Nei giorni scorsi le autorità marocchine hanno vietato la distribuzione del settimanale francese Le Courrier International (padre spirituale e modello del nostro Internazionale) all’interno dei confini del regno a causa di una vignetta giudicata “offensiva”. Nel numero 1080 (13-20 luglio 2011) della rivista, assieme all’articolo “L’envers d’un plébiscite royal” – l’editoriale pubblicato dal direttore di Tel Quel Karim Boukhari l’indomani del referendum – c’era un disegno del celebre caricaturista algerino Dilem. Il re Mohammed VI è pronto a spartire il potere con il suo primo ministro, il titolo della caricatura. In primo piano il sovrano, mentre fuma uno spinello, accanto al premier Abbas Al Fassi che incalza: “fallo girare!”.
E’ interessante notare che, pur definendo la performance elettorale (98,5% di “sì” alla nuova costituzione) “un plebiscito organizzato” e “degno delle migliori dittature”, l’articolo di Boukhari non aveva subito restrizioni al momento della prima apparizione (“Le Maroc est inquiet”, Tel Quel n. 481, 9-15 luglio). Il ministro Khalid Naciri, non certo noto per il suo senso dell’umorismo quanto piuttosto per la sua cieca fedeltà al regime, ha precisato infatti che il provvedimento di censura da lui ordinato è dovuto “alla mancanza di rispetto dovuta al re” insita nella vignetta pubblicata dal Courrier. A titolo informativo, l’articolo 29 del Codice della stampa autorizza il ministro della Comunicazione e il Primo ministro a vietare l’ingresso in Marocco dei giornali stranieri se questi costituiscono “un attacco alla religione islamica, al regime monarchico, all’integrità territoriale, al rispetto dovuto al sovrano o un pericolo per l’ordine pubblico” (le famose “linee rosse”).
L’episodio non rappresenta purtroppo una novità. Proprio il settimanale francese aveva già subito un primo stop nel luglio del 2009 in circostanze simili. L’inchiesta del Journal Hebdomadaire sull’impero economico di Mohammed VI era stata riproposta dal Courrier International con un contributo del caricaturista Khalid Gueddar, che aveva raffigurato il monarca ai comandi di una moto d’acqua (lo sport preferito da sua maestà) mentre cavalca un’onda di monete d’oro.
Anche in quell’occasione un comunicato del Ministero chiariva che proprio la presenza del disegno aveva motivato la censura della rivista. Questione di moralità: ciò che viene detto, non sempre può essere mostrato. Come spiegare allora l’atteggiamento del regime marocchino nei confronti della caricatura? Il disegno umoristico, soprattutto se accompagnato dalla rappresentazione dei membri della famiglia reale, sembra rimanere un tabù e ancora oggi deve confrontarsi regolarmente con le ire del Palazzo e la dura reazione delle autorità. Disegnatori e giornali continuano a farne le spese. Perché? Da una parte le immagini fanno più paura delle parole, dal momento che hanno un impatto più forte e immediato, dall’altra i codici legislativi (come quello della stampa) sanciscono la sacralità e l’intangibilità del monarca, a dispetto della nuova carta costituzionale. “La lettura di una caricatura è più facile rispetto alle pagine di un testo. E’ il primo elemento che ci colpisce quando si sfoglia un giornale, ed è ciò che immancabilmente ci diverte. I bersagli sono chiari, diretti e il suo messaggio arriva a tutti, perfino agli analfabeti”, è il commento del caricaturista Lahsen Bakhti, che non può nemmeno immaginare Le Monde senza la vignetta di Plantu in prima pagina.
CARICATURA NON GRATA
(Breve riepilogo della storia della caricatura in Marocco, tratto dall’articolo di Laetitia Dechanet “Sage come une image”, pubblicato da Le Journal Hebdomadaire n. 416, 7-13 novembre 2009)
La caricatura fa la sua comparsa nelle colonne della stampa marocchina fin dal primo periodo post-indipendenza. Negli anni sessanta vedono la luce i primi giornali satirici, Akhbar Dounia e Joha. Poco più tardi, tra la fine degli anni settanta e l’inizio del decennio successivo, uno dei pionieri del disegno marocchino, Hamid Bouhali, in compagnia di Mohamed Filali, lancia in rapida successione tre riviste umoristiche: Satirix, in francese, poi Akhbar Souk e Attakchab in arabo. Tra i caricaturisti che più hanno contribuito all’espressione di questo genere giornalistico, il cui riscontro in edicola è strepitoso, c’è anche Larbi Sebbane. Akhbar Souk raggiunge dei picchi di vendite di 180 mila esemplari a settimana, prima di stabilizzarsi sulle 50 mila copie. Tutto sembra procedere bene, fino a quando un disegno del caricaturista Hamouda non suscita la collera di Driss Basri, allora ministro dell’Interno: Bouhali, direttore della pubblicazione, viene messo in carcere per un mese, prima di finire agli arresti domiciliari. Dopo un anno, sottoscrive una dichiarazione in cui si impegna a non pubblicare più giornali e riacquista la libertà. Per la caricatura marocchina è la fine della prima grande avventura.
