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sabato 16 luglio 2011

“L’amazigh non è solo una lingua, ma un sistema di valori laici e democratici”

In Marocco il movimento berbero prende atto degli avanzamenti offerti dalla nuova costituzione, tra cui il riconoscimento ufficiale del tamazight, ma non abbandona il fronte delle contestazioni.

Tangeri, 3 luglio 2011


RABAT – Tra i primi a rispondere all’appello del “20 febbraio”, il movimento amazigh ha avuto un impatto considerevole nelle mobilitazioni che da quasi cinque mesi a questa parte, domenica dopo domenica, spingono migliaia di persone a scendere in strada, nelle principali città del regno, per chiedere il passaggio ad uno Stato democratico, la fine dell’assolutismo monarchico e il rispetto della dignità dei cittadini. Le bandiere giallo-verde-blu hanno sventolato a Tangeri, Tetuan, Errachidia, Agadir e perfino a Rabat e Casablanca, mentre nelle regioni dell’interno a maggioranza berberofona (Rif, Suss, Orientale, Medio e Alto Atlante) anche i piccoli villaggi hanno alzato la testa per denunciare gli abusi delle autorità locali e la mancanza di infrastrutture primarie – scuole e ospedali all’occorrenza (per saperne di più vai all’articolo “Breve saggio sulla storia del movimento amazigh in Marocco”).

Rabat, 20 marzo 2011

La nuova costituzione, voluta dal sovrano e approvata lo scorso 1° luglio, ha riconosciuto l’idioma berbero come lingua ufficiale e la cultura amazigh come componente di un’identità nazionale non più esclusivamente arabo-musulmana, accogliendo in questo modo le rivendicazioni di base del movimento. Tuttavia, il tentativo del regime di dividere il fronte della contestazione sembra essere fallito. Gli attivisti berberi – nella quasi totalità dei casi – hanno rigettato la nuova carta e si dicono pronti a continuare le proteste (prossimo appuntamento domenica 17 luglio). Perché? Il motivo ce lo spiega Ahmed Assid, docente di filosofia all’Università di Rabat fino al 2002 e da dieci anni ricercatore all’IRCAM (l’Institut royal pour la culture amazigh, di cui è stato uno dei fondatori nel 2001). Il professor Assid, intellettuale riconosciuto ben oltre i confini nazionali, è autore di alcune opere di riferimento sul tema della berberità (Culture et identité au Maroc contemporain, L’amazighité dans le discours de l’islam politique) e dal 2006 dirige l’Osservatorio amazigh per i diritti e le libertà.


SCHEDA INTRODUTTIVA: l’amazigh nella nuova costituzione marocchina.
Dal Preambolo: “[…] il Regno del Marocco intende preservare, nella sua pienezza e diversità, la propria identità nazionale, una e indivisibile, […] forgiata attraverso la convergenza delle sue componenti arabo-islamica, amazigh e saharo-hassani”.
Dall’art. 5: “L’arabo rimane la lingua ufficiale dello Stato. Lo Stato si impegna alla protezione e allo sviluppo della lingua araba, oltre che alla promozione del suo utilizzo. Anche l’amazigh costituisce una lingua ufficiale dello Stato, in quanto patrimonio comune di tutti i marocchini senza eccezioni. Una legge organica definisce il processo di attuazione del carattere ufficiale di questa lingua, come pure le modalità della sua integrazione nell’insegnamento e negli aspetti prioritari della vita pubblica […]”.


Intervista ad Ahmed Assid (Rabat, 11 luglio 2011)


