La rivolta tunisina si è lasciata dietro le vestigia di un clan decadente. Reportage al centro delle rovine e degli ex voto, sulla scia della rivoluzione.
Sulla colonna di destra che regge il porticato in pietra c’è inciso Dar Bouazizi (“Casa Bouazizi”). Così i tunisini in rivolta hanno ribattezzato la villa di Moez Trabelsi, dopo averla saccheggiata. Passato l’ingresso, sotto l’arco a tutto sesto color salmone, un’altra scritta simile cattura subito lo sguardo: “riposa in pace Bouazizi”, in riferimento al giovane ambulante di Sidi Bouzid che si è immolato il 17 dicembre scorso cospargendosi il corpo di benzina. Da lì è cominciata la rivoluzione che ha portato poi alla fuga dell’ex presidente Ben Ali.
Una decina di tunisini incuriositi passeggiano all’interno della casa, (ex) proprietà di uno dei dieci fratelli di Leila Trabelsi, la premiere dame scappata a Jedda assieme al suo sposo. Passo dopo passo scoprono quel che resta di un impero decadente, toccando con mano il fasto in cui era immerso il clan al potere e leggendo con soddisfazione i messaggi impressi sulle pareti dai loro compatrioti. Sul muro di cinta che proteggeva la residenza dagli sguardi indiscreti di un popolo affamato di pane e libertà, una citazione dell’imam Ali (il quarto califfo, cugino e genero del profeta dell’islam) suona come un monito per i prossimi candidati dittatori: “se il tuo potere ti porta ad essere ingiusto con le genti, ricordati del potere che Dio ha su di te”.
In una camera al primo piano, forse quella di uno dei figli, giacciono a terra le pagine strappate di libri e quaderni. A prima vista si direbbero dei corsi di lingua cinese e di economia. Su una di esse, una parola in inglese e la sua definizione: “Reingennering: modifica radicale della natura dello stato e ridefinizione dei suoi processi operativi per ottenerne vantaggi spettacolari nelle performance”. Insomma, una definizione tecnica del defunto regime. Quando le banconote del Monopoli e la carta « via della pace » riemergono a completare il quadro (in mezzo a vetri rotti, pezzi di armadio e resti di contenitori fracassati) non si può far a meno di notare l’incredibile ironia della sorte. Così come, appena individuato tra le macerie la custodia del dvd Mamma ho perso l’aereo, il pensiero va a tutti quei membri della famiglia Trabelsi che non sono riusciti a prendere il volo. Mohamed Ben Kilani, pilota della TunisAir, è divenuto uno dei nuovi eroi nazionali per essersi rifiutato di partecipare alla fuga di alcuni parenti del clan dominante.
In tutto l’edificio le porte sono state scardinate, i lampadari strappati dai soffitti e le finestre ridotte in frantumi. L’indomani della partenza di Zine el Abidine Ben Ali, la famiglia del saccheggiatore è stata a sua volta saccheggiata. Quasi un bisogno espiativo. Alzando la testa, altri graffiti ricordano le antiche qualità, a tutti note, della reggente di Cartagine: “ehi Leila la parrucchiera (nel linguaggio corrente sinonimo di entraineuse) ridà i soldi agli orfanelli (Leila Trabelsi era presidente di un’associazione caritativa per il sostegno agli orfani)”.
A volte, per la rabbia, alcuni oggetti che potevano essere recuperati sono stati invece gettati via, come il materasso a due piazze in piuma d’oca che affiora dalla piscina o il climatizzatore smontato e fatto in mille pezzi. Sintomi di una frustrazione repressa per più di ventitre anni. A piano terra, non troppo distante dalla piscina, la lavanderia è stata messa a fuoco. I muri carbonizzati sono di nuovo serviti ad esprimere i sentimenti dei vendicatori: Vive la liberté, Trabelsi degage.
Passeggiata popolare
Sulle scale che portano al giardino c’è Choukri, un tunisino di una sessantina d’anni, berretto marrone e una giacca di pelle che gli conferiscono l’aspetto di un monello parigino tra le due guerre. Non sembra esaltato da quello che vede attorno a lui, ma riconosce che i devastatori non hanno fatto altro che “obbedire ad un sentimento di dovere popolare”. Camminando tra le rovine, ricorda che “tutta la famiglia era implicata nel controllo e nella gestione dell’economia del paese. Per esempio uno dei fratelli Trabelsi, Mohamed, faceva da intermediario per gli imprenditori edili. Ad ogni concessione esigeva commissioni stratosferiche”. Choukri parla anche di un evento che qualche hanno prima aveva profondamente scioccato il paese. Nel 2007 la Star Academy araba era di passaggio a Sfax. Per l’esibizione erano disponibili mille posti, ma ne furono venduti cinquemila. Nella calca agli ingressi morirono sette persone e centinaia rimasero ferite. Al tempo i media, sotto il rigido controllo di Ben Ali, si erano ben guardati dall’andare a chiedere spiegazioni agli organizzatori dell’evento. E a ragione, visto che la società promotrice era gestita da Houssem Trabelsi. Inutile dire che la sua villa, poco distante da quella del fratello Moez, ha subito la medesima sorte.
