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giovedì 13 ottobre 2011

La protesta degli imam

Dopo un fine settimana segnato dalle manifestazioni del Movimento 20 febbraio e dall’assalto dei sostenitori del sovrano alla redazione del quotidiano Akhbar al-Youm, accusato di offrire troppo spazio agli oppositori, lunedì scorso sono stati gli imam a scendere in strada per esprimere il loro dissenso nei confronti delle autorità di Rabat.


“Gli imam delle moschee reclamano libertà, dignità e il pieno godimento dei propri diritti”, è questo lo slogan della manifestazione a cui lunedì scorso hanno preso parte circa un centinaio di imam, arrivati nel centro della capitale da tutte le regioni del paese. Hanno sfilato pacificamente lungo boulevard Mohammed V, di fronte al Parlamento, e si sono raccolti in preghiera nei giardini del viale a pochi passi dalla stazione centrale, prima di venire dispersi dalle cariche della polizia. Ma la loro protesta, pur di dimensioni ridotte, non è passata inosservata.


I predicatori in jellaba bianca hanno puntato il dito contro il rigido controllo che lo Stato ha imposto negli ultimi anni all’esercizio delle loro funzioni. Un evento emblematico per il regno alawita, dove le mobilitazioni promosse con costanza e regolarità dal Movimento 20 febbraio sembrano aver abbattuto il muro della paura eretto dal regime nei decenni seguiti all’indipendenza (1956). Già nel giugno scorso gli imam avevano manifestato nelle strade di Rabat, ben più numerosi, per chiedere un aumento dei salari (pagati dal Ministero degli Habous e degli Affari islamici) e una maggior efficienza nel combattere il degrado dei luoghi di culto (sono circa 40 mila quelli ufficiali).
Nonostante le intimidazioni subite in quell’occasione e le dichiarazioni rilasciate recentemente dal ministro Ahmed Taoufiq (circa 54 milioni di euro saranno a breve destinati “al miglioramento delle condizioni degli imam e delle moschee”), i predicatori marocchini sono tornati a protestare e questa volta le rivendicazioni hanno assunto un carattere prettamente politico. Hamid, da oltre quindici anni alla “guida” di una piccola moschea di Salé, spiega: “chiediamo libertà di parola, vogliamo veder riconosciuti i nostri diritti, come quello di poter scrivere i sermoni che leggiamo il venerdì durante la preghiera comune”.
Le parole di Hamid si infrangono nel cuore del sistema autoritario su cui continua a reggersi il regime. Nel regno alawita, infatti, lo statuto degli imam è regolato dal Ministero degli Habous, uno dei cinque ministeri “di sovranità” (assieme a Interno, Affari esteri, Difesa e Giustizia) da sempre sotto il controllo diretto del monarca. E’ Mohammed VI, Amir al-mouminine (Capo dei credenti), ad “esercitare in maniera esclusiva tutte le prerogative di ordine religioso” (art. 41 della Costituzione), a scegliersi il suo intermediario di fiducia, nel caso specifico il ministro Taoufiq nominato nel 2002. Il suo predecessore Alaoui M’deghri, uno degli uomini forti a disposizione del defunto Hassan II, era rimasto in carica per quasi vent’anni.
Dopo gli attentati del 2003 a Casablanca, le autorità hanno fatto leva sulla minaccia islamista e sul pericolo rappresentato dai predicatori radicali per mettere gli imam sotto stretta sorveglianza. Dalla nomina, all’assegnazione del luogo di culto, alla gestione delle donazioni, tutto passa attraverso il ministero e la supervisione reale, a cui è affidata perfino la redazione dei sermoni che vengono letti durante la grande preghiera e a cui gli imam devono rigorosamente attenersi.
Private di ogni autonomia, le guide religiose sono state trasformate in semplici funzionari a comando, pronti ad alimentare la macchina della propaganda ufficiale. Un esempio lucido e recente è quanto successo durante le settimane di campagna elettorale che hanno preceduto il referendum del 1° luglio scorso, quando il regime ha fatto leva sugli imam (e sulle confraternite sufi) per assicurare una larga approvazione alla nuova costituzione voluta da Mohammed VI. In quell’occasione, di fronte al persistere delle contestazioni di piazza, i predicatori si sono visti recapitare un testo da leggere alle centinaia di fedeli riuniti per la salat al-zuhr del venerdì. “Votare sì alla costituzione è un dovere religioso e nazionale”, ribadiva a chiare lettere il comunicato del ministero. Per chi si è rifiutato è scattato il licenziamento.
La protesta degli imam è il sintomo che alcuni ingranaggi del sistema di potere messo in atto dalla monarchia alawita stanno lentamente cedendo. Di certo, un simile evento sarebbe stato impensabile prima del 20 febbraio e dell’inizio delle mobilitazioni indette dai giovani dissidenti. Le iniziative del movimento, che hanno sfatato vecchi tabù mettendo apertamente in discussione la parola del sovrano, sembrano aver ridato coscienza ai marocchini di cosa significhi essere cittadini e non più sudditi. Cittadini disposti a reclamare tutto ciò a cui fino ad ora avevano rinunciato in silenzio.


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