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lunedì 19 marzo 2012

Marocco-UE: liberalizzazione prodotti agricoli, un "pessimo accordo"

Il Parlamento europeo ha approvato lo scorso febbraio l'accordo di libero scambio dei prodotti agricoli tra i membri UE e il regno alawita. Un passo importante "per lo sviluppo economico del paese maghrebino", sottolinea il documento. Ma l'intesa, lodata da entrambe le diplomazie, penalizza in realtà il Marocco sia per i termini in cui è stata concepita che per le carenze strutturali di un settore in larga parte ancora da riformare.

(Foto Jacopo Granci)


Nonostante l'opposizione all'interno del PE dei deputati verdi e, in generale, di quelli spagnoli, che vedono minacciati i propri interessi dall'immissione nel mercato comunitario dei prodotti marocchini, la ratifica dell'accordo ha riscosso il plauso delle cancellerie europea e alawita, concordi nell'affermare che il patto "serve a rafforzare le relazioni tra l'UE e Rabat nel quadro dello statuto avanzato e del partenariato esistente". Per le autorità marocchine si è trattato di un'iniezione di credibilità quanto mai necessaria per dar peso al "processo di riforme" innescato dai risvolti locali della "primavera araba" e, soprattutto, per superare l'impasse diplomatica registrata nel dicembre scorso, quando lo stesso Parlamento europeo aveva bocciato il rinnovo dell'accordo sulla pesca e sullo sfruttamento delle risorse ittiche in acque territoriali marocchine. L'ambasciatore UE a Rabat, Eneko Landaburu, ha dichiarato in proposito che "l'Unione europea, primo finanziatore del Marocco, è più che mai impegnata nel sostenere il suo progetto di modernizzazione della società", mentre la lobby francese Amitié UE-Maroc ha fatto sapere che "restringere l'accesso di questo paese al mercato europeo avrebbe avuto delle conseguenze disastrose per l'economia marocchina", di cui l'agricoltura resta "un settore vitale".
Sostenere lo sviluppo economico e la modernizzazione della società dunque, ma è veramente questo l'obiettivo dell'accordo di libero scambio? Le misure previste, le quote assegnate agli esportatori del regno, serviranno realmente a favorire un settore "vitale", non tanto o non solo per il sistema produttivo marocchino (16% del Pil), quanto piuttosto per la sua popolazione attiva (40%)? Per rispondere a queste domande ci siamo serviti del contributo del professor Najib Akesbi (Istituto agronomico e veterinario - IAV - di Rabat), economista e autore del libro L'agricolture marocaine à l'épreuve de la libéralisation,[1] cercando così di uscire dalla prospettiva eurocentrica nell'approccio al tema e di fornire una disamina critica dell'accordo e delle sue ricadute, di cui entrambe le parti contraenti non sembrano voler tenere conto.

