Nel cuore della Rabat coloniale, quartiere Hassan, lungo i binari che tra poche settimane ospiteranno il primo tram in funzione nella capitale, si affacciano le finestre di Lakome.com. Ad attendermi nei locali della redazione c’è Ali Anouzla, icona del giornalismo indipendente marocchino e direttore del sito internet (creato nel novembre 2010) che in pochi mesi è diventato il punto di riferimento nel paese per l’informazione alternativa in lingua araba. Alcuni lo chiamano il “Julian Assange marocchino”, non solo per la sua attività di internauta e per la facilità di accesso alle fonti disponibili in rete. Nel 2008, infatti, Anouzla aveva pubblicato nel quotidiano Al Jarida al Oula alcune testimonianze sugli “anni di piombo” secretate dall’Istanza di Equità e Riconciliazione, che suscitarono l’ira del regime.
Paragoni a parte, Ali Anouzla preferisce considerasi un giornalista devoto al suo mestiere. Assieme a lui, nella redazione di Lakome, lavorano altre due vecchie conoscenze della stampa indipendente marocchina: Khalid Gueddar, già caricaturista di Doumane, Le Journal Hebdomadaire e Akhbar al Youm, e Najib Chouki, blogger ed ex collaboratore di Nichane. Tra pochi giorni il sito attiverà una nuova versione in lingua francese, curata dal fondatore del Journal Hebdomadaire Aboubakr Jamai con il contributo di Aziz El Yaakoubi (Le Journal, Zamane) e Omar Radi (Les Echos, Atlantic Radio).
Najib Chouki a Lakome.com |
Nel corso dell’intervista proposta in questo articolo il direttore di Lakome racconta la sua esperienza di giornalista indipendente in Marocco, enumera gli ostacoli e le ritorsioni frapposte di volta in volta al libero esercizio della sua professione, che lo hanno costretto ad abbandonare la carta stampata e a rifugiarsi nel web, una realtà “più accessibile a livello economico oltre che più affidabile sotto il profilo della libertà di espressione”. Anouzla sottolinea poi la fortunata coincidenza che portato il suo giornale on-line alla ribalta nel panorama mediatico marocchino: “il contesto in cui Lakome è nato ha fatto di internet il mezzo privilegiato di comunicazione e di diffusione di informazioni. E’ anche grazie alla rete che le rivoluzioni tunisina e egiziana hanno avuto successo, per noi è stata quindi una occasione propizia per veder valorizzato al massimo il nostro impegno”. Ali Anouzla oltre ad essere un giornalista indipendente è anche un “democratico” e come tale ha sostenuto attraverso il suo sito il “Movimento 20 febbraio” e le rivendicazioni dei giovani connazionali. In chiusura di intervista le sue considerazioni sull’atteggiamento mostrato dalla stampa nazionale nei confronti del movimento prima e dopo le proteste avviate domenica 20 febbraio.
Intervista ad Ali Anouzla (Rabat, 1° marzo 2011)
Mi dica signor Anouzla, perché la chiamano “il Julian Assange marocchino”?
Non lo so, sono alcuni colleghi che scherzano. Io sono un giornalista, niente di più. Ho scelto questa professione fin dall’adolescenza. Ho studiato quattro anni all’Istituto di giornalismo qui a Rabat, dopo di ché ho iniziato a far pratica in un giornale panarabo di proprietà saudita, Asharq al Awssat, con base a Londra ma stampato e distribuito in diverse capitali del mondo arabo. Durante gli anni novanta sono diventato il caporedattore per la regione maghrebina. Facevo anche reportage e inchieste sul campo, ho lavorato molto nell’Africa sub-sahariana, in Sudan e in Libia al tempo in cui Bin Laden si trovava nel paese. Allo stesso tempo collaboravo con altri supporti, alcune televisioni orientali e la radio americana Sawa al Hurria. Sono stato il primo corrispondente in Marocco dell’emittente statunitense, creata dopo l’invasione dell’Iraq voluta da Bush figlio e la caduta di Saddam Hussein. L’idea era quella di promuovere la democrazia e la libertà attraverso nuovi supporti mediatici, come era successo negli anni passati con i paesi dell’Europa dell’est.
Questo l’inizio del suo percorso professionale. Mi racconti come è proseguito.