Mustapha, quarantanove anni originario del quartiere Ben Harous, esclama: « i nostri soldi, i nostri soldi ! », dando uno sguardo all’interno dell’abitazione. Conosceva vagamente l’ex proprietario, erano cresciuti nello stesso quartiere ma, dopo l’ascesa dei Trabelsi ai piani alti del potere, Moez lo salutava solo da lontano. Conosceva anche Adel Trabelsi, un insegnante morto di cancro pochi mesi fa. “Mohamed, suo figlio, aveva due Porche Cayenne!”, racconta Mustapha, che fu allievo di Adel prima che la sorella Leila sposasse Zine Ben Ali nel 1992. Una volta aveva chiesto aiuto all’ex professore per potersi comprare un piccolo terreno o un appartamento. “Adel mi aveva detto di ripassare, ma quando sono tornato a bussare alla sua porta le guardie del corpo mi hanno cacciato in malo modo”. E’ anche questo genere di umiliazioni che ha contribuito ad accendere i motori della collera.
Le inquietudini della borghesia tunisina
Il quartiere, nel cuore della nuova Cartagine, si chiama Salambo. Via Aristotele è un piccolo sentiero asfaltato che conduce direttamente alla spiaggia. Le famiglie Ferhat, Ferchichi e Bendiaf, il meglio della borghesia tunisina, risiedono da più di trent’anni in questo tranquillo angolo di paradiso. Tranquillo almeno fino alla caduta di Ben Ali. Il 15 gennaio decine di persone si sono presentate alla villa numero 21, proprietà di Jalila Trabelsi, sorella della matrona Leila. Non hanno suonato né hanno chiesto permesso. Prima di dar sfogo alla loro rabbia, l’hanno svuotata coscienziosamente. L’edificio non è monumentale, ma produce ugualmente il suo effetto. Dal primo piano ci si affaccia direttamente sulla baia di Tunisi. Dietro alla cancellata in ferro si vedono i resti di una macchina di lusso, distrutta e poi bruciata nella parte anteriore. Una scalinata in marmo collega con eleganza i due piani della casa, le stanze all’immenso salone di oltre cento metri quadrati disseminato di macerie. Su una delle pareti c’è una rientranza rettangolare, destinata ad accogliere un grande televisore a schermo piatto. Il genere di accessori che corrisponde ad un anno di stipendio del martire Mohamed Bouazizi, insultato e picchiato per essersi rifiutato di pagare una mazzetta di 20 dinari (circa 12 euro) all’agente di polizia Feyda Hamdi.
Poco dopo l’arrivo nei pressi della villa, ad una settimana dal saccheggio, cinque ragazzi appena entrati all’interno dell’abitazione appiccano il fuoco in una stanza del primo piano. Una colonna di fumo si spande velocemente per tutto il vicinato. Un francese in giacca e cravatta e scarpe lucide, sopraggiunto nel frattempo, esprime il suo disappunto: “Non è possibile, è la stessa storia ormai da giorni! A volte gettano rottami nel mio giardino e nella mia piscina”. Qualcuno tra i presenti “in gita turistica” gli risponde infastidito: “Sono i danni collaterali della rivolta. Anzi, i tunisini sono stati fin troppo disciplinati. Hanno risparmiato le case dei vicini”. Stizzito dalla replica immediata o forse preoccupato per le sue preziose calzature, l’uomo ben vestito se ne va mostrando una certa esasperazione.
Gli abitanti del quartiere, usciti dai loro rifugi e assiepati nel piccolo viale, osservano preoccupati la fumata nera che si fa largo tra le inferriate della finestra. “Domani scenderemo a Tunisi per manifestare contro questo caos. Abbiamo creato un gruppo Facebook e siamo già in molti”, informa una di loro, che poi precisa: “la parola d’ordine è «no alla distruzione della Tunisia»”. Intanto i cinque ragazzi, felici di aver dato il loro contributo, pur con qualche giorno di ritardo, se ne vanno beati così come erano venuti.
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