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sabato 22 gennaio 2011

Il regime algerino ha due alternative: la transizione democratica o l’esplosione imminente

Oggi si terrà ad Algeri la manifestazione indetta dal partito di opposizione di Said Sadi (Rassemblement pour la Culture et la Democratie), a cui hanno aderito alcuni dei sindacati autonomi non riconosciuti dal regime, oltre a figure di spicco come lo stesso Benbitour e l’associazione degli studenti di Tizi Ouzou. La città è militarizzata e le autorità, tramite un comunicato emesso dalla prefettura della capitale, hanno vietato la marcia annunciando arresti e processi per chi disobbedirà agli ordini.



Lo scontro sembra inevitabile. Tra le richieste avanzate da Sadi, la transizione ad un regime democratico che sia garante dei diritti delle libertà dei cittadini e la liberazione dei manifestanti arrestati in occasione delle sommosse scoppiate in tutta l’Algeria ad inizio gennaio. Tra il 5 e il 9 gennaio scorso, la rivolta innescatasi sulla scia del sollevamento tunisino aveva provocato cinque morti e più di ottocento feriti (quasi tutti tra le fila della polizia), mentre oltre mille persone (tra cui alcuni giornalisti che documentavano gli eventi) sono finite in carcere con l’accusa di devastazione e tentato omicidio. Per l’occasione si era parlato di una reazione violenta della popolazione in seguito all’innalzamento dei prezzi dei beni di prima necessità, tanto che il governo aveva subito deciso di rivedere il costo della farina, dell’olio e dello zucchero. Ma quanto successo nelle due settimane seguite al sollevamento, continue proteste degli studenti e suicidi a catena in ogni angolo del paese, ha dimostrato che la rabbia espressa dagli algerini è radicata ben più in profondità. Quella offerta dal governo “è una risposta puramente tecnica ad una contestazione violenta che solo i ciechi possono ridurre all’aumento del costo della vita”, affermava a ragion veduta il 10 gennaio Le Quotidien d’Oran. Il popolo algerino sembra ormai stanco di un regime autoritario che nega ai cittadini le libertà fondamentali di cui si fa garante la stessa Costituzione. Sembra averne abbastanza di una gestione dello Stato clientelare e mafiosa, così simile a quella del fuggitivo Ben Ali, che li espropria dei sostanziosi proventi delle ricette petrolifere.
“Il regime ha due sole alternative: la transizione democratica o l’esplosione imminente”, è quanto affermato dall’ex primo ministro di Bouteflika (dicembre 1999-agosto 2000) Ahmed Benbitour al quotidiano El Khabar il 20 gennaio scorso. Per Benbitour l’apparato di potere algerino è ormai di fronte ad un bivio: lasciare intatta la situazione attuale, con il rischio di una esplosione imminente, o avviare subito una apertura politica che preserverebbe l’Algeria da uno scenario alla “tunisina”. La “rivoluzione del gelsomino”, che ha spazzato via in meno di un mese il presidente Ben Ali, il suo clan, la sua polizia e il suo regime dittatoriale, non sembrerebbe offrire altri margini di manovra ai dirigenti del paese.

Aspettando di vedere cosa succederà ad Algeri nelle prossime ore, quale sarà la reazione delle autorità nei confronti dei manifestanti e quale delle due direzioni indicate da Ahmed Benbitour imboccherà il regime, vi propongo la sintesi di alcuni articoli e interviste pubblicate nei giorni scorsi dalla stampa e dai blog indipendenti algerini.