Nel 2004, in seguito ad un malinteso, ho lasciato Asharq ed ho assunto per la prima volta il duplice ruolo di editore e giornalista, dando vita al settimanale arabofono Al Jarida al Okhra (“L’altro giornale”). Una rivista indipendente, di cui ero direttore e azionista di riferimento. Abbiamo lavorato quasi due anni senza la sovvenzione di grandi capitali e praticamente senza pubblicità, ma il giornale andava bene. Poi sono arrivati i problemi con le autorità marocchine, che ci hanno messo i bastoni fra le ruote pur senza accuse ufficiali né interventi giudiziari. Ci hanno fatto pressioni, poiché eravamo il primo giornale ad aver messo la principessa Lalla Salma in copertina e ad aver pubblicato un articolo sulle sue attività. A dir la verità era un reportage piuttosto “people”, non c’era nulla di irriverente, ma il semplice fatto di aver parlato della moglie di Mohammed VI ci costò una lettera di avvertimento redatta dal gabinetto reale: “non potete toccare un soggetto tabù come la famiglia regnante – diceva in breve la lettera – senza aver prima ricevuto il via libera del Palazzo”. Si aspettavano delle scuse ufficiali ma io, in qualità di direttore, risposi con un comunicato, diffuso anche dalla stampa internazionale, in cui difendevo il mio diritto di giornalista a trattare liberamente tutti i temi ritenuti opportuni nel rispetto della vita privata. Il re e sua moglie non sono sacri, non fanno eccezione. La stampa di regime ci ha attaccato per più di un mese.
Ali Anouzla nella redazione di Lakome.com |
Il secondo episodio grave a fine 2005. Avevamo lanciato un sondaggio, “qual è la personalità dell’anno?”, contattando cento personaggi di spicco del paese, conosciuti nei rispettivi settori (politico, sociale, economico, culturale). Alla fine è risultato che il re si era piazzato secondo, mentre il più votato era Driss Benzekri (presidente dell’Istanza per l’Equità e la Riconciliazione ed ex presidente del Forum Verità e Giustizia). Dopo la pubblicazione del sondaggio non ci furono reazioni dirette da parte della monarchia, ma ancora una volta la stampa di regime, il governo e la MAP (l’agenzia stampa marocchina, ndr) cercarono di annientarci dicendo che non avevamo alcun diritto di porre certe domande e che il re doveva rimanere fuori da qualsiasi tipo di statistica. Ora, bisogna sapere che in Marocco non c’era e non c’è tuttora alcuna legislazione che limiti o regolamenti questa attività. Anche nel caso di Tel Quel (50 mila esemplari del settimanale francofono furono distrutte nell’agosto 2009 poiché contenevano un sondaggio sui primi dieci anni di regno di Mohammed VI, ndr), la decisione di impedire la vendita del giornale è stata arbitraria e priva di una vera base legale.
In seguito a questi problemi è stato costretto ad interrompere la sua pubblicazione?
No, Al Jarida al Okhra non è morto. Si è trasformato in Nichane nel 2007 in seguito ad un aumento del capitale sociale e dei membri della redazione. Benchemsi (già direttore di Tel Quel), diventato il nuovo azionista di riferimento, voleva imporre l’utilizzo del darija marocchino per una maggiore diffusione della rivista. Io non ero d’accordo, preferivo mantenere l’arabo standard. Del resto anche Al Jazeera, che è seguitissima nel paese, utilizza questo “linguaggio comune” conseguendo ottimi risultati in tutto il mondo arabo. Per queste divergenze formali, che non avevano nulla a che fare con i contenuti, io e il resto dell’equipe della vecchia Al Jarida abbiamo lasciato Nichane. A prendere il mio posto è stato l’amico Driss Ksikes, al tempo già caporedattore di Tel Quel, che aveva provato in tutti i modi ad impedire la nostra partenza.