Qual è stata la reazione del movimento amazigh alla presentazione della nuova costituzione sottoposta a referendum lo scorso 1° luglio?
Il movimento amazigh è un’entità eterogenea che accoglie al suo interno centinaia di associazioni – alcune a carattere nazionale, la maggior parte a vocazione locale – oltre agli attivisti indipendenti. Di conseguenza anche le posizioni assunte dagli attori del movimento sono eterogenee. In merito alla nuova costituzione ci sono state tre reazioni distinte. La prima, largamente maggioritaria, ha sostenuto il boicottaggio del referendum. E’ questo il caso dell’Osservatorio amazigh per i diritti e libertà, di Tamaynout (la più grande associazione berbera marocchina per numero di aderenti, ndr), della coordinazione Tafsut guidata da Azetta (che riunisce 309 associazioni) e di Amiafa, la coordinazione delle associazioni amazigh del Marocco centrale. Invece le organizzazioni più moderate, come l’AMREC (Associazione marocchina per la ricerca e gli scambi culturali, prima associazione berbera fondata nel 1967, ndr), hanno fatto campagna per il “sì”. Infine c’è stata una terza attitudine, quella tenuta ad esempio dal Congres Mondial Amazigh, dalle coordinazioni del Suss e del Rif, che hanno espresso soddisfazione per il riconoscimento ufficiale del tamazight (la lingua berbera) senza nascondere le critiche al nuovo testo. Nei loro comunicati, tuttavia, non si sono espresse né per il “sì” né per il boicottaggio del referendum.

Quali sono le critiche che l’Osservatorio da lei diretto ha avanzato nei confronti del nuovo testo?
Prima di rispondere alla sua domanda vorrei fare chiarezza su un punto fondamentale. Il nostro atteggiamento, fortemente negativo nei confronti della nuova costituzione, fa riferimento al testo presentato ufficialmente la sera del 17 giugno (a margine del discorso del sovrano) e non al lavoro della commissione Mannouni che, pur essendo stata scelta secondo una logica anti-democratica, aveva redatto una carta molto più avanzata rispetto alla versione finale sottoposta a referendum. Purtroppo quel testo – dove per esempio era riconosciuta “la responsabilità dello Stato nella protezione del pluralismo religioso” e “la libertà di coscienza dei cittadini” – è stato snaturato dall’intervento del consigliere reale Moatassim, che in 48 ore e con l’appoggio delle forze politiche più conservatrici ne ha rivisto arbitrariamente il contenuto per ricevere il via libera del Palazzo. Per questo Mannouni si è rifiutato di leggerlo pubblicamente, disconoscendone così la paternità, ed è stato il consigliere di Mohammed VI a presentarlo ufficialmente il 17 giugno scorso.

Quella che lei definisce una “revisione di Palazzo” ha interessato anche le parti della nuova costituzione dedicate al riconoscimento dell’amazigh?
Sì. Nel preambolo, dove si fa riferimento all’edificazione dell’identità nazionale, la componente amazigh veniva prima di quella arabo-islamica. La commissione Mannouni aveva rispettato la cronologia storica, che documenta la presenza millenaria degli imazighen (plurale di amazigh, ndr) nell’attuale territorio marocchino, mentre l’arrivo degli arabi è datato alla fine del settimo secolo dell’era cristiana. Il testo uscito da Palazzo ha ribadito invece la preminenza della umma arabo islamica sui valori ancestrali di appartenenza all’africanità, di cui la berberità è il simbolo.
Altro esempio è il famoso articolo 5 della costituzione. Sia chiaro, la costituzionalizzazione della lingua amazigh come idioma ufficiale è un traguardo importante, che premia i sacrifici di generazioni di militanti a sostegno della causa berbera. Tuttavia, la formulazione scelta per questo articolo è ambigua e lascia spazio ad interpretazioni pericolose. Nella prima versione, la lingua araba e quella berbera erano inserite nella stessa frase, considerate entrambe lingue ufficiali a pari titolo. Dopo la revisione operata da Moatassim, l’arabo e l’amazigh sono finiti in due paragrafi distinti, dove il secondo resta gerarchicamente subordinato al primo. Il partito arabo-nazionalista dell’Istiqlal (del primo ministro Abbas El Fassi) ha imposto una menzione separata per la lingua araba, di cui lo Stato promuove la tutela e l’utilizzo, e che resta in una posizione di preminenza rispetto all’amazigh. A conti fatti, è come se venissero separati i marocchini di prima classe (arabofoni) da quelli di seconda classe (berberofoni).
Sempre nell’articolo 5, si fa riferimento ad una legge organica (che deve essere votata dai 2/3 del parlamento, ndr) per decidere le modalità con cui la lingua amazigh sarà integrata nei sistemi di insegnamento e nella vita pubblica dello Stato. Questo significa che bisognerà ripartire da capo? L’ingresso del tamazight nei programmi di istruzione, la redazione dei manuali scolastici e la metodologia di insegnamento, sono già stati decisi nel 2002 (con gli accordi tra l’IRCAM e il Ministero) e sono praticati ormai da dieci anni. La scelta della grafia tifinagh per la standardizzazione della lingua è ufficiale dal 2004. Sono acquisizioni storiche che non siamo disposti a rimettere in discussione. L’atteggiamento dei due grandi partiti rimasti ostili alla berberità del Marocco, l’Istiqlal e il PJD (Partito della giustizia e dello sviluppo, formazione islamica vicino al regime), punta a scardinare il lavoro fatto all’IRCAM, ingente e allo stesso tempo fragile, poiché necessita ancora di garanzie giuridiche. La legge organica menzionata all’art. 5 deve essere l’occasione per fornire protezione e riconoscimento legale a questi dieci anni di conquiste sul piano linguistico e culturale, ma la nuova costituzione non prende nemmeno in considerazione l’operato dell’IRCAM. L’Istiqlal e il PJD, che evidentemente godono delle grazie del monarca nella loro crociata per arginare le anime progressiste, hanno rialzato la testa e cercheranno in tutti i modi di imporre la loro visione in parlamento. Il loro grande obiettivo è di bloccare l’utilizzo del tifinagh, vogliono costringere gli imazighen a scrivere la loro lingua con le lettere arabe. Ma il tifinagh non è soltanto un alfabeto per scrivere, è parte integrante dell’identità amazigh, sopravvissuta a secoli di arabizzazione forzata. I suoi caratteri, a lungo vietati in Marocco (conservati però dalle tribù tuareg del deserto), hanno lasciato tracce nella nostra stessa quotidianità (per esempio nell’artigianato berbero e nelle decorazioni dei villaggi).