Il governo mobilita polizia televisioni e radio per bloccare la manifestazione : Algeri sotto pressione
(DNA-Algérie, 21 gennaio 2011, Sihem Balhi)

L’RCD persiste nel suo intento e il governo pure. Le autorità algerine hanno chiesto alla popolazione di non rispondere all’appello dell’opposizione, invitandola a non partecipare alla manifestazione in programma sabato 22 gennaio nel pieno centro di Algeri per invocare l’apertura democratica del regime. La marcia è stata indetta dall’RCD (Rassemblement pour la Culture et la Democratie), partito di opposizione che conta 19 deputati sui 385 totali dell’Assemblea popolare nazionale.
“Si chiede ai cittadini di dar prova di saggezza e di non rispondere ad eventuali provocazioni destinate a pregiudicare la loro tranquillità, il quieto vivere e la serenità”, è quanto indicato nel comunicato della prefettura di Algeri trasmesso giovedì sera all’agenzia algerina APS, che aggiunge: “la manifestazione di sabato non ha ricevuto l’autorizzazione dei servizi amministrativi competenti”. La prefettura ricorda che “le manifestazioni ad Algeri non sono autorizzate” e che “ogni assembramento in strada di più di tre persone è considerato come un attacco all’ordine pubblico”. Di fatto i cortei sono vietati nel paese dal 1992, vale a dire dalla proclamazione della stato d’assedio agli albori della guerra civile. Da giovedì sera, il comunicato viene diffuso ininterrottamente dalla radio e dalla televisione di stato. Come se non bastasse, in queste ultime ore la polizia ha inviato ingenti rinforzi – più di 10 mila uomini - ai commissariati della capitale, mentre gli accessi alla città saranno vietati fin dall’alba. Dall’inizio della settimana numerose camionette anti-sommossa sono state posizionate di fronte alla sede dell’UGTA (l’Union générale des travailleurs algériens, il sindacato ufficiale accusato dai manifestanti di voler sabotare l’evento a colpi di provocazioni, ndr), nei pressi dell’Assemblea popolare e del Senato.
Nonostante il divieto, il leader dell’RCD si è detto determinato a rispettare l’appuntamento, inizialmente previsto per il 18 gennaio e poi rinviato al 22. La marcia vuole sollecitare il governo ad abrogare la legge che dal giugno 2001 ha ripristinato lo stato d’assedio (una breve interruzione si è avuta tra il 1999 e il 2001, ndr), oltre ad invocare l’apertura dello spazio audio-visivo e la liberazione dei manifestanti finiti in carcere dopo la rivolta scoppiata nei primi giorni di gennaio. Le autorità hanno annunciato da parte loro che procederanno all’arresto di tutti coloro che non rispetteranno le disposizioni emanate dalle istituzioni.
“Se non sarà l’opposizione a mobilitare le masse credo che assisteremo ad eventi ancora più devastanti di quelli registrati in Tunisia”, ha dichiarato giovedì Said Sadi a Reuters. “Qui la collera e il risentimento sono più forti che a Tunisi”. Sadi ha affermato inoltre che la soluzione della crisi politica algerina non può prescindere dal ridimensionamento del ruolo dell’esercito. “Non spetta ai militari prendere decisioni, l’esercito deve diventare una istituzione dello stato e mettersi al suo servizio. Abbiamo bisogno di un cambiamento netto del sistema politico, abbiamo bisogno di trasparenza, dell’instaurazione di uno stato di diritto e della democrazia”.


La disperazione algerina e il mutismo ufficiale
(El Watan, 18 gennaio 2011, Ghania Lassal)