"Europa vincente sia nell'import che nell'export"
La liberalizzazione del settore agricolo marocchino, il cui mercato interno ed esterno dei prodotti era gestito direttamente dallo Stato fin dall'indipendenza (1956), è cominciata negli anni ottanta, con le misure dettate dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale in accompagnamento al piano di aggiustamento strutturale, imposto come contropartita ai finanziamenti concessi dai due organismi sovrastatali.
L'adesione ai principi e alle strutture dell'economia di mercato ha portato poi il lo Stato nordafricano ad inserirsi nella dinamica dell'Uruguay Round (GATT), che proprio a Marrakech - nell'aprile del 1994 - ha sancito la nascita dell'Organizzazione mondiale del commercio (WTO), con l'obiettivo di garantire una maggiore flessibilità del settore produttivo (delocalizzazioni) e l'abbattimento delle barriere protezionistiche negli scambi internazionali.
Dopo il primo accordo di associazione (1969) e quello successivo di cooperazione (1976), nel 1996 è stata siglata l'apertura di una zona di libero-scambio tra l'Europa ed il Marocco, conseguentemente all'instaurazione del partenariato euro-mediterraneo ("processo di Barcellona"). L'UE ha così aperto le prime corsie preferenziali (riduzione tariffe doganali su quote annuali prestabilite) ad alcuni prodotti agricoli del regno, incontrando tuttavia l'opposizione della Spagna, direttamente sollecitata dalla concorrenza marocchina sui suoi articoli di punta, pomodori e arance su tutti.
"La pressione delle lobby iberiche ha svuotato l'accordo della sua sostanza, riuscendo ad imporre nella trattativa un sistema di protezione non tariffario a difesa dei propri interessi, contrario agli stessi principi del WTO. La base di quell'intesa, fortemente penalizzante per le nostre esportazioni, non è stata intaccata dal nuovo accordo votato in febbraio", spiega il professor Akesbi, che sottolinea come non siano di certo i diritti di dogana ad ostacolare il commercio dei prodotti agricoli provenienti da sud, bensì il prezzo minimo di ingresso fissato dai paesi comunitari e i contingenti annuali "privilegiati", calcolati però su base mensile in funzione della stagione europea.
Secondo i termini del nuovo accordo, il 55% del valore delle merci made in Marocco avrà accesso al mercato UE senza il sovraccarico delle tariffe doganali (rispetto all'attuale 33%), mentre le quote delle derrate esenti da imposte sono riviste al rialzo: ad esempio 225 mila tonnellate per i pomodori (contro le 185 mila attuali), prodotto di punta dell'export marocchino, 50 mila tonnellate di zucchine (20 mila secondo i vecchi parametri), 3.600 tonnellate di fragole (rispetto alle 100 in vigore).
Tuttavia, nel testo votato dal PE, nessuna concessione è stata fatta "all'aberrazione del prezzo minimo di ingresso, calibrato - per ogni merce - sul costo di produzione del paese europeo meno efficiente, che in tal modo viene tutelato". Questo provvedimento, ricorda Najib Akesbi, annulla gli effetti della teoria dei vantaggi comparati, dogma del libero scambio in contesto internazionale dai tempi di Ricardo, e conferma la volontà protezionista dell'UE in materia di politica agricola. "Il coltivatore marocchino ha ben poco interesse nel produrre pomodori di qualità a prezzi concorrenziali, dal momento che la sua competitività viene neutralizzata. Senza contare che la tassa compensatoria, prevista in caso di violazione dei parametri, minaccia in molti casi di annullare i guadagni".
Numerose sono le argomentazioni apportate dalle lobby europee per giustificare un meccanismo in palese contrasto con le dichiarazioni filantropiche riversate dall'UE sul regno alawita (peraltro avallate dalla sua classe dirigente). La retorica più diffusa, come accennato, riguarda il grave pericolo costituito dalle esportazioni marocchine per le aziende e la stabilità dei mercati comunitari. "Una giustificazione ben poco credibile - incalza Akesbi - poiché le nostre esportazioni rappresentano meno del 3% del mercato in questione, una fetta irrisoria di cui i nostri imprenditori lamentano da tempo l'insufficienza. Invece, la contropartita offerta dall'accordo ai produttori europei è di gran lunga più consistente".
In virtù del principio di reciprocità, infatti, il Marocco dovrà liberalizzare il 45% delle importazioni agroalimentari provenienti dall'UE al momento dell'entrata in vigore dell'accordo (1° maggio 2012), il 61% dopo cinque anni e il 70% a dieci anni dalla ratifica, mentre il contingente attuale delle merci esenti da barriere tariffarie è appena dell'1%. Una manna per i grandi gruppi dell'Unione e per le sue industrie di trasformazione. Tra i prodotti che avranno libero accesso al mercato marocchino saranno compresi anche quei beni definiti "strategici"[2] da Rabat, come il grano e lo zucchero, fino ad ora oggetto di incentivi e politiche compensative da parte delle autorità. Ma sulle minacce e le ricadute negative che quest'apertura incondizionata potrà innescare su un tessuto produttivo scarsamente competitivo torneremo più avanti.
Quanto all'attuale bilancia agroalimentare tra Marocco e Unione europea ci sono altri aspetti, spesso passati sotto silenzio, che meritano di essere messi in evidenza. Ad esempio, i due principali partner economici del regno, Francia e Spagna, contano diverse aziende agricole installate a sud di Gibilterra. Anche i loro prodotti, considerati made in Marocco, vengono conteggiati nelle quote riservate all'export locale. "Sul totale di pomodori marocchini esportati in Europa, il fatturato spagnolo ammonta circa al 15%, sulle fragole può raggiungere il 50% e nel caso dei fagiolini gli operatori francesi assicurano il 55% del contingente annuale previsto", riferisce Mohamed Hakech, presidente della Fédération nationale du secteur agricole (FNSA), sindacato di categoria affiliato all'UMT (Union marocaine des travailleurs). Nella maggior parte dei casi, poi, le derrate di base  rientrano in territorio marocchino dopo essere state lavorate nelle industrie dell'UE.
Oltre a questa valutazione, per il professor Akesbi è necessario aggiungere al passivo della bilancia tutto il materiale che il Marocco acquista dall'Europa per ottimizzare la produzione e la commercializzazione. Vale a dire le semenze, i concimi (nonostante disponga della più importante riserva di fosfati al mondo), il materiale da lavoro e la logistica per il confezionamento e il trasporto delle merci. "Abbiamo fatto un calcolo assieme agli studenti del mio corso. Ogni 100 euro di prodotto esportato, l'UE ne guadagna a monte tra i 70 e gli 80, a seconda della varietà, e il valore aggiunto che ci rimane alla fine della transazione oscilla tra i 20 e i 30 euro. Per l'Europa l'accordo è vincente sia dal lato delle esportazioni che da quello delle importazioni, mentre il nostro sistema agroalimentare diventa sempre più dipendente e deficitario. Loro ci vendono il piatto forte e noi ricambiamo con qualche porzione di insalata e dessert. Cosa fa il governo marocchino di fronte a questa situazione? Si entusiasma per il leggero ritocco delle quote che ci vengono gentilmente concesse".