Lei stesso ha definito “un traguardo importante” il riconoscimento del tamazight come lingua ufficiale nella costituzione. Tra l’altro era una delle rivendicazioni prioritarie elencate nella Charte d’Agadir (1991) e nel Manifeste amazigh (2000). Perché allora rinunciare a questo traguardo e sostenere il boicottaggio del referendum?
La nostra posizione, come Osservatorio e come movimento amazigh nella sua globalità (fatta eccezione per le associazioni più conservatrici come l’AMREC), era chiara fin dall’inizio. La nostra lotta non si limita al riconoscimento della lingua ma abbraccia rivendicazioni sociali e politiche ben precise, prima fra tutte il passaggio ad una costituzione democratica. Evidentemente non è questo il caso della carta sottoposta a referendum lo scorso 1° luglio. L’amazigh non è solo una lingua diversa dall’arabo ma un sistema di valori, in netto contrasto con la cultura dispotica veicolata dal makhzen (potere centrale, ndr). Quella berbera è prima di tutto una cultura laica, che ha sempre distinto gli affari terrestri da quelli celesti. Prima dell’arrivo dei francesi, mentre nell’area della capitale controllata dal sultano alawita veniva applicata la shari’a, la legge religiosa, nelle regioni amministrate dalle tribù amazigh era in vigore un sistema di diritto (consuetudinario) laico, che proibiva le pene corporali. Pur essendo musulmani, gli imazighen non permettevano agli imam di partecipare ai consigli di comunità. Il loro posto era la moschea, ad occuparsi della spiritualità e delle questioni di fede.
Per noi il concetto di laicità è strettamente legato alla democrazia. L’alternativa alla laicità è lo Stato religioso, la privazione della libertà di coscienza e la strumentalizzazione della fede per scopi politici. In questo senso la nuova costituzione non apporta nessun cambiamento rispetto al passato. La monarchia ha fatto ricorso ancora una volta alla legittimazione religiosa, dimostrando di temere il passaggio alla legittimazione democratica. Speravamo che nel 2011 le regole del gioco potessero cambiare…

