Intervista allo scrittore algerino Wacini Laredj.
L’intervista è stata realizzata a Venezia il 23 marzo 2009, in occasione della conferenza “Algeria oggi, vincoli e cambiamenti”, organizzata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia in collaborazione con Merifor (Centro mediterraneo di ricerca e formazione). Waciny Laredj era uno degli ospiti, chiamato ad esporre sulla genesi e le prospettive del romanzo algerino.
Jacopo Granci : Monsieur Laredj parliamo un po’ del suo unico romanzo pubblicato fino ad ora in Italia, La guardienne des ombres o Don Chisciotte ad Algeri. Dalle sue parole emerge una conoscenza profonda e un sentimento di appartenenza molto forte nei confronti di Algeri, pur non essendo questa la sua città natale. Qual è dunque il suo rapporto con “Alger la blanche”?
Wacini Laredj : In principio non era affatto un rapporto di amore, piuttosto di disamore. Non era la città che amavo, almeno all’inizio, le preferivo di gran lunga Tlemcen, che è una città andalusa, oppure Orano, una città meticcia arabo-ispanica. Non avevo quella che si dice una passione viscerale nei confronti di Algeri. I miei primi contatti con questa città furono brevi, ero quasi sempre di passaggio. Ma quando terminai i miei studi in Siria mi ritrovai a lavorare proprio lì, nella capitale, e da quel momento il mio rapporto con la città è cambiato. Non conoscevo bene Algeri e a poco a poco ho iniziato a scoprirla veramente; per esempio, ho iniziato a frequentare la casbah, cercando di andare al di là del mito che la riveste e che, sinceramente, resta molto lontano da quello che è la quotidianità della vita in questo remoto angolo della città. Ho iniziato ad approfondirne la storia, con la presenza turca, quella dei giannizzeri, cogliendo ciò che ci fu di buono e di negativo in quel lungo periodo. Ho appreso le storie dei grandi uomini che trascorsero lì parte della loro vita, uomini di musica, di arti plastiche e figurative, per esempio Delacroix, o di grandi scrittori, come nel caso di Cervantes, e altri ancora, come Guy de Maupassant. Tutto questo mi ha riconciliato con Algeri. La storia stessa della città è assai bizzarra se la andiamo ad analizzare: da una parte è una città definita da tutti tendenzialmente arabo-berbera, ma in realtà fu governata per lungo tempo dai Turchi, e lo stesso Rais non era affatto arabo e nemmeno berbero. Spesso veniva da contesti lontani. Dunque Algeri stessa è apparsa a poco a poco ai miei occhi come l’esempio paradigmatico della città meticcia, variegata e mescolata. Adoro questo genere di città e mantengo viva la speranza che questa tipologia di mescolanza e meticciato possa essere la base per la nascita di un qualcosa di positivo per l’uomo in sé.
Conoscendola meglio ho potuto poi scrivere diversi testi su questa città. A tal proposito sto preparando un bel libro illustrato, dal titolo Alger à moi, ossia l’Algeri che mi appartiene, dove mostro le piccole cose che vedo e che nessun altro può decifrare. Le faccio un esempio, in questa Algeri getto lo sguardo su quella che pochi ancora conoscono come la “Grotta di Cervantes”. La “Grotta di Cervantes”, che si trova a Belcourt, è stata abbandonata all’incuria per un lunghissimo periodo, ed io mi sono battuto sia con le autorità algerine sia con l’Ambasciata spagnola e con il Ministero della cultura spagnolo perché fosse riconosciuto un interesse nei confronti di questo luogo, un interesse anche minimo. Proprio durante il periodo in cui scrivevo La guardienne des ombres ero nel pieno di questa battaglia e tutto questo è presente nell’opera, si percepisce la mia delusione e la mia voglia di battermi perché questo scempio venga in qualche modo riparato. Nel romanzo ho ricostruito un po’ la storia stessa di questa grotta.
