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martedì 3 luglio 2012

La rivolta contadina di Douar Chlihat e il Marocco “a due velocità”

Il douar (villaggio rurale) di Chlihat, situato tra Larache e Ksar Kebir, nella parte nord-occidentale del Marocco, raggruppa circa trecento caseggiati costruiti con terra e legno per un totale di duemila abitanti. La piana del Gharb, questo il nome con cui è conosciuta la regione, è una delle zone di maggior produzione agricola del paese.






I suoi terreni sono fertili, ben irrigati e provvisti - già dal tempo della colonizzazione spagnola - delle infrastrutture necessarie per una coltivazione di tipo intensivo, finalizzata quasi esclusivamente all’esportazione.
Ciò nonostante la popolazione di Chlihat - come pure quella degli altri villaggi sparsi nella regione, che cercano di resistere alla voracità delle grandi aziende - non sembrano beneficiare delle stesse opportunità e condizioni. I contadini e le rispettive famiglie sopravvivono grazie all’allevamento e ai magri raccolti forniti dalle “terre collettive”, la cui estensione si è progressivamente ridotta nel tempo per lasciar spazio allo sfruttamento industriale.
Da queste parti la disoccupazione giovanile supera ampiamente la media nazionale del 30% e, per chi non riesce ad ottenere un impiego come bracciante stagionale nella raccolta delle fragole, non resta altra scelta che tentare l’emigrazione verso le metropoli o all’estero.
Ma nel territorio che circonda Chlihat non si coltivano soltanto fragole. La società spagnola Ribera del Arroz, insediatasi nella zona al tempo dell’apertura economica imposta dal Fondo monetario internazionale, è una delle più note produttrici di riso del panorama europeo. Dal 2007 ha ottenuto in concessione dallo Stato marocchino circa 4 mila ettari di terra “ad un prezzo di affitto irrisorio - 400 dirham all’ettaro (meno di 40 euro) - cento volte inferiore alle tariffe di mercato correnti”, riferisce Souad Guennoun, attivista di Attac Maroc. Per il governo di Rabat si tratta di una prassi consolidata, volta ad attirare, oltre che per il basso costo della manodopera, l’ingresso delle multinazionali straniere nel paese.
Come ogni anno da allora, in primavera, la Ribera inizia la lavorazione e l’invaso dei terreni. La coltivazione del riso necessita infatti di un costante afflusso d’acqua, da molti considerato eccessivo vista la generale carenza di risorse idriche per i contadini locali. In più la presenza di acqua stagnante causa la proliferazione di insetti e zanzare che, con l’aumento delle temperature estive, rendono impossibile la vita nel douar. Gli abitanti del villaggio non sono disposti a sopportare, presentano esposti alle autorità e ai vertici della società spagnola, ma non nascondono la speranza che la vicina risaia possa offrire per lo meno lavoro ai giovani, evitando di vederli partire per cercare fortuna altrove.
Secondo Said Kharraz, attivista dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani) di Larache, nel 2009 sarebbero state avviate delle trattative tra l’azienda e alcuni rappresentanti della popolazione “concluse con la promessa di ingaggio di cinquecento contadini disoccupati. Fino ad oggi però sono soltanto dodici le assunzioni effettuate”.
Così nell’aprile scorso le proteste si intensificano. Vecchi e giovani si organizzano, riunendosi in assemblea permanente, e presentano di nuovo le loro doléances: serve una soluzione immediata ai problemi della gestione idrica, delle zanzare e della disoccupazione. Le promesse non bastano più. Ma il colosso del riso, forte dell’appoggio delle autorità che minacciano subito i membri dell’assemblea, non è più disposto a trattare.
In giugno la contestazione raggiunge il suo apice e la situazione a Douar Chlihat degenera. Gli abitanti occupano gli accessi alla risaia e impediscono ai mezzi della ditta di accedere ai terreni. Il 14 giugno iniziano gli scontri tra i contadini e le forze di polizia, che circondano la zona e danno la caccia ai manifestanti per diversi giorni. Le testimonianze raccolte da alcuni attivisti della società civile (tra cui l’AMDH), che hanno animato una carovana di solidarietà giunta sul posto il 20 giugno, confermano la gravità della situazione.
