E'
passato un anno da quando le strade del regno alawita, sulla scia del
sollevamento tunisino ed egiziano, si sono riempite per la prima volta al grido
"dignità, libertà e giustizia sociale". Era il 20 febbraio 2011, una
data ormai simbolo per i democratici marocchini, nonostante il magro bottino
ottenuto dalle iniziative del movimento omonimo. La monarchia è riuscita ad
assorbire l'impatto della protesta senza rinunciare alle sue prerogative, anche
se una nuova ondata di contestazioni - a carattere sociale - sembra minacciarne
la stabilità.
Verso una "seconda
indipendenza"
La
“primavera marocchina”, sbocciata in rete e tradottasi rapidamente in azione
non-violenta, è riuscita a superare i contrasti ideologici e i vecchi rancori
che per decenni avevano diviso e indebolito gli oppositori della monarchia e
del suo sistema di potere autoritario (makhzen).
L’appello lanciato dai giovani del “20 febbraio” è stato accolto dai militanti
delle associazioni per i diritti umani e da quelli della sinistra radicale,
oltre agli attivisti amazigh (berberi) e ai membri dell’organizzazione islamica
Giustizia e Spiritualità. Un collettivo inedito ed eterogeneo che ha trovato
l'accordo su una piattaforma comune di rivendicazioni, ma ha rinunciato a
formulare un progetto sociale e politico alternativo attorno a cui catalizzare la
spinta per il cambiamento.
La
contestazione ha messo sotto accusa il regime, le pratiche clientelari e la
corruzione su cui si regge, oltre al monopolio monarchico della sfera
decisionale, invocando una nuova costituzione democratica dove "il sovrano
regna ma non governa". «Non siamo più
sudditi ma cittadini, decisi a reclamare i nostri diritti e le nostre libertà. Dopo
la liberazione nazionale, la lotta per la democrazia rappresenta una seconda
indipendenza improrogabile. Dalla fine del Protettorato viviamo in uno stato di
occupazione interna, dove la polizia, la classe politica e l'oligarchia
economica non sono al servizio del popolo e delle sue esigenze. E' arrivato il
momento di chiudere i conti con una gestione del potere arcaica e
personalistica, che ci ha negato la dignità», dichiarava un attivista
durante la prima giornata di mobilitazione, che ha interessato più di cinquanta
prefetture del regno.
Da
allora cortei e sit-in, organizzati in maniera autonoma dai coordinamenti locali
che formano il movimento, hanno assunto una frequenza sempre più intensa e
partecipata, complice anche il vento di rivoluzione propagatosi nell'intera
regione mediorientale. La pressione popolare ha raggiunto il suo apice il 24
aprile, pochi giorni prima dell'attentato a Marrakech, quando 700 mila persone
sono scese a manifestare in oltre cento città e villaggi, scandendo gli stessi
slogan: mamfakinch! ("non molleremo"),
ash al-sha'b! ("viva il
popolo").
Nemmeno
l'esplosione al Café Argana (28 aprile) ha fermato le iniziative del “20
febbraio”, nonostante le autorità si siano servite della minaccia terrorista (sull’inchiesta,
chiusa in pochi giorni, restano ombre pesanti) per criminalizzare il dissenso. Gli
attivisti hanno pagato per la loro insubordinazione e durante tutto il mese di
maggio hanno subito la repressione del regime (arresti, cariche violente contro
i cortei pacifici), che ha portato alla morte del manifestante Kamal Omari a
Safi (2 giugno).
Da
quel momento Rabat è tornata a ridurre l’uso della forza, privilegiando gli
attacchi mediatici ai dissidenti, gli arresti mirati (ad esempio Saddik Kabbouri,
leader sindacale della ribelle Bouarfa, o il rapper L'haqed, la voce del
"20 febbraio" a Casablanca) e l’allestimento di contro-manifestazioni
in sostegno al monarca, che in più di un’occasione hanno sfiorato il linciaggio
dei membri del movimento. E’ in questo clima che si è svolto il referendum
sulla nuova costituzione voluta da Mohammed VI, presentata all’opinione
pubblica come «la grande svolta
democratica» e «la rivoluzione del
sovrano».
La risposta del regime
In
un paese dove l'indice di povertà colpisce circa un terzo della popolazione
(28%, fonte UNDP 2010) e il tasso di disoccupazione giovanile in contesto
urbano supera il 30%, il regime è sembrato consapevole del pericolo esplosivo
dettato dalla congiuntura storica ed ha cercato di ridurre l'impatto della
"primavera araba", parallelamente all'evolversi della contestazione.
Il
governo guidato dal nazionalista Abbas al-Fassi - alla fine del gennaio scorso
- ha aumentato il budget a disposizione della Caisse de compensation per calmierare i prezzi dei beni di prima
necessità, cercando così di stemperare un diffuso malcontento sociale. Le
"misure d'urgenza" sono proseguite il mese successivo, quando i
rappresentanti del gabinetto reale e del ministero dell'Interno sono scesi a
patti con i gruppi organizzati dei diplomés-chomeurs
(laureati disoccupati), in sit-in aperto sulle vie della capitale: nei termini
dell'accordo, la promessa di mille assunzioni progressive in cambio dell'abbandono
immediato della protesta e l'impegno a non aderire alle mobilitazioni del 20
febbraio. Inoltre, per mettere fine agli ammiccamenti tra il fronte sindacale
(o almeno delle principali confederazioni) e il movimento dissidente,
l'esecutivo ha votato in aprile l'innalzamento del 15% del salario minimo e un aumento
di 600 dirham (circa 60 euro) sullo stipendio mensile dei dipendenti pubblici.