Chiuso un capitolo, ho subito cercato di aprirne un altro. Nello stesso 2007 ho lanciato assieme al caro amico e collega Taoufik Bouachrine (ex caporedattore di Al Jarida al Okhra) il quotidiano Al Massae. In questa nuova avventura non ricoprivo più il ruolo di azionista, dal momento che avevo conservato la mia parte di capitale nelle casse di Nichane (Ali Anouzla è rimasto azionista di Nichane fino alla chiusura del settimanale avvenuta nell’ottobre 2010, ndr), ero semplicemente un consigliere di redazione e direttore dell’ufficio a Rabat. In effetti era stato soprattutto Bouachrine a spingere per la creazione di un quotidiano, io ero diffidente, consapevole dei costi elevati a cui saremmo andati in contro. E’ in questa fase di indecisione che è entrato in gioco Rachid Nini (attuale direttore di Al Massae, ndr), già collaboratore di Al Jarida e di Assabah. Nini ha assicurato il sostegno finanziario al nuovo progetto editoriale, ha preparato il terreno alla pubblicazione ed ha dettato le linee guida assieme a Bouachrine. Dopo un anno di collaborazione, durante il quale curavo una rubrica quotidiana di analisi politica, ho lasciato l’equipe a causa dei contrasti sorti con la direzione del giornale.
Che genere di contrasti l’hanno spinta a lasciare Al Massae?
Rachid Nini, direttore del quotidiano, mi ha censurato due articoli. Il primo, intitolato “Il Marocco è un paese democratico?”, era in sostanza un’analisi critica della monarchia, del suo controllo asfissiante sulla sfera politica e della democrazia di facciata di cui si fa vanto l’elite del paese. Il secondo si concentrava invece sul monopolio economico e finanziario del sovrano, che tuttora impedisce lo sviluppo industriale del Marocco e la genesi di una normale dialettica di mercato. Se nel primo caso avevo lasciato correre, continuando il mio lavoro senza troppe polemiche, dopo il secondo stop ho deciso di chiamarmi fuori pur di conservare la mia indipendenza.
Neanche in questo caso ha deciso di fermarsi e di cambiare mestiere?
No, non ce l’avrei mai fatta. Nel maggio 2008, lasciato Al Massae, ho creato un nuovo quotidiano arabofono, Al Jarida al Oula, con i pochi mezzi a disposizione. Ho riunito alcuni giornalisti, ex collaboratori e amici (avvocati, ex prigionieri politici degli “anni di piombo” che avevano fiducia in me) attorno ad un tavolo e ciascuno ha versato 100 mila dirham (circa 10 mila euro) per far partire la pubblicazione, una somma a cui corrispondeva il 5% del capitale. Al Jarida al Oula è nato su base ugualitaria e totalmente indipendente.
Dal maggio 2010 Al Jarida al Oula è sparito dalle edicole. Come si è arrivati a questo triste epilogo?
Nel primo anno il giornale andava alla grande, la risposta del pubblico era eccellente, tanto che avevamo attirato l’interesse degli inserzionisti pubblicitari. Tuttavia, fin dai primi mesi sono iniziati i problemi con le autorità. Grazie ad una fonte di cui proteggo ancora oggi l’anonimato, ero entrato in possesso di alcuni documenti dell’IER che non erano stati resi pubblici. Si trattava delle audizioni svolte dalla commissione a porte chiuse, dove i responsabili del regime sotto Hassan II (alcuni ancora nei posti chiave, come Khalienna Ould Errachid, attuale presidente del CORCAS, la commissione governativa per il Sahara, ndr) apportavano le loro testimonianze. Al Jarida al Oula ha iniziato a pubblicare il dossier, composto da oltre cinquecento pagine, a puntate nelle sue colonne. Si trattava dei racconti inediti dei protagonisti del capitolo più sanguinoso della nostra storia. Per esempio Ould Errachid, nella sua audizione, parla di crimini di guerra commessi dalle Forze armate reali in Sahara, mentre Abdelwahid Boutaled, ex consigliere di Hassan II, attribuisce senza mezzi termini la responsabilità di tutte le violenze commesse negli “anni di piombo” al re deceduto nel 1999. Era un’occasione irripetibile per diffondere una verità che ci vogliono tenere nascosta, una verità che interessa l’intero paese. Ritengo che far luce su episodi di rilevanza nazionale rimasti oscuri sia un compito inderogabile per ogni giornalista che si rispetti. Purtroppo ancora una volta le prime reazioni feroci contro il giornale sono arrivate proprio dai “colleghi” della stampa di regime e dei partiti al governo (Aujourd’hui le Maroc, Al Alam, Al Ittihad Al Ichtiraki, la MAP…) che arrecano danno alla reputazione della nostra professione. Poi le autorità hanno fatto pressione sull’IER perché avviasse ufficialmente una causa contro Al Jarida e il suo direttore. Sono stato interrogato per tre giorni consecutivi dalla polizia giudiziaria, che ha perquisito i locali della redazione e casa mia in cerca dei documenti senza trovare niente. Alla fine il tribunale ci ha condannato ad interrompere la pubblicazione del dossier poiché costituiva agli occhi del regime “un attacco alla stabilità dello Stato ed un ostacolo al processo di democratizzazione avviato nel paese”. Per noi c’è stato comunque un risvolto positivo: tanta pubblicità per il nostro giornale che aveva solo tre mesi di vita.
