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sabato 12 febbraio 2011

Jilani Hamami, un sindacalista “dissidente” tunisino si racconta


TUNISI - Jilani Hamami, oltre ad aver ricoperto la carica di segretario generale dei funzionari PTT (federazione di categoria, posta e telecomunicazioni, che fa parte dell’Unione generale dei lavoratori tunisini - UGTT, ndr), è uno dei fondatori del Partito comunista dei lavoratori tunisini (PCOT). Sindacalista “dissidente” e oppositore politico durante il regime Ben Ali, Hamami parla delle connivenze tra l’UGTT e l’ex dittatore e racconta la sua lotta all’interno del sindacato di cui è membro ancora oggi.



Intervista a Jilani Hamami (Tunisi, 29 gennaio 2011)

Jacopo Granci: Nella sua storia di oppositore politico ha mai fatto l’esperienza della prigione?
Jilani Hamami: Si, due volte, nel 1984 e nel 1997. In entrambi i casi gli arresti non erano dovuti alla militanza politica, ma alla mia attività di sindacalista. La prima volta, nel 1984, avevo lanciato uno sciopero dei dipendenti della posta e del settore telecomunicazioni durato dieci giorni. Dieci giorni di paralisi, in cui gli uffici postali si sono fermati e lo Stato ha dovuto chiedere l’intervento dell’esercito per assicurare il servizio. Alla fine della protesta sono stato arrestato. Rischiavo una condanna a quattro anni di carcere ma, grazie al sostegno delle organizzazioni sindacali internazionali, le accuse sono state ritirate ed ho potuto lasciare la prigione dopo solo tre mesi, durante i quali non sono mai stato maltrattato.
Nel secondo caso, nel 1997, ero il rappresentante nazionale della federazione PTT e come tale membro della Commissione amministrativa dell’UGTT. Ero assolutamente contrario alla linea seguita dall’ufficio esecutivo. Il segretario di allora, Ismail Sahbani, stava pregiudicando l’attività del sindacato, gli sforzi fatti dalla sua base e dall’intero movimento democratico tunisino. Era talmente compromesso con il regime Ben Ali che lo chiamavamo “il ministro del lavoro”. In più non c’era trasparenza nella gestione delle risorse finanziarie dell’UGTT. Assieme ad altri sindacalisti stufi di questa situazione, abbiamo fatto circolare una petizione per chiedere un consiglio nazionale straordinario: volevamo che la direzione venisse sfiduciata. Ma Sahbani andò alla polizia e ci accusò di voler creare disordini nel paese attaccando una sua istituzione ufficiale e facendo circolare informazioni false sul suo conto. Fu ancora una volta l’intervento delle organizzazioni internazionali, non solo sindacali ma anche dei diritti umani, a bloccare il processo. Uscito di prigione dopo pochi mesi, mi sono comunque ritrovato senza lavoro e liquidato dal mio incarico di segretario nazionale della federazione PTT. C’è voluto uno sciopero della fame di fronte alla sede dell’UGTT, a cui si unì la mia famiglia, perché mi venisse procurato un altro impiego e mi venisse restituito il passaporto, di cui ero stato privato durante tutti gli anni novanta.

J. G.: In questo secondo arresto ha subito trattamenti speciali da parte della polizia?
J. H.: No, non ne avevano motivo. Ci siamo assunti la nostra responsabilità e non abbiamo mai negato di aver fatto circolare la petizione. Al contrario difendevamo apertamente il nostro punto di vista, quindi non c’era bisogno di maltrattamenti o torture per arrivare ad una confessione. Era un problema interno al sindacato, la polizia non c’entrava niente. Ma del resto durante tutto il regime Ben Ali l’UGTT, come alcuni partiti di presunta opposizione, ha svolto un ruolo fondamentale nel soffocare ogni esigenza di cambiamento e nel garantire la stabilità del paese e la pace sociale tanto celebrata dall’ex dittatore.

