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martedì 1 settembre 2009

Voci d'Algeria. Waciny Laredj

Un estratto dell'intervista allo scrittore algerino Wacini Laredj (Venezia, marzo 2009). 

La memoria è molto importante, ma non si tratta di un blocco monolitico fossilizzato, in cui è possibile trovare tutte le risposte a portata di mano. No, si tratta di uno spazio formidabile, ma che bisogna prima cercare di conoscere, scavando il più possibile. La memoria è costituita da più strati sedimentati, l’uno sopra l’altro, e all’apparenza solo l’ultimo stato sembra visibile, ma, come nel caso dell’iceberg, quello che resta nascosto al di sotto è ben più vasto e profondo. Bisogna sforzarsi per arrivare fino ai primi strati, quelli che si trovano più in basso, bisogna essere pronti a scavare per recuperare la nostra memoria nella sua interezza e per far valere la ricchezza e la profondità della nostra cultura. Io ho cercato di farlo, per esempio attraverso al mio incontro con Cervantes, recuperando tutto quello spazio di condivisione storicamente esistito tra il contesto algerino e la cultura spagnola. E’ un esempio, uno spunto che credo e spero possa essere seguito e ripreso.



La memoria non è uno spazio chiuso e rigido, bensì costantemente aperto, pronto ad espandersi e sempre capace di stupirci e regalarci belle sorprese. E’ un concetto che, come anche lei ha sottolineato, resta legato saldamente all’identità. Consapevole della profondità e della vastità della memoria, io rivendico una identità molteplice. Il concetto stesso di identità non deve essere un qualcosa di chiuso, rigido e delimitato. Fino ad ora io, in quanto algerino, sono stato definito arabo-musulmano, ma questo cosa vuol dire? Vuol dire che appartengo ad una certa razza, tra virgolette, e ad una certa sfera religiosa? Prima di tutto io rifiuto la classificazione razziale, di cui riconosco l’estrema pericolosità. Se la parola “arabo” si riferisce al contesto culturale, allora sì, posso accettarla, ma se richiama una appartenenza razziale no, la rifiuto. Tuttavia anche nel caso in cui considerassimo la parola “arabo” in senso culturale, non potrei ugualmente riconoscermi in questa definizione. Io rivendico ben più che l’appartenenza alla sola cultura araba. Tutto ciò che ha fatto parte della storia di questa terra che oggi chiamiamo Algeria fa parte anche della mia identità; in me è presente l’elemento spagnolo, quello francese, quello arabo e quello berbero (mia madre è berbera). La mia identità è plasmata da tutti questi elementi, ha un forte carattere inclusivo. Quello a cui assistiamo oggi, invece, è esattamente il contrario. I caratteri identitari si rafforzano, ma su basi esclusive, si fondano sulla separazione e non sul contatto. Allora chi si richiama all’identità berbera rifiuta l’arabo e chi si richiama all’identità araba rifiuta il berbero, chi si definisce algerino rifiuta tutto quello che riguarda la Francia, negando una contaminazione che di fatto c’è stata ed ha lasciato le sue tracce. Su queste basi non è possibile costruire uno Stato e tantomeno un’identità che aspiri a definirsi nazionale.
Io mi batto costantemente per sostenere l’idea di una identità concepita come molteplice e inclusiva, sia sul piano culturale che su quello religioso. Anche nel caso dell’identità religiosa, infatti, rivendico una appartenenza plurale e mi considero legato tanto all’identità musulmana quanto a quella cristiana ed ebraica. Grandi civiltà sono nate in Algeria da queste religioni, civiltà che restano parte del patrimonio genetico dell’Algeria di oggi. Bisogna riconoscere il ruolo avuto dalla componente ebraica nella costruzione della cultura algerina, per esempio nel caso della tradizione musicale detta “arabo-andalusa”. Questa tradizione, in realtà, resta fondamentalmente ebraica: quando i marrani e i mori, così erano chiamati, hanno lasciato l’Andalusia e soprattutto Granada, dal momento che una volta terminata la “reconquista” la regina Isabella aveva cacciato entrambi, arabi ed ebrei, questi popoli si sono installati nella sponda sud del Mediterraneo. Le grandi scuole musicali, per esempio quella di Algeri, di Tlemcen, di Mostaganem e di Constantine hanno così origini ebraiche. Allora come posso rifiutare qualcosa che fa parte di me stesso? Non posso fare altro che rivendicarlo come parte della mia storia. Io non ho scelto la mia storia, nessuno può sceglierla, ma perlomeno si può provare a conoscerla e ad accettarla.
E’ nostro compito cercare di inventare questo spazio possibile, in cui possa nascere una identità bella, cioè aperta ed inclusiva, un compito che richiede molti sforzi, molta dedizione. In Algeria sono stati compiuti troppi errori anche a questo riguardo, troppe semplificazioni, che hanno impedito la costruzione di questo tipo di identità; all’inizio è mancato il lavoro delle generazioni protagoniste dell’indipendenza, poi quello delle generazioni successive. Non c’è stata volontà, si è sempre cercato di rimandare. Ho sempre sentito parlare di qualcosa di lontano e futuro a questo proposito, ma è qui che nasce il problema; la mia generazione doveva imporsi e pretendere una politica di recupero della memoria storica, le generazioni successive avrebbero dovuto seguire l’esempio e, piano piano forse, saremmo potuti arrivare ad edificare una identità fondata sulla ricchezza della molteplicità.

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