Quindi dopo la tirata d’orecchie in merito al “dossier IER” siete comunque riusciti ad andare avanti?
Sì, dopo il “dossier IER” abbiamo lavorato tranquilli per alcuni mesi, fino all’estate 2009, quando ci sono piovute addosso nuove condanne. La prima causa è stata avviata dal Ministero degli Esteri marocchino su pressione della diplomazia libica in seguito all’ “affaire Gheddafi”. L’episodio è piuttosto complesso. Nel 2008 Hannibal Gheddafi, figlio del colonnello, era stato arrestato a Ginevra per aver maltrattato due domestiche in un hotel. All’avvio delle indagini era stato interrogato anche l’autista di Hannibal, un marocchino la cui famiglia viveva in Libia. Secondo l’avvocato svizzero dell’autista erano state fatte pressioni “fisiche” a Tripoli sulla famiglia del nostro connazionale. Le autorità marocchine, in nome delle buone relazioni con Gheddafi, hanno ignorato l’accaduto, ma noi abbiamo denunciato nelle colonne di Al Jarida la connivenza e l’omertà del nostro governo. Questo l’antefatto. Quando poi nel novembre 2008 ho scritto un articolo sull’assenza di democrazia nel Maghreb, in cui tra gli altri citavo l’esempio libico come modello di dittatura, l’ambasciata della jamahirriya ha colto la palla al balzo per muovermi guerra. In una lettera firmata dall’ambasciatore mi è stato dato dell’analfabeta e dell’ignorante, oltre agli insulti. La lettera l’ho riportata nel giornale per sottolineare la scarsa considerazione di cui gode l’intera stampa marocchina. Mai un diplomatico si sarebbe rivolto con toni e parole simili ad un giornalista occidentale! Gheddafi, tramite il nostro Ministero degli Esteri, ci ha fatto causa, chiedendo una riparazione di circa 750 mila euro. Il verdetto comunicato dal tribunale di Casablanca a fine giugno 2009 ci ha condannato a versare un indennizzo di 100 mila euro.
Il terzo processo contro Al Jarida al Oula, quello che poi ha sancito la nostra fine, è cominciato dopo un articolo sullo stato di salute di Mohammed VI pubblicato a fine agosto 2009. Pochi giorni prima era stato diffuso un comunicato dal Palazzo, firmato da quattro medici personali del re, secondo cui il sovrano era in stato di convalescenza poiché colpito da “rotavirus”. Assieme ad un giornalista della redazione abbiamo cercato di saperne di più su questo virus a noi sconosciuto, abbiamo contatto specialisti per conoscere i sintomi e gli effetti della malattia dato che il comunicato non ne dava informazione. La pubblicazione del pezzo ci è valso un soggiorno di tre giorni al commissariato, durante il quale la polizia giudiziaria non faceva altro che ripeterci: “non dovete toccare temi così sensibili, potreste diffondere paura, creare instabilità e allontanare i capitali stranieri dal paese”. Alla fine sono stato condannato, nel dicembre 2009, ad un anno di carcere con il beneficio della condizionale, più una multa di circa mille euro per “diffusione di false informazioni e speculazioni di natura tendenziosa”. Il problema per il giornale non è stato tanto a livello giuridico, ma sul piano economico. Le conseguenze si sono rivelate disastrose. Come è partito il processo gli inserzionisti pubblicitari hanno iniziato ad annullare le loro commesse e noi siamo rimasti senza fondi. Il capitale non era sufficiente a coprire le spese per la tipografia e la distribuzione (prima dell’estate 2009 il volume di vendita, quindi le copie stampate, era aumentato notevolmente), così abbiamo resistito qualche mese dopodiché sono stato costretto a dichiarare fallimento ad inizio maggio 2010.
Al Jarida al Oula è dunque l’ennesima vittima della strategia del boicottaggio pubblicitario?
