla fondazione americana Carnegie Endowment. Secondo lui “gli ingredienti che si trovano in Tunisia sono infatti presenti in tutta l’area”. Le società arabe vivono tutte nelle stesse condizioni di quella tunisina: popoli asserviti, opposizioni represse, diritti negati, libertà confiscate, corruzione generalizzata e miseria diffusa.. Questa constatazione è valida per l’insieme dei regimi arabi. Dal Marocco all’Algeria, dall’Egitto alla Giordania, ritroviamo questi fattori “detonatori”. L’ingiustizia sociale e la chiusura dello spazio politico stanno generando disgusto, ripugnanza ed esasperazione.

Similitudini
Le società arabe, che si sentono in uno stato di totale abbandono, rischiano di riversare la loro rabbia per strada, nelle piazze, come hanno ben dimostrato i tunisini, vissuti sotto uno dei più duri regimi di polizia fin dal momento dell’indipendenza (1956). Ormai niente è impossibile. Quanto successo in Tunisia mostra che il cambiamento può venire dalle società stesse, che nessun dittatore può resistere alla volontà di un popolo unito in rivolta. “Speriamo che quanto accaduto in Tunisia possa ripetersi in altri paesi arabi, dove i dirigenti stanno arrugginendo ai loro posti di comando”, commenta il direttore di una televisione libanese. L’esperienza tunisina dimostra infatti che non c’è più bisogno di una democrazia esportata a colpi di bombardamenti e invasioni, all’americana, per liberare i popoli oppressi.

Una straordinaria capacità di adattamento
“L’eco di questo evento, senza precedenti nel mondo arabo, si farà sentire senza ombra di dubbio in più di un paese nella regione”, dichiarava il giornale libanese Annahar nell’editoriale pubblicato ieri. Alcuni egiziani si sono uniti, venerdì al Cairo, ad un gruppo di tunisini che stavano celebrando, di fronte alla loro ambasciata, la fuga del presidente Ben Ali, ed hanno chiesto a loro volta la partenza di Hosni Mubarak, al potere dal 1981. “Egiziani ascoltate i tunisini, ora è il vostro turno!”, erano gli slogan scanditi dai manifestanti.
In Giordania migliaia di persone hanno manifestato in diverse città per protestare contro la crescita della disoccupazione e dell’inflazione, ma anche per invocare la fine del regime. In Algeria gli scontri sono cominciati ad inizio gennaio, dopo l’innalzamento dei prezzi dei prodotti di largo consumo. Ma anche se il messaggio proveniente dalla Tunisia è percepito in modo chiaro, il suo impatto a corto termine e i rischi di contagio restano difficili da valutare nell’immediato. I regimi autoritari arabi hanno dimostrato di avere una buona capacità di adattamento alle novità e ai venti di cambiamento. Alcuni esempi meritano di essere sottolineati. La rivolta algerina del 1988, assetata di diritti e di libertà, è stata dirottata ed ha permesso al sistema politico di rigenerarsi instaurando una democrazia di facciata. Anche in Siria la “primavera di Damasco” sbocciata nel 2000 è stata soffocata sul nascere. Diversamente dal regime di Ben Ali, estremamente totalitario e repressivo, in Algeria, in Marocco e in Egitto gli apparati di potere concedono piccole valvole di sfogo alla società civile e alle opposizioni. Altri invece, immersi nel petrolio come l’Arabia Saudita e la Libia, riescono a comprare il silenzio dei rispettivi popoli.
Per Claire Spencer, a capo del programma Medio Oriente e Nord Africa dell’Istituto Chatam House (Londra), la possibilità che l’Algeria segua una evoluzione “alla tunisina” resta tuttavia un grande punto interrogativo. E’ evidente che la maggior parte dei regimi arabi siano sotto tensione di fronte all’eventualità di un contagio della rivoluzione tunisina. Ma è difficile dire con altrettanta certezza se un simile scenario possa riprodursi in altri paesi arabi. Quando si arriva alla rivolta di piazza, tutti gli scenari diventano possibili…perfino i più cupi.
(Mokrane Ait Ouarabi)

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