Cinque algerini (il numero è salito a dieci negli ultimi quattro giorni, ndt), in diverse regioni del paese, hanno provato ad immolarsi dandosi alle fiamme. Tali atti, tanto simbolici quanto violenti, non sembrano tuttavia capaci di scuotere i nostri ufficiali. Non una reazione, né una dichiarazione, nemmeno un commento di indignazione o di compassione. Solo il silenzio più ottuso. Pertanto questi “fatti di cronaca” dovrebbero sollevare più di una domanda. Tanto più che da qualche anno tendono a moltiplicarsi sotto diverse forme. Sebbene ognuna di queste persone abbia le proprie motivazioni, i loro gesti servono a testimoniare la disperazione più profonda e la perdita di fiducia nella giustizia. A mancare non sono certo gli esempi. Di simili “fatti di cronaca” si parla e si è parlato quotidianamente. E se si prova orrore, a ragione, di fronte ai modi impiegati a Tebessa o a Bordj Menaiel, questi stessi modi non sono in realtà una novità. Molti sono i cittadini arrivati al punto di compiere gesti del genere.
Nel maggio 2004, un padre di famiglia proveniente da Djelfa si è introdotto nella maison de presse Thar Djaout e si è dato fuoco di fronte ad alcuni giornalisti. Gli abiti erano impregnati di benzina. Sperava in questo modo di denunciare “la disperazione (hogra, in arabo), l’ingiustizia e la corruzione”. L’uomo è deceduto qualche giorno dopo il gesto disperato, a causa delle ferite e delle ustioni riportate. Nell’ottobre del 2009 è un’intera famiglia a sfiorare la morte nei pressi di Chlef. Un padre di famiglia di soli venticinque anni voleva protestare contro la demolizione della sua abitazione. Accompagnato dalla moglie e dalla figlia di tre anni, l’uomo si è cosparso di benzina di fronte alla sede del consiglio comunale, ripetendo poi l’operazione sul corpo della moglie e della figlia. Trasformatisi in torce umane, i tre hanno scampato la morte solo grazie al pronto intervento dei soccorritori.
Tutto porterebbe a pensare che questi atti siano compiuti soltanto da giovani disoccupati in preda alla disperazione. Ma non è così. Nell’ottobre scorso a Tiaret una cinquantenne, vedova e madre di tre figli, si è vista rifiutare l’assegnazione di un alloggio comunale. Per contestare l’ingiustizia subita, la donna, che lavorava con una ditta di pulizie, si versata addosso una tanica di combustibile nella sede dell’assemblea locale. Al momento di darsi fuoco è stata salvata da alcuni elementi della protezione civile.
Le difficili condizioni di vita spingono gli algerini anche ad altri gesti ugualmente disperati, meno spettacolari forse, ma di sicuro più ricorrenti. Almeno una trentina di suicidi al mese sono i dati ufficialmente recensiti nel paese. E una nuova forma di protesta sembra aver fatto ormai la sua comparsa: il suicidio collettivo. Nel luglio del 2010, una trentina di disoccupati della provincia di Ouargla aveva minacciato di gettarsi dal tetto dell’ANEM della città. Un estremo tentativo per far intendere la loro voce, dopo aver atteso invano che l’agenzia gli procurasse un impiego qualunque. Qualche giorno prima, lo stesso sgomento aveva spinto una decina di ragazzi ad assaltare la sede del consiglio comunale. Dopo essersi procurati delle ferite su tutto il corpo, si sono cosparsi di benzina al grido: “o il mare o il suicidio”. Sono in molti infatti a scegliere ancora oggi la via del mare, gli harragas. Migranti che “bruciano (harg, in arabo) la frontiera” lanciandosi alla ventura in mare aperto su piccole imbarcazioni, anch’esse sinonimo di suicidio. Al colmo del cinismo e del disprezzo, le autorità non hanno saputo fare di meglio che concordare una serie di misure legali per punire questo genere di comportamento.

Intervista al politologo algerino Abdesselam Ali-Rachedi, realizzata da Zine Cherfaoui per El Watan (18 gennaio 2011)

Qual è la sua lettura delle rivolte che hanno scosso le più grandi città del paese la scorsa settimana? Cosa si aspetta da una simile esplosione?
Le rivolte sono divenute un fenomeno ricorrente ormai da diversi anni. Generalmente si tratta di sollevamenti locali, spesso effimeri. La rivolta resta il solo mezzo di espressione, dal momento che il regime ha chiuso i canali di comunicazione con la società. Personalmente, ho più volte denunciato sulla stampa nazionale questa chiusura del campo politico e mediatico, alla base dei sollevamenti. Quindi, l’esplosione avuta ad inizio gennaio non mi ha affatto sorpreso.