Un anno fa ho pubblicato poi un nuovo libro, intitolato Sur les traces de Cervantes, un testo ricco di foto e immagini a cui ho lavorato dopo il mio breve soggiorno in Spagna. In questo caso ho fatto una sorta di percorso inverso, in cui ho cercato di seguire le orme di Cervantes nella sua terra natale, partendo dalla Cala de Anareste, dove nacque precisamente lo scrittore. Sono rimasto dieci giorni nei dintorni di quella che fu la sua casa tra il XV ed il XVI secolo, in questa piccola magnifica cittadina, perché quando ci si trova fisicamente in un luogo, il luogo stesso sembra emanare un odore che nessun altro può sentire oltre alla persona intimamente coinvolta. Io ho percepito questo odore, questa forza, questo attaccamento che mi legava allo spazio che era stato la culla di Cervantes. Per questo poi ho scritto Sur les traces de Cervantes.
Tornando ad Algeri, questa città è dunque emblematica e può rappresentare meglio di ogni altra il fondersi di luoghi e culture. Ci sono troppe cose della storia di questa città che non sono ancora state dette, o perlomeno affermate con forza, troppe cose ancora da scoprire e da far riemergere dall’oblio. C’è ancora molto lavoro da fare e penso che nei prossimi anni potranno uscire altri testi che riprenderanno lo spunto che ho fornito, e che ci aiuteranno a conoscere meglio la ricchezza e l’importanza di Alger.
Allo stesso tempo, tuttavia, permane in me un senso critico con cui non posso far a meno di confrontarmi quando penso ad Algeri. Non c’è solo l’amore che mi lega a questa città. Mi spiego meglio. Quando si ama qualcosa significa che ci si rapporta ad essa in maniera totale, intera, ed in questa interezza non c’è solo quello che ci piace, ma anche quello che non ci piace, e proprio in virtù del nostro sentimento profondo siamo capaci di riconoscerlo e di porci in maniera critica verso questi aspetti, diciamo negativi. E ritornando al romanzo ho voluto mostrare questa negatività, questi lati oscuri facendoli coincidere con la diffusione dell’islamismo, un fenomeno che ha tentato di cancellare e distruggere proprio quelle caratteristiche di apertura, ricchezza e multiculturalismo, che dal mio punto di vista identificano lo spirito della città più di ogni altra cosa.
Con questo libro ho voluto ribadire che l’Algeria è stata da sempre un luogo di incontro, di passaggio e di compenetrazione di culture, un contesto in cui la diversità ha sempre costituito una forza ed un elemento costruttivo, edificante. Tale aspetto è stato ignorato, o meglio combattuto ferocemente da un islamismo che invece ha cercato di affermare l’esistenza di un’Algeria integralmente araba e integralmente musulmana. Una assurdità dal momento che proprio in territorio algerino si è assistito al passaggio di tutte le religioni, dall’ebraismo, al cristianesimo, all’islam, al passaggio di culture come quella romana, di quella francese, di quella araba. Io mi identifico in tutto questo, ossia in questa ricchezza. Se l’identità algerina non riuscirà a riappropriarsene, considerando la pluralità dei suoi elementi costitutivi come elementi positivi di una identità in fieri, si continuerà ad evitare l’unica strada possibile per esistere come Paese.
J. G. : Descrivendo i luoghi dove Cervantes venne tenuto prigioniero nei cinque anni di permanenza forzata ad Algeri, sembra che lei abbia colto l’occasione per criticare duramente quel processo, definito di “sviluppo e ammodernamento urbanistico” dalle autorità, che in realtà ha ferito la città e distrutto il suo antico splendore. Mi sto sbagliando o tutto questo era nelle sue intenzioni?