Una misura che ha praticamente bloccato gli scioperi di categoria in costante
aumento fino ad allora.
Anche
sul piano politico la reazione della monarchia è stata immediata. Il 9 marzo, a
pochi giorni dalle prime manifestazioni, Mohammed VI ha annunciato l'avvio di un
«cantiere di riforme istituzionali»,
volto a rafforzare il ruolo del governo e del Parlamento, e la nomina di una
commissione reale per la modifica della costituzione. Ma la genuinità dei buoni
propositi, accompagnati dalla scarcerazione di alcuni detenuti politici, è sembrata
subito compromessa dalla nuova ondata di arresti all'indirizzo degli attivisti
e dagli interventi violenti della polizia contro le iniziative pacifiche del
movimento (12 marzo, 15-22-29 maggio). Episodi che sono valsi alle autorità di
Rabat il rimprovero delle ong internazionali per i diritti umani e dell'Unione
europea, mai prodiga alle critiche verso il regno maghrebino, con cui ha tessuto
negli ultimi anni una fitta rete di relazioni politiche ed economiche (statuto
avanzato, accordi di libero scambio).
Tuttavia,
in un panorama mediatico imbavagliato dal riemergere della censura (processi
per diffamazione e boicottaggio pubblicitario), la stampa e i canali di regime hanno
avuto gioco facile nel gettare discredito sul "20 febbraio",
tratteggiando i giovani dissidenti come «agitatori»
e «nemici della nazione» e
serrando i ranghi a difesa della monarchia e del suo processo di riforma. Chi
invece ha cercato di cavalcare l'onda della contestazione, come il giornalista
Rachid Nini (direttore di al-Massae,
il quotidiano più letto nel paese), si è ritrovato in carcere, reo di aver
attaccato nei suoi editoriali l'operato della polizia politica.
Terminati
i lavori della commissione reale, la nuova costituzione - la sesta dal 1962 - è
stata presentata il 17 giugno e sottoposta a referendum in tempo record (1°
luglio), considerando che il paese lamenta un tasso di analfabetismo oltre il
40%. La propaganda del makhzen si è
servita perfino delle confraternite sufi e delle moschee - alle dipendenze del
ministero degli Affari religiosi - per far passare il messaggio: «votare sì è un dovere nazionale». Il
plebiscito delle urne, nonostante gli appelli del movimento al boicottaggio «contro le finte riforme e le concessioni di
palazzo» e le numerose irregolarità riscontrate al momento del voto, ha
offerto nuova legittimità alla monarchia e ha tolto linfa vitale al "20
febbraio".
I
partiti politici (escluse le piccole formazioni della sinistra radicale), i
sindacati e gran parte del settore associativo si sono schierati a sostegno
dell'iniziativa reale, voltando le spalle - in certi casi -ai dissidenti, mentre
sul piano internazionale le cancellerie occidentali hanno osannato la nuova
costituzione, sebbene il testo non sancisca un'effettiva divisione dei poteri,
il sovrano mantenga il monopolio sostanziale della sfera decisionale e conservi
l'attributo di supremo vertice religioso in un sistema confessionale.
Tutt'altro che secondario in questo processo è stato il ruolo giocato dalla
diplomazia francese, pronta a difendere i propri interessi nel paese e ad
evitare ulteriori destabilizzazioni nella regione.
Dopo
l'approvazione del referendum, il secondo passo sul cammino della riforma è
stato lo scioglimento del governo e del parlamento in carica - tra i bersagli
privilegiati della protesta - e la convocazione di elezioni legislative
anticipate (25 novembre). Anche in questo caso, nessuna vera sorpresa
dall'esito della consultazione, che per la prima volta ha visto il
dispiegamento nei seggi degli osservatori internazionali.
«La vittoria del
partito islamico - secondo il professor Maati Monjib (Saban
Center for Middle East Policy) - era la
sola carta in mano al regime per dare credibilità all'evento e dare fondamento alla
retorica del cambiamento. Il PJD [Partito della giustizia e dello sviluppo] è
l'unica formazione, da sempre all'opposizione, a godere di una solida assise
elettorale. Niente di meglio che lasciarlo accedere al governo, tanto più che durante
la protesta si è dimostrato leale alla monarchia, contribuendo alla campagna
per la nuova costituzione e frenando le ambizioni movimentiste della sua base
giovanile. Una scelta che attendeva di essere ricompensata».