Quando parla di legittimazione religiosa fa riferimento all’articolo 41 del nuovo testo?
Sì, e anche in questo caso l’intervento del consigliere reale Moatassim ha dato i suoi frutti. Gli articoli 41 e 42 sono stati invertiti durante la revisione di Palazzo. Nella versione originale, l’art. 41 riconosceva la figura del re come un Capo di Stato moderno, mentre il 42 gli attribuiva le facoltà religiose di Amir Al Mouminine. L’ordine era in sé significativo, prima un riconoscimento basato sui canoni giuridici della modernità, quella in cui il regime afferma a parole di volersi inscrivere, e poi il riferimento ad un titolo di derivazione arcaica, quale il Comandante dei credenti. Se tale ordine è stato invertito significa che la monarchia, perfino in questi “dettagli”, vuole rimanere ben ancorata al tradizionalismo da cui trae il suo potere assoluto, come testimoniano i frequenti richiami alle costanti religiose del regno, inseriti nel testo in un secondo momento.
E’ la dimostrazione che il trono alawita insiste nell’utilizzo della religione come strumento di potere politico. Quindi, siamo ancora ben lontani dalla modernità. Le faccio un esempio: nel preambolo della costituzione viene affermata la prevalenza delle convenzioni internazionali sul diritto interno del regno, nel rispetto però “della sua identità immutabile”. Prima di tutto quest’affermazione è un controsenso, una contraddizione in sé. E poi, che cosa significa? Significa che in nome della specificità religiosa del paese e del corollario di poteri che ne deriva, il sovrano continuerà a prendersi gioco della democrazia e a dosare le libertà e i diritti a suo piacimento (l’abbiamo visto anche durante la campagna elettorale, quando si è servito del Corano, degli imam e perfino delle confraternite sufi per sostenere il sì al referendum).

In Marocco la question amazighe è rimasta tabù fino agli anno ’90. Hassan II non era disposto a mettere in discussione l’uniformità arabo-islamica su cui aveva fondato il suo regno. Con Mohammed VI il contesto è cambiato: nel discorso di Ajdir (ottobre 2011) ha riconosciuto l’importanza dell’identità berbera e ha promosso la creazione dell’IRCAM, spianando la strada all’ufficializzazione del tamazight. Il movimento amazigh non si sente in qualche modo “debitore” nei confronti del monarca?
Le nostre conquiste non sono soltanto frutto della strategia politica intrapresa dal Palazzo nell’ultimo decennio, piuttosto sono il risultato di un nuovo rapporto di forza che si è venuto a creare tra il regime e una parte della popolazione. Mohammed VI, salito al trono nel 1999, aveva bisogno di testare la sua legittimità e portava con sé una vera speranza di cambiamento (eravamo in pieno “governo d’alternanza”, con un ex oppositore socialista nel ruolo di primo ministro). In più, il movimento amazigh stava vivendo un periodo di grande vitalità. Uscito allo scoperto negli anni novanta, con la redazione del Manifeste amazigh era riuscito ad abbattere definitivamente il tabù della berberità ed ad avere un eco nelle alte sfere politiche del regno.
Al tempo la nostra posizione stava diventando sempre più radicale: ci presentavamo di fronte alle istanze internazionali come un popolo senza Stato, eravamo pronti a “cabilizzare” la lotta amazigh in Marocco, boicottando la lingua araba e tutte le istituzioni che la veicolano. Il nostro leader storico Mohamed Chafik stava preparando un grande appello a tawada, una marcia pacifica di tutti gli imazighen su Rabat. Il discorso di Ajdir e la conseguente creazione dell’IRCAM è stata una reazione obbligata da parte del Palazzo per frenare il consolidamento di un nuovo fronte di contestazione (dopo quello marxista degli anni ’70 e quello islamico degli anni ’80) e per evitare lo scontro aperto.
I traguardi raggiunti li abbiamo strappati lottando giorno dopo giorno, inserendoci nei dibattiti pubblici, difendendo le nostre idee nei media e nella stampa. Deve sapere che negli ultimi tre mesi le associazioni amazigh sono arrivate a condizionare i lavori della commissione Mannouni. Hanno convinto la maggioranza dei partiti e delle organizzazioni della società civile (che hanno presentato le proposte di revisione della costituzione) ad appoggiare l’ufficializzazione della lingua berbera. Di conseguenza, non siamo di fronte ad una concessione di sua maestà. La prova, come le dicevo poco fa, è che certi ambienti di Palazzo hanno già dato il via libera ai cani da guardia dell’arabo-islamismo. La monarchia apre e chiude le porte a seconda della convenienza.