W. L. : Si, in Don Chisciotte ad Algeri c’è uno sguardo fortemente critico che stigmatizza la modalità di sviluppo urbano e di edificazione dei palazzi nella città a partire dal periodo post-indipendenza. Non è più possibile ritrovare l’Algeri di un tempo. La bella città che era. La vecchia Algeri era così costruita: c’era la città coloniale e c’era la città vecchia, la casbah. La casbah era un mondo, una realtà a sé stante, con una vita pressoché autonoma e animata da una logica totalmente differente rispetto alla città “europea”. Una volta partiti i Francesi tutto questo doveva essere conservato, almeno secondo me, dal momento che tale dualismo ad Algeri era comunque un sistema rodato che funzionava bene, e allo stesso tempo permetteva di preservare un habitat consolidato ormai da decenni, anzi da più di un secolo. Ovviamente le decisioni prese dopo l’indipendenza sono state ben altre, e a livello amministrativo tutto questo ha innescato conseguenze assai negative. Per prima cosa la città è stata conservata molto male, e la casbah è in uno stato di decadimento avanzato, pur essendo divenuta patrimonio dell’umanità, protetto dall’UNESCO. La casbah, che avrebbe avuto bisogno di una cura meticolosa per vedersi assicurato un buono stato di conservazione, non ha ricevuto le attenzioni che meritava e non è stata protetta dal degrado. Quelli dell’UNESCO e delle autorità algerine sono stati proclami vuoti e formali, la realtà delle cose è ben distante, direi tragica: oggi la cittadella turca è sull’orlo dell’autodistruzione dovuta all’incuria. Un gran peccato.
E poi c’è tutto quel che va oltre la città coloniale. Vale a dire tutte quelle costruzioni che sono sorte attorno ad Algeri negli ultimi quarant’anni. Io non sono un urbanista, ma quanto meno sono un cittadino, un cittadino che ama le cose ben fatte, la bellezza. Nel caso dello sviluppo urbano post-indipendenza si è prodotto un autentico disastro. C’è una nuova città che cinge completamente il centro di Algeri, con enormi quartieri, sobborghi infiniti in cui non ci sono teatri, non ci sono cinema, non ci sono caffetterie decorose, ma soltanto mercati alla buona, improvvisati. Sono luoghi desolati dove la gente rientra la sera per dormire. Città-dormitorio, ecco cosa sono. Manca completamente una logica urbanistica di fondo alla base di questa espansione della capitale, manca un vero piano regolatore in grado di frenare questo sviluppo selvaggio di caseggiati e palazzi. Oltre alla città europea c’è un ammasso incontrollato di costruzioni che non risponde a nessuna delle caratteristiche che fanno di un insieme di case e palazzi una vero centro urbano. La nuova Algeri sta assomigliando sempre più ad una bidonville. Per esempio, percorrendo la strada che conduce a Blida o quella che dall’aeroporto si dirige verso la parte orientale della baia, ci troviamo di fronte a delle baraccopoli, anche se sono costruite con il cemento.
J. G. : Nel romanzo Don Chisciotte ad Algeri lei ha utilizzato l’espressione “giungla di cemento” a questo proposito.
W. L. : Sì, esatto. E’ proprio di una giungla di cemento che stiamo parlando. Ci sono distese infinite di palazzi, a centinaia, ma all’interno si ha quasi l’impressione di essere perduti, senza punti di riferimento o appigli. Manca completamente il fascino della città, mancano i luoghi che la rendono viva, che la rendono appunto una città. Tutto quello che rimane ad Algeri in questo senso è la città coloniale, l’unica che è stata costruita seguendo la logica della vivibilità. Una città vera. Nella città coloniale restano ancora un bellissimo teatro, caffetterie decenti, sale da ballo, università, ci sono luoghi di incontro dove si può condividere esperienze, emozioni ed interessi. Invece, in queste bidonvilles che sono sorte attorno ad Algeri, il solo spazio comune che resta è la moschea. Poi non deve sorprendere il dilagare di un fenomeno come quello dell’islamismo, è quanto di più normale possa succedere in queste condizioni. Questo deve farci riflettere e allo stesso tempo capire un sacco di cose. Non è solo all’aspetto esteriore della città che mi riferisco, ma alla maniera stessa di pensare, di vedere le cose, e alla maniera di dare un senso allo spazio che si ha a nostra disposizione. L’unico senso che è stato dato a questo spazio comune, stando almeno a quanto è emerso negli anni passati fino ad ora, è purtroppo un senso religioso, e non un senso improntato al piacere della conoscenza, alla condivisione o all’apertura.