“Non siamo delinquenti - afferma Jamel (pseudonimo), un disoccupato del villaggio che si è dato alla macchia per sfuggire alla violenza degli agenti - slogan e striscioni erano le nostre uniche “armi”. Cercavamo di bloccare i trattori in marcia verso il campo. Ma un europeo al volante di un automezzo non si è fermato ed ha investito una donna anziana. Allora un ragazzo del corteo ha risposto lanciando sassi. E’ stato l’inizio dell’inferno, in pochi minuti la polizia ha cominciato a caricare con manganelli, proiettili di gomma e gas lacrimogeno”.
Secondo un altro testimone, quello stesso giorno gli agenti avrebbero ucciso una vacca e bruciato parte del raccolto. Ma la “punizione” inflitta a douar Chlihat non si limita a questo. Nelle ore successive, mentre i feriti rifiutano di andare in ospedale per paura di essere denunciati e si nascondono nelle vicine foreste di eucalipti, i poliziotti penetrano nel villaggio e sorprendono gli abitanti rimasti. “E’ stata una vera e propria razzia, un saccheggio e un’aggressione brutale che non ha risparmiato oggetti né persone, né donne né bambini”, racconta Said Kharraz. Ad accompagnare l’operazione ci sono anche gli elicotteri e gli idranti (si è parlato perfino dell’utilizzo dell’esercito, non confermato dalle autorità), mentre tutta la regione viene isolata con posti di blocco.
Lo scenario descritto riporta alla mente quanto accaduto nei mesi scorsi a Taza e poi ad Ait Bouayach, un modus operandi che ha il sapore della ritorsione contro la disobbedienza e l’insubordinazione, come se un anno di “primavere”, di contestazioni e di cambiamenti veri o presunti sia trascorso invano.
Quando la carovana arriva sul posto, ad una settimana dai primi scontri, Chlihat sembra essersi trasformato in un villaggio fantasma. I ragazzi sono ancora alla macchia, feriti e spaventati. “Alcuni scappano appena ci vedono, altri si lasciano avvicinare e parlano, raccontano, ci mostrano le lesioni. Un giovane ha perso un occhio dopo essere stato colpito da un proiettile di gomma. In molti non sono più andati a scuola ed hanno saltato gli esami di maturità per timore di essere arrestati lungo il cammino. Se ne stanno rintanati nella foresta da giorni, senza bere e senza mangiare”, riporta Souad Guennoun, partita da Casablanca assieme agli altri attivisti.
Poi, dalle case all’apparenza deserte, si fanno avanti le donne, anch’esse con la paura nello sguardo e addosso i segni delle violenze. Ci mettono un po’ ad abbattere il muro della diffidenza, ma appena iniziano a parlare sembrano non volersi più fermare e sfogano una rabbia tenuta dentro troppo a lungo. “Raccontano del loro villaggio e delle ingiustizie subite, dei giorni neri della repressione e delle zanzare che si divorano i bambini. Parlano della società spagnola che è all’origine dei loro problemi, di questi stranieri che arrivano per prendere tutto ed offrono poco o nulla in cambio, delle terre che gli appartengono cedute per un niente ai ricchi mentre i loro ragazzi rimangono senza lavoro. E poi ancora le zanzare che, come i poliziotti, invadono il territorio e terrorizzano tutti”, prosegue la testimonianza della militante di Attac.
Secondo il rapporto dell’AMDH, sarebbero circa un centinaio gli abitanti del douar rimasti feriti durante l’intervento. Imprecisato è invece il numero di quelli finiti in arresto, tra cui un attivista locale della stessa associazione, Yachi Riyahi, che comparirà in tribunale con l’accusa di “raduno armato, occupazione di suolo pubblico e insulti agli agenti”.
La rivolta dei contadini di Chlihat è stata sedata senza che il focolaio della sommossa sia riuscito a contagiare i villaggi e le località limitrofe, grazie anche all’imponente dispiegamento di sicurezza (1500 effettivi) messo in atto dalle autorità. Tuttavia Chlihat è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di sollevazioni (Sefrou, Imilchil, Sidi Ifni, Imider..) che negli ultimi anni hanno coinvolto le aree marginali di un Marocco a due velocità. Un Marocco dove lo “sviluppo” è sempre più sinonimo di disuguaglianza sociale, di grandi aziende e progetti faraonici spesso in contrasto con i diritti e la dignità dei cittadini.



(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica

1 commento:

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