Ripensare il partenariato
Il paradosso, continua il professore dell'IAV, è ancor più "grave" se si considera che nello spazio di dieci anni il Marocco è passato dalla posizione di paese offerente a quella di "questuante": "fino alla fine degli anni novanta era l'Europa che ci supplicava di firmare gli accordi. In un decennio la situazione si è capovolta e i nostri rappresentanti si sono messi ad elemosinare pur di concludere le trattative, nel settore ittico come in quello agricolo".
Il riferimento è all'iniziale rifiuto, presentato dal PE nel luglio scorso, di sottoscrivere l'intesa sulla liberalizzazione dell'agroalimentare, a cui è seguito il mancato rinnovo dell'accordo sulla pesca citato in precedenza. Due colpi accusati duramente dalla diplomazia di Rabat, in cerca di approvazione e riconoscimento internazionale. Una mossa efficace, invece, per i mediatori europei, che hanno lasciato crescere la tensione sul versante marocchino - o meglio sulla ristretta cerchia di consiglieri del sovrano a cui sono state affidate le trattative, allo scuro del Parlamento e degli operatori del settore - per poi concludere i negoziati  a condizioni più vantaggiose.
Una delle conseguenze tangibili di questo processo è la progressiva riduzione dell'accesso dei prodotti made in Marocco in territorio comunitario, il 70% del totale dell'export agricolo negli anni sessanta e settanta, ridotto oggi al 20% circa. Nemmeno l'apertura di nuovi mercati[3] è servita ad invertire la crisi della bilancia commerciale di settore (che riflette quella della bilancia globale). Secondo i dati pubblicati nel saggio La nouvelle stratégie agricole du Maroc annonce-t-elle l'insécurité alimentaire du pays?[4], le esportazioni dell'agroalimentare sono passate infatti dal doppio delle importazioni (inizio anni settanta) ad una media di appena il 46% nel periodo 2000-2004 (esclusi prodotti ittici).
"Fin dal primo accordo di associazione siglato tra il Marocco e la CEE nel 1969 abbiamo assistito alla bella retorica sulla promozione delle esportazioni come motore trainante dello sviluppo nazionale - spiega Najib Akesbi - ma cosa constatiamo oggi? Il principale ostacolo alla crescita - sul piano macroeconomico - è proprio il commercio estero e l'aumento vertiginoso delle importazioni, che pesano sul debito, supportato in gran parte dai finanziamenti internazionali. Le transazioni con l'Unione europea, in tutto questo, sono divenute sistematicamente deficitarie".
Per l'economista marocchino è arrivato il momento di ripensare alle fondamenta stesse del partenariato, definito "avanzato" e "moderno", ma ancora legato a logiche di sfruttamento dal sapore coloniale. Esempio emblematico, sotto questo aspetto, è l'accordo sulla pesca (2006-2010) che ha sancito la libertà di depredazione delle risorse alieutiche in acque territoriali marocchine da parte delle barche europee (essenzialmente spagnole) in cambio di una semplice contropartita finanziaria, facendo ben poco per lo sviluppo del settore nel paese. "Un modello adottato dalle grandi compagnie del Vecchio continente nel XIX secolo", tuona il nostro interlocutore.
Anche sul piano della promozione dei diritti, delle regole di trasparenza e della tutela dei lavoratori, le ricadute del partenariato sembrano quantomeno aleatorie. Come denunciato dalle molteplici iniziative della FNSA[5], gli operai del settore agricolo impiegati nei grandi gruppi esportatori (poco più di una decina in tutto il paese) lamentano condizioni di lavoro disumane - non rispetto degli orari giornalieri e delle tutele giuridiche, assenza di copertura sanitaria, remunerazione insufficiente della manodopera (salario minimo fissato a 140 euro mensili) - e la costante minaccia di licenziamento per i salariati sindacalizzati (la cui percentuale è tuttora insignificante). Condizioni che si aggravano nel caso delle operaie, spesso vittime di abusi e violenze sul posto di lavoro[6].
Quanto ai piccoli imprenditori che si affidano ai centri di smistamento di zona per la distribuzione, l'opacità del sistema rende impossibile l'intervento dell'agricoltore sulla vendita dei prodotti e un controllo sulla natura del guadagno, spesso soggetta alla discrezionalità degli intermediari e dei grossisti (i cui passaggi restano ignoti). "L'UE impone il bollino di qualità e la tracciabilità tecnica delle esportazioni, ma non si interessa alla tracciabilità economica. In altre parole, non si preoccupa di democratizzare il circuito produzione-commercializzazione dei suoi partner", riferisce Najib Akesbi, che poi aggiunge: "la primavera araba ha rivelato l'aspirazione dei popoli della sponda sud del Mediterraneo alla dignità e all'uguaglianza, un'aspirazione a lungo elusa dai governi locali e dai loro alleati occidentali. In tale contesto, il riequilibrio delle relazioni euro-mediterranee è necessario e improrogabile".