Il suo Osservatorio, come la gran parte degli attivisti amazigh, si è schierato a sostegno del Movimento 20 febbraio. Perché?
Perché la causa amazigh non è una lotta di razziale o etnica, è una causa nazionale a cui contribuiscono tutte le forze democratiche. Questo i giovani del “20 febbraio” l’hanno capito subito. I loro slogan e le loro rivendicazioni sono in perfetta sintonia con la nostra piattaforma. L’Osservatorio è membro del Consiglio nazionale di appoggio al movimento (CNAM) e partecipa alle manifestazioni. Sul piano intellettuale, abbiamo contribuito alla dinamica di protesta con la pubblicazione di un breve testo, l’Appel “Timmouzgha” pour la democratie, dove ribadiamo il legame profondo tra il movimento amazigh e la primavera marocchina.
Ci troviamo di fronte ad un contesto sociale e politico del tutto nuovo nella storia del nostro paese e dobbiamo approfittarne. Per la prima volta si è iniziato a discutere liberamente, a criticare e a reclamare diritti senza più paure. Perfino il ruolo della monarchia è stato messo apertamente in discussione, sono stati scanditi slogan contro la fortuna economica accumulata dal re (di cui nemmeno il parlamento ha la facoltà di dibattere), una cosa impensabile fino a pochi mesi fa. Anche le categorie più marginalizzate, o quelle che hanno sempre avuto timore ad alzare la voce, sono scese in piazza a manifestare. Per esempio gli abitanti (berberofoni) di Tafraout (Anti Atlante), dove la holding reale sta saccheggiando le miniere d’oro presenti nella zona lasciando in contropartita siccità e l’inquinamento delle falde acquifere.
La grande vittoria del “20 febbraio” non è la riforma della costituzione, ma l’apertura di un nuovo spazio di libertà, punto di partenza per la realizzazione di un vero cambiamento. Solo superando la paura il popolo potrà acquisire una coscienza “cittadina”, per questo bisogna rendere merito alla pressione costante esercitata dal movimento sulle autorità. Il passaggio innescato a partire dal febbraio scorso è a mio avviso irreversibile e segna la fine dei tabù e delle linee rosse.

Poco fa lei parlava della laicità come cardine della cultura amazigh e come base irrinunciabile per la democrazia. Non c’è nessun contrasto in proposito con le altre componenti che sostengono il “20 febbraio”? Penso agli islamici di Giustizia e Carità, più che alle organizzazioni della sinistra radicale…
Con i partiti di tradizione marxista, come il PSU o Annahj Addimocrati, non abbiamo alcun problema, sono i nostri alleati da tempo – ben prima del “20 febbraio” – sia nella rivendicazione della laicità dello Stato che dell’identità berbera. Il partito Annahj è stata la prima formazione politica a sostenere l’ufficializzazione della lingua amazigh, una rivendicazione che compare nel loro statuto già dal congresso fondativo. Per quanto riguarda l’associazione islamica Giustizia e Carità è vero che le nostre visioni di fondo sono divergenti. Ma è proprio questo il momento di mettere le divisioni e i conflitti alle spalle. L’importanza della congiuntura storica ce lo impone ed è quello che abbiamo fatto. Gli attivisti amazigh, gli eredi della sinistra marxista, gli altermondialisti e i militanti islamisti, vale a dire le forze di mobilitazione sociale che si oppongono al regime, marciano assieme e gridano gli stessi slogan. Il makhzen e la sua logica autoritaria sono il nemico che ci unisce, abbatterlo è una priorità per tutti noi. Questa è una lezione che abbiamo appreso dagli amici egiziani. Giustizia e Carità, per accodarsi alla scia del “20 febbraio”, ha pubblicato un appello ai suoi militanti intitolato “Prima che sia troppo tardi”. Nel testo vengono messe in rilievo soltanto le rivendicazioni che uniscono l’associazione alle altre componenti democratiche del movimento. Nessun richiamo allo Stato islamico né alla religione. L’ideologia del fondatore Abdessalam Yassine, che ha isolato per trent’anni la più forte e radicata organizzazione politica del paese, è stata messa temporaneamente da parte. L’atteggiamento adottato da Giustizia e Carità dopo il “20 febbraio” è indubbiamente pragmatico: hanno accantonato i vecchi progetti per conquistare alleati. Hanno perfino appoggiato la lotta per il riconoscimento dell’identità amazigh, quando fino a poco tempo fa erano dichiaratamente ostili. Noi ne siamo coscienti, ma preferiamo che continuino a manifestare al nostro fianco. Gettate le basi per uno Stato democratico, riprenderemo il confronto.

