Domenica 20 novembre migliaia di attivisti democratici hanno risposto all'appello del Movimento 20 febbraio ed hanno manifestato pacificamente in numerose città del regno alawita, chiamando al boicottaggio delle elezioni legislative previste per venerdì prossimo e invocando la liberazione dei detenuti politici finiti in arresto dall'inizio della contestazione.
La pioggia incessante non è riuscita a fermare i tremila manifestanti che domenica pomeriggio si sono dati appuntamento in piazza Bab el-Had, nel centro della capitale marocchina. Il corteo ha costeggiato le mura della medina, sotto lo sguardo attento degli agenti anti-sommossa, ed ha raggiunto la sede del Parlamento, esprimendo un rifiuto intransigente al "simulacro di democrazia" offerto dal regime con la nuova costituzione (approvata il 1° luglio scorso) e con le elezioni anticipate della camera bassa dell'assemblea.
Mamsawtinsh, mamsawtinsh! ("non voteremo!") è lo slogan intonato dai giovani dissidenti dall'inizio alla fine della marcia, oltre ai canti più noti che hanno accompagnato le "primavere arabe", come ash'ab yurid isqat annidham! ("il popolo vuole far cadere il regime!").
A nove mesi dal primo appuntamento, il Movimento 20 febbraio è tornato in strada numeroso e pacifico, nonostante gli arresti e le intimidazioni subite nelle ultime due settimane. Mamfakinsh! ("non molleremo!"), l'appello alla mobilitazione nazionale è stato accolto in oltre settanta città e villaggi del regno, dove gli attivisti hanno occupato le piazze e le vie principali per ribadire un diritto al dissenso negato, in modo ancor più flagrante durante la campagna elettorale, dalla quasi totalità dei media. Le forze di sicurezza, dal canto loro, hanno lasciato sfilare i cortei, rinunciando alle cariche violente registrate nei mesi di maggio e di ottobre.
Le manifestazioni più imponenti si sono svolte a Tangeri, solido bastione della contestazione, e a Casablanca, ma le dimostrazioni hanno interessato tutti i maggiori centri del paese, tra cui Fes, Marrakech, Meknes, Tetuan e Agadir. "Non contateci, ascoltate piuttosto la nostra voce", è l'invito rivolto da una manifestante alle autorità, impegnate dal febbraio scorso a minimizzare l'impatto delle proteste sulla popolazione.
Elezioni prive di entusiasmo
Pur sorvolando sui numeri, resta comunque l'evidenza. Le parole d'ordine del movimento, "libertà, dignità e diserzione delle urne", sono riuscite ancora una volta a mobilitare migliaia di persone in tutto il territorio, mentre i partiti fanno fatica a riempire le sale delle loro conferenze e l'accoglienza riservata ai candidati nei quartieri, nella maggioranza dei casi, è tutt'altro che calorosa.
Come sottolineato pochi giorni fa dalla delegazione dell'APCE (Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa) in visita a Rabat, le elezioni del 25 novembre non sembrano suscitare molto entusiasmo e la campagna elettorale è vissuta con scarso interesse da una popolazione che ripone nello scrutinio ben poche speranze di cambiamento. Da una parte l'incidenza dell'appuntamento nella gestione politica ed economica del paese è quasi inesistente, nonostante il regime abbia ampiamente celebrato il "cammino democratico" - intrapreso con l'adozione della nuova costituzione - di cui la consultazione del 25 novembre rappresenterebbe il coronamento; dall'altra le forze politiche che dovrebbero approfittare delle "aperture" concesse dal regime hanno ormai perduto credibilità.
"Dal 1999 ad oggi, la dialettica politica marocchina, che era rimasta viva e feconda pur negli anni della clandestinità e della repressione violenta ("anni di piombo", nda), è praticamente morta", spiega il professor Maati Monjib dell'Institut des Etudes Africaines (università di Rabat). "I singoli rappresentanti, provenienti dalle elite locali, sono stati assorbiti negli ingranaggi di una gestione dello Stato che è rimasta prerogativa esclusiva della monarchia. Sono entrati a far parte del governo ed hanno dimenticato le rivendicazioni iscritte nei loro stessi programmi. Per questo motivo i partiti si sono svuotati di peso e di significato nell’ultimo decennio. Sono diventati delle scatole prive di contenuto, prive di idee e di progetti sociali e politici ed hanno perduto legittimità agli occhi della gente, che li vede come apparati burocratici proni al sistema di potere nell'intento di sedere alla sua tavola". A sostegno delle considerazioni del professor Monjib i dati delle ultime legislative, quando solo un marocchino su cinque degli aventi diritto ha espresso una preferenza.
Nemmeno l'adozione della nuova carta sembra aver ridotto la distanza che separa la popolazione dalle istituzioni e dalla gestione politica. Del resto il sovrano continua a mantenere il monopolio dei poteri e rimane al di sopra della stessa costituzione. Il controllo del governo, della giustizia, degli organismi di sicurezza e dell'esercito restano una sua prerogativa, come pure le peculiarità della sfera religiosa. In questo quadro, riferisce un membro del movimento, "le elezioni servono solo ad offrire una facciata democratica al regime, un paravento per costruire alibi a cui poi attribuire la responsabilità dei fallimenti delle politiche di governo, mentre chi detiene il potere decisionale non viene chiamato a renderne conto. Il sovrano e gli esponenti politici non fanno altro che parlare di riforme, intanto la condizione sociale si sta facendo sempre più grave". Ultimo dato, l'arretramento del Marocco alla 130esima posizione nella classifica del UNDP (United Nations Development Programme), mentre il debito estero e interno del paese è in aumento, l'economia resta nelle mani di una ristretta cerchia di affaristi, tra cui il monarca stesso e i suoi consiglieri, il 70% della popolazione è sprovvista di copertura medica, il 30% non ha accesso alle forniture d'acqua e di elettricità e l'analfabetismo affligge ancora la metà degli abitanti.