"Prima la riforma interna e poi l'apertura esterna"
Per il Marocco, tuttavia, le conseguenze negative dell'accordo concluso lo scorso febbraio non dipendono solo dalle misure imposte dall'Unione europea, ma anche dalle carenze strutturali della sua politica agricola, su cui continuano a incidere gravi handicap quali la disponibilità limitata di risorse naturali (acqua), l'estrema parcellizzazione delle terre, la volubilità dei fattori climatici a cui spesso è soggetto il raccolto (pioggia) e lo stato di povertà in cui versa la maggioranza della popolazione rurale.
Sul totale della superficie coltivabile a disposizione (9,3 milioni di ettari), solo il 22% viene lavorata in condizioni concorrenziali, con irrigazione costante, e può essere definita "produttiva", mentre il 70% è affidato a coltivazioni estensive nelle mani dell'indice di pluviometria e il restante 8% all'agricoltura di sussistenza. Rileggendo questi dati da un'altra prospettiva, solo il 2% delle aziende del settore - su circa un milione e mezzo recensite - sembra essere competitivo sul piano internazionale.[7]
"Se consideriamo che un ettaro di superficie coltivata a cereali in Marocco ha un rendimento medio di 12 quintali mentre in Francia arrivare anche a 100, il futuro che ci aspetta non può che destare inquietudine", è il parere del professor Akesbi. "Messa a confronto con i sistemi produttivi del nord l'agricoltura marocchina, priva di competitività salvo la fetta consacrata all'esportazione, è incapace di raccogliere le sfide e i rischi dell'apertura dei mercati. In simili condizioni c'è addirittura il timore che le coltivazioni vulnerabili e quelle di sussistenza - largamente maggioritarie - cadano in rovina, con conseguenze disastrose dal punto di vista socio-economico".
Oltre agli effetti negativi sull'occupazione, infatti, la progressiva scomparsa delle coltivazioni estensive, essenzialmente cerealicole, metterebbe ancor più in pericolo la sicurezza alimentare del paese, già fortemente minacciata dall'accresciuta dipendenza con l'estero nell'approvvigionamento dei prodotti "strategici". Nel 2010, ad esempio, il regno maghrebino ha importato 3,8 milioni di tonnellate di grano sui 7 consumati, mentre il 70% dell'import agroalimentare ha interessato cereali, zucchero, latticini ed olio.
Anche il piano "Maroc Vert", lanciato nel 2008 dal governo di Rabat con l'intento di aumentare gli investimenti agricoli e modernizzare il settore, non sembra in grado di risolvere l'impasse sulla questione della sicurezza alimentare. Le filiere privilegiate dal progetto e dal dispiegamento di capitali restano, in gran parte, quelle destinate all'esportazione (agrumi, frutta, orticoltura). "Il piano - commenta l'economista - non risponde ai bisogni reali e prioritari della popolazione, che uno Stato dovrebbe preoccuparsi di nutrire con il miglior rapporto qualità/prezzo. Le misure previste, piuttosto, cercano di estendere il modèle tomatier, intensivo e dannoso per l'equilibrio dell'ambiente, nella speranza di ottenere guadagni in valuta straniera spesso deludenti".
Per il professor Akesbi in fondo, il problema dell'agricoltura marocchina è costituito proprio dal ritrovarsi inserita in un processo di integrazione al mercato mondiale in un momento in cui non ha ancora beneficiato di alcuna riforma strutturale per mettersi al passo. La sottoscrizione di accordi di libero-scambio, in questa prospettiva, non rappresenta un incentivo alla lotta contro la povertà o all'incremento della crescita economica, legate invece ad una riforma fondiaria attesa da cinquant'anni, alla concessione di maggiori finanziamenti alle coltivazioni di base per renderle performanti e ad una nuova strategia di fornitura idrica da sostituire al fallimento della politica delle dighe.
"La sequenza è logica", conclude il nostro interlocutore. "Prima le riforme interne e poi l'apertura esterna. Al contrario, il processo frenetico di liberalizzazione a cui stiamo assistendo è un modello insostenibile poiché priva di protezioni vitali il tessuto produttivo dei paesi del sud in una fase di sviluppo ancora incerta".