Molti osservatori o analisti in genere, ritengono che l’unica possibilità di sopravvivenza per il “20 febbraio” sia l’ingresso nell’arena politica. Lei è d’accordo?
No, l’ingresso nell’arena politica è il solo modo per ucciderlo, come è successo con le vecchie formazioni di opposizione. Del resto la cooptazione e l’assorbimento nel sistema, attraverso la corruzione e il clientelismo, è l’arma che ha reso possibile la conservazione dell’autocrazia alawita. L’unico modo di sopravvivere è continuare a scendere in piazza, anche solo una volta al mese. La legislazione nazionale, costituzione compresa, non offre vere garanzie democratiche. Di conseguenza bisogna rimanere vigili e attivi per mantenere lo spazio di libertà che ci siamo conquistati. Da una parte il movimento continua a risvegliare le coscienze, nell’obiettivo di ottenere una mobilitazione ancor più numerosa per cambiare il sistema dalla base. Nuove voci si uniscono al coro, lo abbiamo visto in questi ultimi giorni, con le rivolte a Khouribga e a Youssoufia. Se, nella peggiore delle ipotesi, i numeri restano gli stessi, avremo comunque una dinamica positiva che disturba le manovre di Palazzo. In questo senso la storia può insegnarci molto: ogni volta che il makhzen, dopo una situazione di crisi, recupera la sua forza e si sente al sicuro dalle contestazioni ricomincia gli abusi e le violazioni. Le manifestazioni restano l’unica garanzia democratica.
In ogni caso, in Marocco, non sono più i partiti a fare politica, ma le forze vive che operano all’interno della società, a stretto contatto con la popolazione. I primi cercano privilegi da spartire e sono ormai delle élite autoreferenziali, i secondi lavorano per riuscire a cambiare la mentalità della gente e i comportamenti. Non sono solo i testi e le leggi a dover essere democratici (oltre che applicati), ma il nostro stesso spirito, le nostre esigenze. Dobbiamo innescare una nuova dinamica sociale che possa portare alla rottura del binomio suddito-governante su cui continua a sopravvivere il regime.

Su quali aspetti in particolare si concentrerà la contestazione nei prossimi mesi?
Di certo sul monopolio politico ed economico del monarca e sulla simbologia arcaica di cui si fa vezzo la sua figura. Le faccio un esempio, all’apparenza banale ma emblematico. La prassi della genuflessione e del baciamano (bay’a) di fronte al sovrano è un atto che simboleggia la sottomissione, un’umiliazione e un attacco alla dignità umana. Mohammed VI, presentatosi come un re innovatore, non ha nemmeno pensato ad abolire questo cerimoniale. Noi, invece, lo rifiutiamo categoricamente. Durante l’investitura del consiglio di amministrazione dell’IRCAM (2002) abbiamo salutato il monarca, Mohamed Chafik (rettore dell’istituto) in testa, stringendogli la mano. Per l’opinione pubblica fu uno scandalo, ma pochi mesi dopo alcuni membri dell’Unione degli scrittori marocchini hanno seguito il nostro esempio e poi degli altri ancora. Ripeto, è necessario abbattere tutti i tabù.
Al centro delle proteste c’è poi la struttura di potere piramidale sopravvissuta all’era pre-coloniale. Il ministro dell’Interno – gran visir del regno tuttora scelto dal sovrano – è alla guida di una rete capillare di rappresentanti locali (wali, caid, pacha, etc..) che non rispondono delle loro funzioni alla popolazione e che controllano, su consegna del Palazzo, la dinamica economica e politica del territorio di competenza. Neanche il progetto di regionalizzazione avanzata, ripreso dalla nuova costituzione, apporta delle novità in questo senso. Il Marocco resta nel modello giacobino dello Stato centralizzato, rinuncia a valorizzare le specificità regionali e ad attribuire alle collettività territoriali una vera autonomia, specie per quel che riguarda la gestione delle proprie risorse (idriche, del sottosuolo, forestali, marittime). Per le regioni a maggioranza berberofone, marginalizzate e escluse dallo sviluppo, le prospettive non cambiano. E’ il momento di denunciare l’ennesima riforma di facciata e gli imazighen saranno in prima fila.

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