Sì, Al Jarida è stata vittima della “censura soft” o censura indiretta, una strategia particolarmente privilegiata dal regime negli ultimi tempi per mettere a tacere le voci indipendenti senza implicazioni evidenti. Le autorità fanno pressione sugli inserzionisti pubblicitari affinché non sostengano le pubblicazioni ritenute scomode, lasciandole dall’oggi al domani senza più risorse economiche (la vendita del giornale compre solo una minima parte delle spese) e costringendole alla chiusura. Prima di Al Jarida al Oula c’è stato l’esempio del Journal Hebdomadaire, e pochi mesi dopo quello di Nichane: Benchemsi, quando ha lasciato il paese e i suoi giornali, ha dichiarato che le sovvenzioni pubblicitarie erano crollate dell’80%. Ora lo stesso fenomeno sta toccando Akhbar al Youm, il quotidiano di Bouachrine secondo per numero di copie vendute (25 mila) in Marocco, da tempo disertato dagli inserzionisti.
Il passaggio all’informazione on-line è dovuto all’esigenza di aggirare il boicottaggio pubblicitario e la “censura soft” del regime? In altre parole, da dove nasce l’idea di Lakome.com?
Per prima cosa, dopo la fine dell’avventura Al Jarida al Oula, avevo bisogno di un nuovo spazio per continuare ad esprimermi in maniera libera, per continuare ad essere un giornalista indipendente in Marocco. Non avevo i soldi per creare una nuova pubblicazione e il web era il sistema più accessibile a livello economico oltre che il più affidabile sotto il profilo della libertà di espressione. Così grazie al sostegno e all’entusiasmo mostrato da Khalid e Najib, amici sinceri e colleghi affidabili, ho deciso di aprire il sito Lakome.com. Oltre all’amore per la professione, era un modo per affermare: “ci siamo ancora! Nonostante tutto continuiamo a fare informazione indipendente, senza costrizioni pubblicitarie o politiche”.
Nel progetto iniziale coltivavamo ancora l’idea, in parallelo al lavoro on-line, di gettare le basi redazionali e finanziarie per una futura pubblicazione cartacea, ma il contesto in cui Lakome è nato ha fatto di internet il mezzo privilegiato di comunicazione e di diffusione di informazioni. E’ anche grazie alla rete che le rivoluzioni tunisina e egiziana hanno avuto successo, per noi è stata quindi una occasione propizia per veder valorizzato al massimo il nostro impegno. Esistiamo da tre mesi e il sito sta andando molto bene; la settimana scorsa abbiamo superato le 114 mila visite giornaliere (Lakome è il decimo sito più visitato del Marocco e il terzo tra i siti di informazione, ndr) e il nostro obiettivo ora è di divenire uno spazio di informazione di riferimento, sin arabo e prossimamente anche in francese. Nelle nostre pagine proponiamo un filo diretto con l’attualità nazionale e di tutta la regione maghrebina e riusciamo a parlare di tematiche che per i colleghi della carta stampata restano tuttora tabù. Forse è per questo che qualcuno ha soprannominato Lakome il “Wikileaks marocchino”, ma noi restiamo una piccola equipe di giornalisti professionisti e indipendenti. Niente altro. Dalla nostra abbiamo la credibilità, a differenza di molti altri siti e blog che già esistevano nel panorama mediatico nazionale.
Che tipo di finanziamento riceve Lakome.com?
Nessun finanziamento ad eccezione dei mezzi economici di cui dispone ciascun membro della redazione. Anche chi collabora di tanto in tanto al nostro sito, lo fa come volontario. Almeno per ora si intende.
Nei tre mesi di esistenza, Lakome.com o i membri della sua redazione hanno mai avuto problemi con le autorità?
Mai fino a questo momento. Forse, se l’attenzione verso lo spazio mediatico maghrebino non fosse stata così alta da parte dell’opinione pubblica internazionale, in seguito alle rivoluzioni che stanno animando l’intera regione, avremmo potuto subire la repressione del regime. Ma stando così le cose, il Palazzo non ha un vero interesse a mostrare ora il suo pugno di ferro. Non penso che ci attaccheranno in maniera arbitraria come avevano fatto con Al Jarida al Oula. Non hanno il coraggio di bloccare o limitare l’accesso ad internet proprio adesso, magari troveranno altri mezzi, forse li stanno già cercando.
Lei ha detto che Lakome segue l’attualità marocchina e dell’intera regione del Maghreb. Qual è la linea adottata dal sito nella selezione e nella proposta delle notizie?