Condivide il parere di alcuni osservatori che limitano le manifestazioni ad un problema di innalzamento dei prezzi e di costo della vita?
Il prezzo dei prodotti di prima necessità non è che un pretesto. Sono i genitori ad essere toccati dall’innalzamento del costo della vita e non i giovani manifestanti. Il vero motivo della rivolta è il malessere diffuso, dato da una condizione di sopravvivenza, precaria e instabile, che annulla perfino la speranza di un futuro migliore. La conseguenza sono i suicidi, le partenze per mare, gli harragas. Ricordiamoci quello che gridavano i giovani cabili durante la rivolta della primavera 2001: “non potete ucciderci, siamo già morti”. L’umiliazione dovuta alla hogra porta a gesti estremi, come i suicidi, oppure al risveglio della dignità dell’individuo, come nel caso delle manifestazioni a sostegno dei detenuti finiti in carcere dopo la rivolta di inizio gennaio.

Perché in Algeria è così difficile la costruzione di un’alternativa democratica?
Alla base c’è un grande ritardo nella costruzione di un vero spirito civico e partecipativo. La causa sta in un sistema educativo arcaico, riconducibile più ad una macchina di propaganda (l’islam, la nazione araba e la rivoluzione) che ad una istituzione destinata a forgiare uno spirito critico e a fornire conoscenza. Una responsabilità questa che rimonta al tipo di regime instaurato fin dal 1962. Oltre a questo, il sistema repressivo e la polizia politica impediscono la nascita di attori indipendenti all’interno della società civile. Fino a pochi anni fa il campo dell’attivismo cittadino era occupato solo dagli islamisti, con la chiara benedizione degli apparati di potere.

Quanto successo in Tunisia può riprodursi in Algeria?
Non a corto termine e non con lo stesso esito, almeno per una buona ragione. L’esercito tunisino si è rifiutato di sparare sui manifestanti per poi mettersi al servizio del sollevamento popolare. In Algeria, dove i militari e i servizi segreti sono il centro nevralgico del regime, è impossibile immaginare un simile epilogo.


La libertà di espressione si restringe
(El Watan, 19 gennaio 2011, Nadjia Bouaricha)