J. G. : Lasciamo da parte il contesto, ossia la diffusione dell’islamismo e la rappresentazione che ne è data nel suo romanzo. La storia, l’intreccio che si snoda nel libro Don Chisciotte ad Algeri, i personaggi creati, hanno per caso una base autobiografica? Mi riferisco, per esempio, al personaggio di Don Chisciotte stesso, giornalista e allo stesso tempo scrittore, come lei. Oppure ai continui riferimenti alla Spagna, sapendo anche che la sua regione di provenienza, l’oranese e Tlemcen, furono storicamente colonizzate e occupate dagli Spagnoli.
W. L. : Sì, ci sono elementi autobiografici, sicuramente in questo libro, ma non è certo un testo autobiografico. Prima di tutto l’elemento attorno al quale ruota tutta la storia, Cervantes, rispecchia il mio profondo interesse verso questa figura, fondamentale nella mia formazione. Fin dalle prime pagine si incontra un personaggio che sta scrivendo a macchina, in solitudine. Non ha più la lingua, mozzatagli da misteriosi personaggi barbuti, come pure altre parti del corpo. L’unica possibilità che gli resta per esprimersi e far conoscere la sua storia è quella di scrivere. Non è una questione di autobiografia, ma almeno sul piano simbolico sì, in questo episodio, in questa condizione si può leggere un forte richiamo a quello io ho vissuto prima di abbandonare il Paese, nel ‘94. Una condizione che ho definito più volte “esilio psicologico”. C’è poi il richiamo alla cultura andalusa, con la creazione di un personaggio quale Hanna, una nonna che parla continuamente dell’Andalusia, che sogna questa terra, in cui affonda le antiche radici. Non so se nella traduzione italiana questo personaggio sia stato ben delineato, ma in Hanna che racconta storie, che sembra quasi perdersi nei suoi deliri e nei suoi ricordi, nella volontà di descrivere e ricreare anche solo a parole il contesto andaluso dal quale proviene, io ho dato voce a mia nonna, una persona straordinaria che ha condizionato la mia vita fin dal suo inizio. Avevo in testa l’immagine di questa donna anziana, profondamente attaccata al proprio patrimonio culturale, alle proprie origini e alla propria storia, una immagine che proviene direttamente dal mio vissuto.
Nel libro c’è molto della Spagna in generale. Una volta sono stato invitato a Madrid, in occasione dei quattrocento anni dall’uscita del Don Chisciotte; dopo aver parlato un po’ di Algeri, della parentesi algerina vissuta da Cervantes e della mia personale conoscenza di questo straordinario scrittore, mi avvicinò una persona dicendomi: “Ma lei sa che esistono realmente dei lontani discendenti di Cervantes?”, ed io gli ho risposto: “Per la verità non sapevo nemmeno che Cervantes avesse avuto dei figli o dei nipoti, ma immagino che sia una eventualità plausibile”. E lui ha ribattuto: “Certamente, ho personalmente conosciuto l’ultimo dei pronipoti dello scrittore, tuttavia non so dirle se sia mai stato ad Algeri sulle tracce del suo vecchio zio”. Ed è qui che scatta l’immaginazione dello scrittore, l’inventiva. Per me l’essenziale era descrivere questo viaggio iniziatico, non che tale viaggio fosse più o meno realistico. E’ un viaggio che ci permette di attraversare Algeri, che ci fa scoprire questa città con tutto il suo contorno di storie e con tutto l’immaginario che si trascina dietro, e che ci permette di scoprire nel dettaglio quello che fu il passaggio di Cervantes in questo posto.
