In fondo alla discesa sterrata una massa umana informe e rumorosa si accalca a pochi metri dai cancelli della frontiera. I poliziotti sembrano osservare la scena con aria impassibile ma, di tanto in tanto, assestano colpi di manganello a caso in mezzo alla folla. “Cercano di separare le donne dagli uomini, per mettere un po’ di ordine nei passaggi e per lasciare spazio a chi rientra con il carico”, commenta un funzionario della dogana in modo fin troppo diplomatico.
Sono quasi le dieci e il calore del sole africano comincia a farsi sentire. Nell’aria polverosa si distingue un vago odore di pesce. I marinai sono rientrati dal porto e, assieme ai contadini del quartiere, allestiscono con casse di legno e qualche banchetto un mercato improvvisato lungo la strada che scende al valico. Ma i passanti non vi prestano troppa attenzione. I più si affrettano correndo verso il fondo della discesa, mentre gli altri risalgono mestamente la carreggiata in senso opposto, trascinandosi dietro grosse sacche di tela.
Ogni giorno circa trentamila marocchini, in gran parte donne, attraversano il confine che li separa da Melilla. Alcuni lo fanno per rifornirsi di beni di prima necessità, curiosamente meno cari dall’altra parte della frontiera. La maggioranza, invece, contrabbanda prodotti di ogni genere raccolti nei magazzini che circondano lo scalo iberico. Ad agevolare questo commercio, gli accordi siglati tra i governi di Madrid e Rabat negli anni settanta, che permettono la circolazione nell’enclave spagnola agli abitanti di Nador, il capoluogo della regione del Rif (Marocco settentrionale) situato a soli dieci chilometri di distanza. Da allora, sebbene la legislazione in materia di immigrazione sia divenuta via via più restrittiva, i passaggi giornalieri continuano ad essere autorizzati senza bisogno del visto o del timbro sul passaporto.
Barrio Chino
“Uno spettacolo da terzo mondo”
Gli agenti della Guardia Civil controllano che il transito verso la frontiera avvenga in piccoli gruppi formati al massimo da cinque o sei unità. Nemmeno loro si fanno scrupoli ad usare il manganello. “Se c’è troppa calca i marocchini non riescono a riscuotere le mance e chiudono i cancelli. Questa gente, poi, finisce per perdere la testa e diventa incontrollabile”, sembra discolparsi un poliziotto a pochi metri dalla dogana. Spinto dall’orgoglio, o più probabilmente da un impeto di indignazione, un collega aggiunge: “nessuno ha il coraggio di fare qualcosa e lasciano a noi la patata bollente. Chi gestisce il contrabbando è protetto e può permettersi di sfruttare questa gente, pagandola una miseria. E’ uno spettacolo da terzo mondo, proprio qui in casa nostra!”.
Dunia, una portatrice nata a Meknès, era presente al momento della tragedia. “La polizia aveva aperto il varco da pochi minuti e i primi a passare si sono ammucchiati all’altezza dei cancelli di ingresso”, ricorda con voce dimessa. Poi, indicando la frontiera, cambia tono e con la rabbia negli occhi aggiunge: “quella gabbia di metallo non sembra fatta per degli esseri umani, assomiglia più ad un mattatoio. La verità è che ci trattano come bestie e, con il passare del tempo, rischiamo davvero di diventarlo”. I passaggi troppo stretti, le lunghe attese e l’impazienza dei corrieri, che cercano di affrettare i tempi per fare più viaggi e aumentare la paga, formano spesso una combinazione pericolosa. Nel Paso Barrio Chino gli affollamenti continuano ad essere una realtà quotidiana e i feriti una conseguenza inevitabile.
“Comercio atipico”
Per Abdelmoumen Chaouki, responsabile della Coordination de la société civile e direttore del mensile l’Echo del Rif, “Spagna e Marocco sono ugualmente responsabili di questa triste situazione, poiché traggono vantaggio da un lavoro estenuante, a costante rischio di incidenti, senza offrire in cambio le strutture adeguate”. Per capire meglio quanto incidano i proventi del contrabbando nell’economia dell’enclave basta dare uno sguardo ai dati forniti dal Tesoro spagnolo nel 2006. In quell’anno Melilla ha importato merci dalla penisola iberica e da paesi terzi per un valore totale di 674 milioni di euro, di cui solo 234 sono stati destinati al consumo interno. Il resto è servito ad alimentare i circuiti del “comercio atipico”, come viene pudicamente definito da queste parti. Quanto all’introito prodotto dall’attività transfrontaliera nel versante opposto, il governo di Mohammed VI non ha mai fornito alcun dato ufficiale.
Fouad si occupa del trasferimento dei prodotti dai magazzini del porto fino alla frontiera. “Ogni trafficante segna i suoi pacchi con un numero, in modo che siano facilmente identificabili”, spiega il giovane maghrebino con passaporto spagnolo, intento a sistemare con lo scotch alcune bottiglie di liquori sotto la jellaba di una donna corpulenta. La catena degli intermediari si divide i compiti con precisione millimetrica. “Una volta rientrati in suolo marocchino, i portatori depositano il carico nel camion di un subordinato, che in cambio gli rilascia un biglietto. A fine giornata, poi, vanno a riscuotere il denaro dall’addetto ai pagamenti”.
Sono molte le categorie sociali che beneficiano, seppur in misura diversa, del “comercio atipico” e del sudore versato dalle “tartarughe” alla frontiera di Melilla. Oltre quattrocentomila persone, secondo la Camera di commercio americana di Casablanca, ne traggono almeno un vantaggio indiretto. Dalle famiglie più povere, che sopravvivono grazie ai pochi spiccioli delle staffette, ai trafficanti di Nador, che sfruttano la loro miseria per arricchirsi. Dai compratori della capitale, che possono acquistare merci a prezzi tutto sommato vantaggiosi, ai commercianti dello scalo spagnolo, che senza il contrabbando sarebbero costretti a cambiare mestiere, considerati i magri consumi di una città di appena 66 mila abitanti. Fermare tutto questo, secondo il responsabile della Coordination de la société civile “è forse una follia”, soprattutto in assenza di alternative concrete. Trafficanti e notabili godono infatti della protezione e della complicità delle autorità locali. Senza contare che a farne le spese sarebbero comunque i più disagiati, privati della loro unica fonte di sostentamento. Ma, come tiene a sottolineare lo stesso Chaouki, “una tale attività, instabile e pericolosa, non può certo essere un modello di sviluppo augurabile per il futuro della nostra gente”.
1 commento:
I reportage di jacopo sono sempre molto belli, intensi e partecipati. Complimenti.
Hai un modo di scrivere davvero bello!
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