In quegli anni, anche il quotidiano L’Opinion propone un supplemento satirico di quattro pagine, Sandwich, che subisce ben presto la stessa sorte dei suoi predecessori. Le sue caricature, che portano la firma di Filali, infastidiscono il regime. Khalid Jamai, all’epoca capo-redattore del giornale, ricorda: “avevamo pubblicato una caricatura di Ronald Reagan con in braccio una scimmia. L’ambasciatore americano, su tutte le furie, andò a protestare dal sovrano. Allora ricevetti una chiamata da Driss Basri, che pronunciò queste parole: «il re è arrabbiato con te. Da ora in poi non avete più il diritto di pubblicare caricature. Non è un problema di libertà di espressione, ma di rispetto verso la religione. Dio ha creato l’essere umano in una certa maniera e voi, con i vostri disegni, deformate questa sua creazione». Minacciò di chiudere L’Opinion se avessimo proposto nuove caricature. Sandwich è scomparso così da un giorno all’altro”.
Da quel momento è come se una fatwa abbia vietato la divulgazione dei disegni satirici. Nel 1989 Hassan II, ospite nel programma francese L’Heure de verité, dichiara: “Non tollererò mai dei giornali come Le Canard Enchainé. Da noi la caricatura è vietata per consenso nazionale”. Quest’ultima deve infatti aspettare fino al 2000, un anno dopo la morte del vecchio re, prima di ritrovare il suo posto in edicola, grazie ad Ali Lmrabet che fonda il giornale satirico Demain Magazine (poi Doumane, in darija). Ma, anche in questo caso, si tratta di un’esperienza piuttosto breve. Nel 2003, infatti, la pubblicazione viene chiusa e Ali Lmrabet si vede condannato a quattro anni di carcere per “oltraggio al re e attacco ai valori sacri del regno e alla sua integrità territoriale”. Nel 2007 nasce l’ultimo giornale satirico della storia marocchina, Le Canard libéré. Il supporto, tuttavia, non sembra essere all’altezza dei titoli che l’hanno preceduto. Di certo lo si deve alla sua linea editoriale, “basata sul rispetto dei valori religiosi, della patria e dei simboli nazionali”, come viene precisato da un comunicato stampa. La caricatura, in definitiva, pare abbia conservato una cattiva reputazione: la sua presenza nei giornali marocchini è ancora timida e, tra la maggior parte dei disegnatori, prevale l’autocensura.
La libertà di espressione in Marocco vista da Khalid. Raffigurare Mohammed VI nelle caricature è "vietato". |
FOCUS: il Codice della stampa marocchino
Di seguito gli articoli più restrittivi di un codice della stampa giudicato “liberticida” dalle principali ong per i diritti umani, Reporters sans frontieres e dagli stessi giornalisti marocchini indipendenti:
Articolo 29. L’ingresso in Marocco dei giornali stranieri può essere vietato dal ministro della Comunicazione o dal Primo ministro, se questi costituiscono un attacco alla religione islamica, al regime monarchico, all’integrità territoriale, al rispetto dovuto al re o un pericolo per l’ordine pubblico.
Articolo 41. Ogni offesa verso il re o un membro della famiglia reale è punita con l’arresto da 3 a 5 anni e con una multa da mille a 10 mila euro. La stessa pena è prevista se l’attacco è diretto alla religione islamica, al regime monarchico o all’integrità territoriale. La condanna può prevedere anche la sospensione temporanea della pubblicazione o addirittura il divieto definitivo.
Articoli 44-51. Stabiliscono pene severe, compreso il carcere (da un mese a un anno), per chi viene giudicato colpevole di diffamazione.
Articolo 52. L’offesa commessa contro i Capi di Stato, i capi di governo, e i ministri degli esteri di Paesi stranieri è punita con l’arresto da un mese ad un anno e con una multa da mille a 10 mila euro.
Articolo 77. Il ministro dell’Interno può ordinare, con decisione motivata, il sequestro di ogni pubblicazione che costituisca un pericolo per l’ordine pubblico o un attacco alla famiglia reale, alla religione islamica, al regime monarchico o all’integrità territoriale.
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