Nel testo ho poi cercato di creare un parallelo, attraverso la presenza di Zoraida. Zoraida è un personaggio autentico, che nel Don Chisciotte esiste e di cui lo stesso Cervantes si era innamorato, almeno secondo quanto affermato in certe cronache del tempo. Cervantes la cita, la fa comparire in alcuni scritti, dicendo che nella sua permanenza come prigioniero in Algeria si era salvato grazie a lei, e specificando che fu con lei che ripartì da Algeri verso la Spagna. Non è poi così importante quello che accadde realmente sul piano storico, non era questo l’aspetto che mi interessava. Io ho fatto rivivere questo personaggio e attraverso lei ho fatto rivivere l’Algeri sotterranea, quest’insieme di grotte e di cunicoli che non erano in realtà delle vere prigioni, anche se le ho descritte nel romanzo come il luogo dove il mio Don Chisciotte viene tenuto in arresto.
Il Don Chisciotte del romanzo resta in prigione per cinque giorni, mentre il suo avo c’era rimasto cinque anni, e anche qui si possono leggere evidenti simmetrie. Durante questi cinque giorni ha potuto riflettere e scoprire molte cose dell’Algeria e di Algeri che gli erano rimaste estranee prima di essere rinchiuso nei sotterranei. Prima di tutto è riuscito a ricostruire tutto quello che accadde al suo antenato nella città. Poi è riuscito a superare i clichés con i quali stava cercando di interpretare, sbagliando, il contesto sociale e politico algerino. Clichés piuttosto superficiali e semplicisti, inadatti a spiegare fenomeni complessi e radicati, quali le violenze ed il terrorismo che si stavano propagando in quegli anni. Infine scopre una donna splendida, formidabile, che lo aiuta a capire. Quando pone a Zoraida la domanda: “Perché non lasci l’Algeria?”, lei gli risponde: “Per andare dove?”. Per me questo è un punto fondamentale, è una questione direi ontologica. Riflettere sulla propria vita, sulle speranze e sulle aspettative, e poi chiedersi: “Andare dove?”. A me è successo proprio questo. Ho trascorso parte della mia vita in questa città, ho iniziato ad amarla e l’ho scoperta sempre più in profondità, e al momento di lasciarla ho continuato a domandarmi: “Ma andare dove?”.
Sono state le donne come Zoraida, questa categoria di donne e di uomini, ma soprattutto di donne che in quel periodo ha salvato l’Algeria dalla catastrofe. Una categoria di donne che ha scelto di resistere, di battersi, di lottare a viso aperto, cercando di dare un senso ad un mondo insensato. E’ un qualcosa di formidabile e ancora più eccezionale è il fatto che la loro lotta maturò nella vita di tutti i giorni, nella quotidianità; non era fatta di proteste sterili o eventi plateali. Fu la volontà di resistere e di mantenere viva la speranza, che permise loro di andare al lavoro ogni mattina, sapendo che avrebbero rischiato la morte in ogni istante; si rifiutarono di lasciare le proprie abitazioni, anche se intimidite o minacciate; non rinunciarono alle proprie libertà ed ai propri diritti. Ogni giorno hanno dato prova del grande desiderio di vivere che le animava.
Zoraida ama Algeri, la città dove è cresciuta, ne ama i sotterranei, gli odori, l’immaginario prodottosi con il tempo, ama tutto questo a tal punto da non volersene separare, a qualunque costo. Il Don Chisciotte del romanzo non poteva non innamorarsene, e di fatto si è innamorato di questa donna, che nella sua mente lo riconduceva all’esperienza vissuta dal suo antenato durante gli anni di prigionia nella stessa città. Dal mio punto di vista questa sorta di parabola serve a far capire che bisogna uscire dai criteri di analisi troppo semplicisti. Bisogna capire che l’amore per la vita deve essere talmente forte da fornirci ogni volta la capacità di trovare soluzioni possibili e nuove speranze di cambiamento. Ecco, in sostanza, cosa ho voluto dire con il mio Don Chisciotte ad Algeri.
Nessun commento:
Posta un commento