Davanti al restringimento dei canali di libera espressione, la piazza resta l’unico spazio per le rivendicazioni popolari. In Algeria, dal 9 gennaio 1992, resta in vigore lo stato di emergenza. Gli attori politici e sindacali, così come i difensori dei diritti umani, subiscono tutte le imposizioni dovute all’ostilità del contesto. Il diritto costituzionale di formare un partito politico è violato, come quello di creare un giornale libero e indipendente dall’apparato di potere. Le vie di Algeri restano sotto stretta sorveglianza, ben rafforzata al minimo sospetto di contestazioni o manifestazioni pacifiche. Algeri vive oggi sotto un opprimente clima di timore, spaventata da un possibile contagio della rivoluzione tunisina.
I furgoni delle unità antisommossa sono onnipresenti. Le linee telefoniche disturbate e alcuni social network oscurati. Una semplice coincidenza? “Lo stato di emergenza prevede un dispositivo di leggi e istituzioni incaricate di bloccare lo spazio fisico e legale alla libera espressione. Per esempio il codice penale, che limita notevolmente la libertà di stampa. Quindi, non solamente questa legge deve essere abrogata, ma vanno eliminati anche tutti quei dispositivi che ne conseguono e che sono stati tenuti nascosti per anni, restituendo la libertà ai giornalisti, ai sindacalisti e ai partiti politici. Ancora meglio, è tutto il clima che gira attorno a questi dispositivi che deve essere cambiato”, afferma il primo segretario del Front des Forces Socialistes, Karim Tabbou.
Per l’avvocato Mustafa Bouchachi, presidente della Lega algerina per i diritti dell’uomo, “lo stato di emergenza è mantenuto contro la società civile, le opposizioni e in generale tutti gli algerini”. “Se il regime avesse colto il messaggio lanciato dai giovani in rivolta ad inizio mese, si sarebbe mosso subito per abrogare questa legge liberticida. Non è solo la disoccupazione ad aver spinto gli algerini alla protesta, ma anche la chiusura dello spazio politico e mediatico – ricorda Bouchachi - L’Algeria è uno dei rari paesi arabi ad impedire ai cittadini di manifestare a sostegno di Gaza. Dopo dieci anni (il ripristino dello stato d’assedio dopo la fine della guerra civile è avvenuto nel giugno 2001, ndr) sono ancora vietate le manifestazioni e i sit-in. Ogni domanda di autorizzazione viene sistematicamente rifiutata. Bisogna abrogare lo stato di emergenza, o il paese vivrà una vera esplosione sociale”.
Meziane Meriane, coordinatore del Syndicat National autonome des professeurs, ribadisce che lo stato d’emergenza limita le libertà e i diritti degli algerini, tra cui quelli sindacali. “In molti casi abbiamo indetto manifestazioni e sit-in, vietati in nome dello stato d’assedio. Siamo stati picchiati e trasferiti nei commissariati. Io penso che ogni cittadino abbia il dovere di chiedere l’abrogazione di questa legge, mantenuta dal 2001 per far fronte alla minaccia terrorista, ma che ora non ha più nessuna ragione di sussistere”. “Prendono le decisioni a nostro nome senza di noi e ci impediscono pure di esprimere pubblicamente il nostro rifiuto”, ha ribadito Lyes Merabet, presidente del sindacato autonomo del personale sanitario pubblico. Per Mohamed Djemma, membro del Mouvement pour la Societé et la Paix (MSP), “questa situazione è durata anche troppo e va a solo vantaggio del potere che se ne serve per mantenere la pressione sulla società civile. Il risultato è che le strade delle città restano vuote e i suoi elementi rappresentativi, volti ad inquadrare la società e a promuovere contestazioni pacifiche, sono stati falcidiati”. Il membro dell’MSP, pur facendo parte dell’alleanza presidenziale, ritiene infatti che questa situazione sia “una spada di Damocle che pesa sulla testa dei partiti e dei sindacati, i quali non possono esprimersi in piazza e per le strade come invece sarebbe loro diritto”.


“Non possiamo più parlare di stato d’assedio, ma di stato totalitario”
(El Watan, 19 gennaio 2011, Said Rabia)

Il sindacalista Mohamed Badaoui è stato arrestato per aver inviato degli sms che descrivevano la situazione all’interno del paese. Cosa pensa un uomo di diritto come lei sulla legalità dell’accesso al contenuto delle comunicazioni private e delle intercettazioni telefoniche?
Analizzare la situazione generale del paese, avere un proprio parere sugli eventi che succedono e far circolare le proprie idée sono dei diritti fondamentali. L’articolo 39 della Costituzione recita: “è garantito il segreto della corrispondenza e delle comunicazioni private”. Il problema dunque non sta nel testo, ma nel suo rispetto. In un paese come il nostro, dove la giustizia è portata ad applicare le istruzioni provenienti dai vertici invece della legge, il cittadino non ha alcuna garanzia.

Pensa che lo stato d’assedio possa costituire, per il potere, un argomento sufficiente a giustificare il ricorso ad una pratica simile?
Lo stato d’assedio può restringere alcune libertà nel quadro della lotta contro il terrorismo e solo per un corto periodo, ma non può, in ogni caso, intaccare le libertà fondamentali previste dalla Costituzione. Oggi non possiamo più parlare di stato d’assedio, ma di stato totalitario.

A quali conseguenze può portare una tale violazione nel contesto attuale, segnato dalle recenti manifestazioni in tutto il paese e da quanto sta accadendo in Tunisia?
Le violazioni delle libertà pubbliche (associazione, riunione, espressione) e dei diritti dell’uomo e del cittadino sono ormai una realtà da diverso tempo e, in assenza di garanzie come l’indipendenza della giustizia e la separazione dei poteri, possiamo attenderci il peggio.

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