La repressione "morbida" del dissenso
Ai lati del corteo che ha sfilato per le strade di Rabat, oltre al consueto dispiegamento di agenti della polizia politica, una piccola folla di curiosi ha seguito il tragitto della marcia mantenendosi a debita distanza. Tra loro c'era Imed, impiegato trentacinquenne. "Io non manifesto, ho un figlio piccolo e una moglie da mantenere e non posso rischiare il posto o altre conseguenze, ma sostengo le ragioni del movimento al cento per cento", ha dichiarato senza mezzi termini, prima di aggiungere che il 25 novembre non andrà a votare.
Il timore espresso da Imed sembra confermato dall'ondata di arresti e intimidazioni che ha coinvolto nelle ultime due settimane numerosi membri del "20 febbraio" e delle organizzazioni che lo appoggiano (in particolare gli attivisti dell'associazione islamica Giustizia e carità), colpevoli agli occhi delle autorità di incitare alla diserzione delle urne. Sarebbero più di un centinaio, secondo il sito di informazione Lakome e l'AMDH (Association marocaine des droits humains), le persone condotte in commissariato nei giorni scorsi e interrogate per aver distribuito volantini a sostegno del boicottaggio.
La strategia di repressione "morbida" utilizzata da Rabat (se paragonata a quella degli altri regimi arabi) fa leva sull’articolo 90 del Codice elettorale, che condanna a tre mesi di carcere e ad una multa da 120 a 500 euro "ogni persona che utilizzi informazioni false per condizionare il voto o per dissuadere gli elettori dall’esercitare il loro diritto di voto". Lo stesso articolo è stato chiamato in causa dall'HACA (l'Alta autorità per la comunicazione e l'audiovisivo) per giustificare il divieto di accesso allo spazio mediatico rivolto ai sostenitori dell'astensione durante campagna elettorale. Gli unici tre partiti che si sono schierati a favore del boicottaggio (Annahj, PSU, PADS, tre piccole formazioni della sinistra radicale a sostegno del movimento fin da febbraio, nda) si sono visti negare perfino il permesso di tenere una conferenza a Rabat per illustrare le motivazioni della loro scelta.
Le manifestazioni di domenica sono servite, oltre ad abbattere il muro di silenzio sugli oppositori, a ricordare i martiri caduti dall'inizio della contestazione (dieci, come ricorda il comunicato dell'AMDH) e i detenuti politici tuttora in carcere (circa cinquanta, secondo lo stesso comunicato), tra cui il giovane rapper Moad Belghouat, alias el-Haqed (“l’arrabbiato”), voce simbolo del movimento in arresto dal 9 settembre scorso con l'accusa di aggressione e percosse e ancora in attesa di giudizio.
Lo spettro dell'astensione spaventa il regime
In questi ultimi giorni di campagna elettorale si rincorrono sempre più frequentemente le voci di una probabile vittoria del partito islamico moderato (PJD, primo per numero di voti ottenuti alle legislative del 2007 ma mai al governo), l'unica forza a poter vantare un reale attaccamento del suo elettorato. La formazione di Abdelilah Benkirane, tenuta ai margini della gestione del potere per dieci anni nonostante i buoni risultatati agli scrutini, si vedrebbe in questo modo ricompensata per non aver aderito alle iniziative del movimento, sebbene la sua base giovanile (e uno dei principali responsabili, Mustapha Ramid) abbia appoggiato - almeno all'inizio - le manifestazioni di protesta.
Tuttavia, in attesa di conoscere il responso della consultazione, la preoccupazione del regime sembra essere legata unicamente al tasso di partecipazione all'appuntamento. Mentre gli spazi di affissione riservati ai partiti restano ancora vuoti, le strade e le piazze della capitale sono ricoperte di manifesti che invitano gli elettori a recarsi alle urne. Rispetto al 2007, le liste elettorali si sono ridotte da 15.510.503 potenziali votanti a 13.106.948 (mentre i cittadini con più di 18 anni sono almeno 20 milioni, stando al censimento del 2004).
Oltre agli appelli incessanti diffusi attraverso le radio e le televisioni, domenica 20 novembre - a poche ore dal termine delle manifestazioni - il Conseil national des droits de l’homme (CNDH, di nomina reale) ha sollecitato pubblicamente la popolazione a "partecipare in massa" allo scrutinio, ricordando che "il voto è un diritto personale, un dovere nazionale e un atto di cittadinanza". La presa di posizione del CNDH aumenta i dubbi sul grado di indipendenza dell'organismo, a cui è stato affidato il controllo della regolarità delle elezioni e la coordinazione degli osservatori locali e internazionali presenti il 25 novembre.
Per la monarchia alawita la posta in gioco è alta. Una bassa affluenza alle urne determinerebbe la perdita di legittimità dell’intero processo di “transizione democratica”, celebrato dal Palazzo con la presentazione della nuova costituzione e la sua adozione "unanime" (98,5%) tramite referendum. Una bassa affluenza, inoltre, darebbe maggior forza ai promotori della contestazione che sostengono il boicottaggio.
"Nel luglio scorso il regime si inorgogliva di aver avviato una rivoluzione democratica con il sostegno plebiscitario del referendum ed ora, a pochi mesi di distanza e di fronte al primo appuntamento elettorale, ha paura di vedere i suoi elettori volatilizzarsi. Se fosse in buona fede non avrebbe alcun motivo di preoccuparsi per la credibilità del suo processo di riforme", è il commento del blogger dissidente Larbi, animatore della pagina web Comme une bouteille jetée à la mer.
Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica.
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