Il
basso tasso di affluenza (45%) invece, più che una conseguenza dell'invito
all'astensione diffuso ancora una volta dal movimento, è stata la conferma del
divario esistente tra i partiti e la popolazione, che conta tra gli iscritti
alle liste elettorali poco più della metà dei potenziali votanti. «Da un lato le forze politiche di massa uscite
dal movimento nazionale [socialisti e nazionalisti] hanno smarrito la loro
identità, assorbite da un sistema che le ha private di contenuto, dall'altro
c'è la consapevolezza che il voto ha ben poca incidenza sul processo
decisionale. Negli ultimi dieci anni sono venuti meno i filtri tra il sovrano e
il popolo, una situazione che espone sempre più la monarchia alla contestazione
diretta», conclude l'analisi il professor Monjib.
"Una polveriera
pronta ad esplodere"
Ad
un anno dall'inizio delle mobilitazioni, il "20 febbraio" continua a
reclamare democrazia e dignità. La sua voce non si è spenta, anche se le ultime
iniziative sembrano aver perso vigore, logorate dai lunghi mesi di
manifestazioni, dalla capacità del regime di "gestire" la protesta e
dal ritiro dell'associazione islamica Giustizia e Spiritualità (dicembre 2011) dai
ranghi della contestazione. Il movimento resta comunque uno spazio inedito di emancipazione
e l'emblema di un risveglio della coscienza collettiva. La sua azione è servita
a riaprire il capitolo stagnante della transizione politica - dopo la parentesi
di fine anni novanta, segnata dalla precedente riforma costituzionale (1996) e dal
"governo di alternanza" (1997-2002) - nonostante il cambiamento
ottenuto sia per ora soltanto formale.
La
monarchia, resiliente, è riuscita ad assorbire l'onda d'urto della
"primavera" senza intaccare le sue prerogative e a dare prova di
solidità. Tuttavia, evitando di ricorrere ad una trasformazione di fondo del
sistema, ha rinunciato alla possibilità di mettersi al riparo da nuove
pressanti tensioni.
L'esecutivo
di stampo islamista, sceso a patti con alcuni partiti di regime per ottenere la
maggioranza parlamentare, ha già dimostrato docilità e subordinazione alle
direttive di Mohammed VI e del gabinetto reale (vero e proprio governo ombra). Il
PJD ha accettato la nomina dei "ministri di sovranità" imposti dal
palazzo ed ha incassato in silenzio la promozione a consigliere monarchico di
Fouad Ali El Himma - una figura che ben rappresenta l'intreccio tra interessi
privati e incarichi istituzionali alla base della cancrena clientelare, mentre i
codici più restrittivi (penale, stampa) non sono oggetto di dibattito e la
critica al sovrano continua ad essere punita con la condanna al carcere (gli
ultimi due casi nel febbraio 2012).
Ma,
più che gli attacchi alla libertà di espressione, è il riemergere della
contestazione sociale che rischia di destabilizzare il regno alawita. Nonostante
il dato di crescita macroeconomica rimanga elevato (4,6%), la società
marocchina versa in una diffusa condizione di precarietà. Il divario tra
l'elite e la maggioranza della popolazione - tanto in contesto nazionale che
locale - avanza di pari passo alla retorica sullo "sviluppo", mentre
nessun intervento strutturale sta cercando di assicurare una più equa
redistribuzione della ricchezza, o di combattere l'economia di rendita,
l'assenza di trasparenza e il monopolio di corte sui settori strategici
(minerario, agroalimentare, immobiliare, bancario).
«Le misure di emergenza
adottate nel corso del 2011 sono provvedimenti estemporanei, finalizzati al
conseguimento immediato della pace sociale. L'aggravarsi del deficit pubblico e
della bilancia dei pagamenti le rende insostenibili, come insostenibili sono i
costi del makhzen e del suo apparato di controllo. In assenza di elementi di
rottura, il paese resta una polveriera pronta ad esplodere»,
riferisce l'economista Fouad Abdelmoumni.
Le
prime detonazioni, in questo inizio 2012, hanno già fatto tremare le autorità
di Rabat. I gruppi organizzati dei disoccupati sono tornati a manifestare in
massa e gli interventi violenti della polizia hanno contribuito a radicalizzare
la protesta. Nella capitale quattro chomeurs
si sono dati alle fiamme di fronte al ministero dell'Insegnamento, mentre a
Taza le marce pacifiche sono sfociate in rivolta e l'onda del sollevamento si è
propagata nei villaggi vicini. La zona è militarizzata.
Per
capire meglio la distanza e l'incomprensione che tuttora separa i responsabili
politici dai bisogni quotidiani del cittadino medio, la scelta delle priorità
nel campo degli investimenti pubblici rappresenta forse l'esempio più
indicativo. Esiste un Marocco che per iscriversi nella parabola della modernità
e del progresso ha deciso di finanziare un progetto da oltre 20 milioni di euro
(4% del Pil) per la costruzione del TGV Tangeri-Casablanca. Esiste un altro
Marocco, di gran lunga maggioritario, che quel treno non potrà mai prenderlo,
ma esige servizi e infrastrutture di base, nuovi posti di lavoro, il sostegno
alla piccola e media impresa e una miglior gestione delle risorse locali. Queste
due realtà inconciliabili, allo stato attuale, sembrano destinate a scontrarsi.
Rabat, 2 marzo 2012
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