Lakome tratta tutte le notizie che possano interessare il pubblico marocchino, per ora arabofono e ben presto francofono. Le faccio un esempio che la riguarda più da vicino. Qualche giorno fa è stata data la notizia dell’arresto di sei marocchini in Italia accusati di terrorismo e legati all’associazione islamica Giustizia e Carità. Noi abbiamo trasmesso la notizia e poi abbiamo interpellato i rappresentanti del gruppo di Yassine, che hanno smentito qualsiasi legame con i sei in questione ed hanno ribadito il carattere assolutamente pacifico della loro organizzazione.
A proposito di Giustizia e Carità, quali sono i vostri rapporti professionali con il movimento islamista? Mi spiego meglio, so che il gruppo di Yassine si rifiuta di avere rapporti diretti con la stampa marocchina per l’immagine negativa che i media offrono dell’organizzazione. E con Lakome?
Non abbiamo nessun tipo di problema a relazionarci con il movimento di Yassine e viceversa. Loro rispettano la nostra professionalità come noi rispettiamo le loro posizioni, anche se magari non le condividiamo. Personalmente ho sempre intrattenuto ottimi rapporti con i rappresentanti di Giustizia e Carità come del resto di ogni altra organizzazione islamica presente in Marocco. Non ho problemi neanche con i rappresentanti del PAM (Partito dell’autenticità e dello Sviluppo, formazione legata al regime, ndr). A volte le mie critiche sono virulente, ma non sono rivolte alle persone in sé quanto all’idea o alla posizione che difendono. Non è una guerra personale e in più l’essere critico, motivando il proprio punto di vista, rientra nelle funzioni primarie del giornalista.
Come si è posto Lakome rispetto al Movimento 20 febbraio?
Abbiamo seguito la genesi del Movimento, dando spazio alle rivendicazioni promosse dalle nuove generazioni. Siamo stati il primo sito di informazione a far circolare i video e la piattaforma del “20 febbraio”, qualche giorno dopo la comparsa dei primi gruppi Facebook. Inoltre, siamo stati il primo supporto mediatico a utilizzare il nome stesso di “Movimento 20 febbraio”. Quando a fine gennaio sono comparsi i gruppi Facebook, come il gruppo “Democrazia e libertà adesso” o il gruppo “Dignità” e altri, mi è venuto spontaneo creare un parallelo con l’esperienza egiziana del 2008, dove alcuni nuclei di cyber-dissidenti si sono riuniti sotto il nome di “Movimento 6 aprile”. Lakome ha recuperato gli archivi e la documentazione prodotta in due anni dal Movimento 6 aprile e l’ha messa a disposizione dei giovani marocchini.
Da un punto di vista professionale trovo normale interessarsi ad un fenomeno sociale e politico di così ampia rilevanza, che riguarda non solo il nostro paese ma tutta l’area arabo-musulmana. Un fenomeno che ha conseguito stravolgimenti epocali in Tunisia, Egitto e Libia e che probabilmente riuscirà ad innescare il cambiamento anche in Marocco e Algeria. Quanto alla mia opinione personale, io sono un democratico, oltre che giornalista, e quando ho visto le rivendicazioni del Movimento, la richiesta di un cambiamento radicale per superare il vuoto politico e l’assolutismo monarchico, è stata una logica conseguenza sostenerlo e dargli spazio, al contrario degli altri colleghi.
Le ho chiesto quale posizione ha assunto Lakome rispetto al “20 febbraio” proprio per metterla a confronto con il ruolo giocato dai media nazionali su carta stampata in merito alla stessa questione. Che ne pensa dell’atteggiamento mostrato dai suoi colleghi?
Appena scoppiata la rivolta in Tunisia, eravamo ancora nel dicembre 2010, pubblicai un articolo su Lakome che destò le prime reazioni polemiche: “ecco la dimostrazione del fallimento del modello tunisino, un modello autoritario e repressivo seguito negli ultimi anni anche dal Marocco”, scrivevo al tempo. Le polemiche sono continuate quando, al contrario dei miei colleghi, ho affermato in un editoriale incentrato sul dilagare delle proteste nella regione: “il Marocco non farà eccezione, a nulla servirà la presunta legittimità storica rivendicata dalla monarchia”. Al momento eravamo solo io e Taoufik Bouachrine a sostenere la non eccezionalità del caso marocchino, mentre la stampa dei partiti al governo, quella direttamente finanziata dal regime o quella subdola come i giornali di Rachid Nini, sostenevano che il Marocco non sarebbe mai stato toccato dalle proteste.