J. G.: Nonostante ciò lei fa ancora parte dell’UGTT?
J. H.: Sì, sono ancora membro dell’UGTT. Ma questo non vuol dire che approvi le scelte dei suoi vertici. All’interno della centrale sindacale ci sono molte federazioni di categoria e circoscrizioni regionali che restano tuttora dissidenti rispetto all’ufficio esecutivo. E poi ci sono le rappresentanze politiche, come lo stesso PCOT o il partito nazionalista, e i singoli attivisti indipendenti, che cercano di fare pressione per un cambiamento. Le faccio subito un esempio. Nel luglio 2010 abbiamo creato la Charte syndicaliste democratique et militante, un documento redatto da chi, come me, vuole chiudere i conti con una gestione benaliana e mafiosa del sindacato. Una gestione profondamente antidemocratica, che ha sempre escluso gli esponenti più progressisti dai suoi vertici.

J. G.: Quali reazioni sono seguite alla vostra iniziativa?
J. H.: La polizia ha iniziato la persecuzione fin dal mese di agosto. Siamo stati messi sotto sorveglianza. Pedinamenti continui durante tutta la giornata, auto ferme di fronte alla porta di casa durante la notte. Il telefono sotto controllo, come pure la posta elettronica. Un sistema pensato apposta per seminare il panico e fare il vuoto attorno a te. In questo modo nessuno ha voglia di chiamarti o di farti visita. A fine mese, mi hanno portato in commissariato con la scusa di aver provocato un incidente. In realtà ero io ad essere stato tamponato. Mi hanno tenuto dentro ventiquattrore e poi mi hanno lasciato andare senza accuse. Tutto ciò per impedirmi di partecipare ad una riunione clandestina dei fondatori della Charte prevista quel giorno. Ad ottobre sono stato convocato di nuovo in commissariato: la polizia voleva costringermi a firmare un verbale in cui dichiaravo di far parte di un’organizzazione illegale. Ho saputo poi che era stata la direzione centrale del sindacato a dare le informazioni alla polizia. I gran capi cominciavano a temere che la nostra iniziativa riscuotesse troppo successo all’interno dell’UGTT e così ci hanno venduti.

J. G.: Dopo la rivoluzione i vertici dell’UGTT sono cambiati o sono sempre gli stessi?
J. H.: Sono sempre gli stessi. Prima della caduta di Ben Ali era previsto un congresso straordinario non elettivo che avrebbe cambiato lo statuto per permettere ai rappresentanti nazionali di potersi ricandidare alla guida del sindacato (il congresso elettivo era previsto nel dicembre 2011). Noi, promotori della Carta, ci eravamo opposti. Ora la situazione è diversa, o almeno sembra. La vecchia guardia è sulla difensiva, perché sa che non può più costringere i membri del sindacato ad assecondarla con le minacce, come aveva sempre fatto in passato. La base dell’UGTT ha rialzato la testa e non ha più paura dell’ufficio esecutivo. Credo che il prossimo congresso, dove si eleggeranno le nuove istanze, sarà decisivo per la credibilità e forse la stessa sopravvivenza del sindacato.

J. G.: Qual è la posizione dell’UGTT rispetto al governo di transizione?
J. H.: Prima di tutto, bisogna distinguere tra la “posizione ufficiale” diffusa dai media e la “posizione reale”. Proprio in questi giorni i vertici dell’UGTT hanno fatto un gioco sporco. Il segretario generale Jrad ha accettato il patto propostogli dall’attuale presidente ad interim Fouad Menbazaa senza avere l’appoggio della Commissione amministrativa (l’organo con rappresentanze più estese), come invece prevede lo statuto. Hanno sciolto il governo per cercare di fermare le proteste, ma a condizione di conservare nella nuova formazione il premier Mohamed Ghannouchi e altri tre ministri in carica. Formalmente la stampa nazionale ha dichiarato che l’UGTT sostiene il nuovo governo di transizione, ma in realtà all’interno del sindacato ci sono posizioni diverse e la maggior parte della Commissione non è d’accordo né con il segretario Jrad, né con il nuovo esecutivo Ghannouchi. Molti dei membri dell’UGTT hanno continuato la protesta e sono rimasti alla casbah assieme alla “carovana” fino a ieri (28 gennaio, giorno dello sgombero violento eseguito dalla polizia, ndr). Hanno perfino assistito alla morte di tre persone durante le cariche dei poliziotti.