[1] N. AKESBI, L'agricolture marocaine à l'épreuve de la libéralisation, Economie Critique, 2008.
[2] I prodotti strategici tutelati fino ad ora da Rabat con barriere tariffarie sono: cereali, zucchero, carne, olio e latticini.
[3] Oltre a quello in vigore con l'Unione europea, il Marocco ha concluso un accordo di libero-scambio con gli Stati Uniti (2004), uno con i partner della Lega araba (firmato nel 1981 e attivo dal 1998), un accordo "quadripartito" con Tunisia, Egitto e Giordania (2004), uno con la Turchia (2004) e infine con gli Emirati Arabi Uniti (2001).
[4] N. AKESBI, "La nouvelle stratégie agricole du Maroc annonce-t-elle l'insécurité alimentaire du pays?", Confluences Méditerranée, n. 78, été 2011, pp. 93-105.
[5] Si veda a questo proposito l'articolo Maroc : Les ouvrier(e)s agricoles (FNSA/UMT) organisent un sit-in national à Rabat le 15 Décembre 2011, in http://www.europe-solidaire.org/spip.php?article23759.
[6] Si veda a questo proposito il reportage radiofonico della giornalista Hind Bennani, Harcelées au quotidien, in http://www.qandisha.ma/2012/02/02/harcelees-au-quotidien-reportage-radio/.
[7] Fonte: Ministère de l'Agriculture, du Développement Rural et des Pêches Maritimes (MADRPM, 1998).

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