Poi, dalla comparsa del Movimento 20 febbraio fino al giorno delle manifestazioni, il panorama mediatico marocchino si è diviso in tre posizioni differenti. Come dicevo prima Lakome ha sostenuto i giovani e le loro rivendicazioni assieme ad Akhbar al Youm (seppur in maniera molto più timida), mentre gli organi di partito e Rachid Nini li hanno attaccati spudoratamente, insultando e cercando di screditare i volti visibili del movimento. La terza posizione era quella della stampa di regime, Le Matin e la MAP per esempio, che evitavano di trattare la notizia in attesa di direttive dalle alte sfere. Dopo le manifestazioni del 20 febbraio il panorama mediatico ha cambiato atteggiamento. Tutta la stampa sta cercando ora di cavalcare l’onda della protesta, di incanalare il movimento privandolo della sua spinta propulsiva e innovatrice. Sull’editoriale di oggi pubblicato da Aujourd’hui le Maroc c’è scritto: “la piazza ha fatto il suo dovere, ora sta alle forze politiche presenti in parlamento far avanzare le proposte di cambiamento”. E’ assurdo, se si considera che tutti i partiti si erano schierati contro il movimento e le sue rivendicazioni. E’ solo opportunismo politico, dettato dall’esigenza di soffocare il potenziale “rivoluzionario” del movimento e di lasciare ancora una volta le cose come stanno. Io sono scandalizzato, tanto che per evitare malintesi non ho più scritto niente dopo le manifestazioni della settimana scorsa. Ma in ogni caso, indipendentemente dalle manovre del regime e dei media al suo servizio, credo che la bottiglia gettata in mare dai giovani marocchini non possa più essere fermata. Prima o poi arriverà.
Quale è stata invece la reazione delle forze di sicurezza alla mobilitazione cominciata domenica 20 febbraio?
All’inizio le direttive inviate alla polizia erano chiare: evitare l’uso della forza contro i manifestanti. Il 20 febbraio era considerato un esame da parte del regime e delle forze di sicurezza, in cui la giuria era costituita dall’opinione pubblica internazionale che aveva gli occhi puntati sul paese. Le immagini di Rabat e Casablanca sono valse il plauso di alcuni governi occidentali che hanno dipinto il Marocco come uno Stato liberale e democratico. In realtà nelle città più piccole e nelle regioni lontane si sono verificati scontri e violenze e la repressione è si è fatta sempre più nei giorni seguenti. Le direttive del regime sono cambiate, come testimoniano le notizie e i video che arrivano da Sefrou, Fes, Kenitra, Guelmim, Agadir e Dakhla, diffuse su Lakome. D’ora in poi le manifestazioni verranno impedite con la forza. Staremo a vedere cosa succederà questo fine settimana (sono in programma manifestazioni a Rabat, Casablanca e Marrakech per domenica 6 marzo, ndr).
In conclusione, secondo Ali Anouzla il Marocco garantisce la libertà di espressione?
No, la libertà di espressione non è garantita nel nostro paese. Prendiamo la libertà di stampa, l’esempio che mi riguarda più da vicino. Come testimoniano anche le mie vicende personali, ci sono delle linee rosse in Marocco che non è possibile superare indenni. Sicuramente c’è più libertà rispetto ad altri paesi arabi, il solo fatto che sto qui a parlare con lei ne è una conferma, ma se ci riferiamo ad un esercizio professionale come quello del giornalista, i limiti e i vincoli imposti dalle autorità sono evidenti. Le implicazioni monarchiche nel settore economico e la corruzione nell’entourage di Palazzo restano un tabù, come pure la corruzione dell’esercito nel Sahara. Nessuno osa parlarne e chi ci ha provato (il riferimento è al co-fondatore ed ex direttore del Journal Hebdomadaire Ali Amar, ndr) ne ha pagato le conseguenze. La costituzione dice che il sovrano è il capo della nazione, dell’esercito, del governo e la guida religiosa, ma da nessuna parte c’è scritto che deve essere il primo banchiere, il primo assicuratore e il primo imprenditore del regno. In quanto giornalista ho il diritto di scrivere di queste cose ma sui giornali non posso farlo.
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