J. G.: E il suo partito cosa pensa del governo Ghannouchi?
J. H.: Il governo Ghannouchi non ha alcuna legittimità e sta facendo ben poco per ingraziarsi il sostegno della popolazione. Nella nuova formazione, fresca di nomina, ci sono ancora membri dei vecchi clan di potere. Per esempio il ministro dell’Interno Ferhat Rajhi è un giudice, ex RCD, conosciuto nel foro per la sua corruzione. Non abbiamo la minima fiducia in questi loschi personaggi.

J. G.: Quali sono ora le priorità per il PCOT?
J. H.: In questo momento, il primo passo da compiere è la dissoluzione dell’RCD, un partito a struttura e vocazione chiaramente fascista. Poi si deve aprire un confronto tra tutte le parti politiche e sociali per la creazione di una costituente, che lavori in parallelo ad un governo provvisorio ripulito, per riformare la legislazione del paese. Questa non è solo la posizione del PCOT, ma di un’intera coalizione di forze democratiche riunita sotto il nome di Fronte 14 gennaio, di cui fanno parte i partiti di sinistra, i nazionalisti, alcune frange dell’UGTT e le organizzazioni della società civile (Lega tunisina per i diritti umani, Movimento per la dignità popolare, l’associazione Femmes democrates, la Lega degli scrittori liberi e l’associazione contro la tortura).

J. G.: Può riassumermi brevemente la storia del suo partito sotto il regime Ben Ali?
J. H.: Il partito è stato creato il 3 gennaio 1986, per commemorare il sollevamento del popolo tunisino avvenuto due anni prima, la “rivolta del pane” (gennaio 1984). Il presidente era ancora Habib Bourghiba. Da allora, la formazione non è mai stata riconosciuta dal regime e formalmente resta ad oggi illegale. Nel 1988, anno della finta apertura al pluralismo di Ben Ali, avevamo chiesto la legalizzazione, ma ci è stata rifiutata. L’anno dopo, in seguito al successo ottenuto da Annadha nelle elezioni, fu votata una nuova legge sui partiti e da quel momento è stata la chiusura totale dello spazio politico, seguita nei primi anni novanta dagli arresti e dall’inizio della repressione fisica dei nostri militanti. Circa trecento attivisti sono finiti in carcere tra il 1990 e il 1991. Dopo Annadha, il PCOT è la formazione politica che più ha sofferto per la guerra dichiarata da Ben Ali all’opposizione.

J. G.: Ha citato l’esempio di Annadha. Anche il quadri del PCOT, come quelli del partito islamista, sono scappati all’estero per sfuggire alla repressione?
J. H.: No, la nostra è stata una scelta politica cosciente. Abbiamo deciso di non lasciare il paese, anche se obbligati, in alcuni casi, a passare alla clandestinità o a finire in prigione. Samir per esempio (un membro della Gioventù comunista seduto al nostro tavolo, ndr) si è nascosto per tre anni prima di essere arrestato dalla polizia nel 2002. Per la sua attività politica all’università è stato condannato a nove anni di carcere, assieme al segretario del PCOT Hamma Hamami, ma ne ha scontato solo uno e poi è stato liberato.

J. G.: Lei prima ha parlato di “partiti di presunta opposizione”. Si riferiva per caso a Attajdid? Qual è la sua posizione rispetto “ai compagni” che fanno parte ora dell’esecutivo di transizione?
J. H.: Attajdid non è un partito di sinistra, del resto non ne ha conservato neanche il nome. Sono i riciclati del vecchio Partito comunista tunisino, ribattezzato Attajdid dopo la caduta del blocco sovietico, che hanno cancellato ogni riferimento al quadro ideologico socialista e si sono tacitamente alleati al sistema Ben Ali. Il vecchio segretario, Mohamed Harbal, era puntualmente inviato al Parlamento europeo per difendere il regime dalle accuse di violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali che gli erano rivolte. Faceva il gioco del dittatore dicendo: “le vostre critiche all’indirizzo della Tunisia sono infondate dal momento che io, esponente di un partito di opposizione, sono qui oggi a parlarvi”. Attajdid si è riavvicinata al movimento democratico tunisino soltanto dopo il congresso del 2007 che ha sostituito la vecchia direzione ed ha nominato Ibrahim segretario. Ciò nonostante, erano il solo partito non-RCD ad essere presente in parlamento, il che fa pensare dal momento che nella Tunisia di Ben Ali non erano le elezioni a garantire l’accesso all’assemblea, ma la volontà del regime, che arrivava perfino a decidere i singoli individui da eleggere.

J. G.: Cosa pensa invece della partecipazione di Annadha al dibattito politico che sembra si stia aprendo nel paese?
J. H.: Annadha ha conosciuto nella sua storia due fasi differenti. Nel primo periodo era dichiaratamente antidemocratica e proponeva un governo islamico impostato sui principi della sharia. Nella seconda fase, dopo le repressioni subite durante gli anni ottanta, la formazione di Rachid Ghannouchi ha modificato strategia e obiettivi, aderendo poco a poco al panorama di resistenza democratica, senza rinunciare alle prerogative islamiche. Un passaggio che è stato sancito ufficialmente nell’VIII congresso del partito tenutosi a Londra nel 1998. Al suo interno permangono fazioni differenti, alcune moderate e altre più radicali, tuttavia Annadha ha aderito alla piattaforma di rivendicazioni democratiche promossa dal Movimento 18 ottobre.

J. G.: A cosa si riferisce?
J. H.: Nel 2005 si è tenuto a Tunisi il Summit mondiale della comunicazione, una beffa enorme vista la totale violazione della libertà di espressione nel paese. A margine del congresso, una decina di attivisti del movimento democratico, tra cui Hamma Hamami del PCOT, Najib Chebbi del PDP (Partito dei democratici progressisti), alcuni membri di Annadha e altri indipendenti, hanno indetto uno sciopero della fame che ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Dopo la protesta, che è durata circa venti giorni, si è deciso di formare una sorta di coalizione, chiamata appunto Movimento 18 ottobre, per chiedere il riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali in Tunisia. Allo stesso tempo, all’interno della coalizione, è stato aperto un dibattito sulle priorità da seguire per avviare il cambiamento democratico del paese. La piattaforma che ne è uscita, condivisa da Annadha, riconosce la necessità di dissociare lo Stato dalla religione, dunque il principio di laicità, come fondamento per la democrazia. Ma il movimento ha avuto vita breve. Spariti i riflettori internazionali, la polizia di Ben Ali ha riacquisito la piena libertà delle sue funzioni e le discussioni si sono interrotte.

J. G.: Annadha possiede, a suo avviso, piena legittimità politica?
J. H.: Certamente. Rappresenta una parte dell’opinione pubblica nazionale e della società tunisina, sarebbe quindi sbagliato non prenderla  in considerazione. Una volta intrapreso il cammino democratico, la libertà di espressione e di partecipazione deve essere riconosciuta a tutti, indipendentemente dall’ideologia politica professata. Nel 1991, quando iniziarono gli arresti nei confronti dei membri di Annadha, io e i compagni di partito ci opponemmo e denunciammo la miopia della politica repressiva attuata dal governo e sostenuta da alcune forze di opposizione. Il popolo ha il diritto di scegliere liberamente.

J. G.: Dunque per lei, militante laico e comunista, Annadha non rappresenta una minaccia?
J. H.: Io credo che se il popolo tunisino arriverà a vivere una vera democrazia, non si lascerà mai convincere dalle tesi politico-religiose di Annadha. Se invece si continuerà ad escludere Annadha e a reprimerla, non faremo che aumentare la sua forza e la simpatia riscossa tra la popolazione. La libertà e la democrazia, la partecipazione alla vita politica è il miglior mezzo per impedire che il partito di Ghannouchi faccia il vuoto nel paese. Certo, i mezzi finanziari e il sostegno che hanno ora gli permetteranno di ottenere un buon risultato in caso di elezioni regolari. Ma questo sarà solo un riflesso momentaneo, dovuto anche alla legittimità acquisita in passato dal movimento. Il popolo tunisino non è fondamentalista. E’ un popolo credente, ma aperto. Ha ben ancorati in sé i valori della laicità e della parità uomo-donna. Nell’associazione Fammes democrates, per esempio, ci sono molte donne velate che fanno la preghiera cinque volte al giorno. Nessuna tra loro sarebbe mai disposte a votare per Annadha.

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