E' passato un anno dalla fuga di Zine el-Abidine Ben Ali dal palazzo di Cartagine. Un anno di mobilitazioni, cambiamenti e conquiste, sebbene il cammino della transizione democratica e del rilancio economico sia ancora agli inizi. Ne parliamo con Eric Gobe, caporedattore della rivista L'Année du Maghreb e ricercatore al Centre Jacques Berque (CNRS) di Rabat. Il professor Gobe, autore di numerose pubblicazioni sul contesto politico e sociale tunisino [1], ripercorre la dinamica che ha portato alla caduta dell'ex presidente e di un sistema di governo "in crisi di legittimità".
Sidi Bouzid, fine gennaio 2011 (Foto Jacopo Granci) |
Il contesto politico e sociale tunisino era pressoché sconosciuto prima della caduta del regime e la rivolta verificatasi un anno fa ha colto di sorpresa l'opinione pubblica internazionale. Nel corso degli studi e dei lavori di ricerca da lei effettuati nel paese maghrebino all'alba del 17 dicembre 2010, aveva mai avuto la percezione di quanto stava per accadere?
Rispondere "sì" sarebbe ora pretenzioso e esagerato, tenendo conto che i ricercatori non hanno vocazione a divenire profeti. Tuttavia, assieme ad alcuni colleghi quali Larbi Chouikha e Vincent Geisser avevamo cominciato a formulare delle ipotesi sugli scenari conseguenti alla perdita di legittimità da parte del regime e dunque sulla sua possibile rimessa in discussione prima delle elezioni presidenziali del 2014. La questione della "successione" a Ben Ali era un problema concreto ed evidente già da qualche anno, la famiglia Trabelsi manifestava l'intenzione di assumere la direzione del paese sotto pretesto delle pessime condizioni di salute dell'ex presidente.
I Trabelsi avevano l'ambizione di perpetuare un regime autoritario e clientelare e diverse categorie della società tunisina si stavano muovendo per opporsi a questo tipo di soluzione. Tra le nostre ipotesi figurava la possibilità di una rivolta popolare, come quella di una rivoluzione di palazzo. E in effetti, tra il 17 dicembre 2010 e il 14 gennaio 2011, abbiamo assistito alla concretizzazione di entrambe. Ma il fattore centrale da cui bisogna partire per contestualizzare la caduta di Ben Ali resta la crisi di legittimità attraversata dal regime e le incertezze legate ad una successione imminente.
A cosa si riferisce con l'espressione "rivoluzione di palazzo"?
Pur di fronte alle manifestazioni e agli scioperi, Ben Ali non avrebbe mai lasciato il potere se i rapporti di forza all'interno del palazzo di Cartagine, del ministero dell'Interno e dei vertici militari non fossero cambiati. L'ultimo discorso trasmesso alla televisione la sera del 13 gennaio ha mostrato un uomo agli sgoccioli, preso alla sprovvista, non più capace di dominare la situazione. Se la partenza dell'indomani sia stata una fuga precipitosa o delle "dimissioni" concordate è ancora ufficialmente da chiarire, ma di certo Ben Ali e il clan Trabelsi sono stati messi da parte.
In tutto questo, la vera nota sorprendente è che perfino coloro che li avevano scaricati hanno poi perduto il controllo della situazione. La rivoluzione di palazzo non è riuscita, come dimostrano i fallimenti dei governi provvisori a guida Mohamed Ghannouchi, la progressiva eliminazione dei responsabili del vecchio regime dalla scena politica - a cominciare dall'RCD (Rassemblement constitutionnel démocratique, il partito dell'ex presidente) - e il perdurare della protesta popolare con le grandi manifestazioni denominate "kasbah 1" e "kasbah 2".
Dunque, secondo la sua analisi, la vera rivoluzione sarebbe quella prodottasi dopo il 14 gennaio, dai sit-in in Place de la Kasbah alle elezioni per l'assemblea costituente?
Sì, tenendo presente che senza il punto di partenza, la rivolta di massa, probabilmente non vi saremmo mai arrivati. La rivoluzione di palazzo si è trasformata, grazie al consolidarsi della pressione popolare, in una vera e propria rivoluzione dal momento che il regime costituitosi dopo l'indipendenza sulla sola matrice desturiana [2] ha cessato di esistere. La sua morte è sancita dallo scioglimento del "partito unico" - che aveva monopolizzato la vita politica per cinquantacinque anni - e dall'esclusione dalla scena politica dei suoi quadri nazionali e locali. Questa valutazione non sottintende necessariamente il passaggio ad un sistema democratico, ma annuncia una redistribuzione delle cariche di rappresentanza, per esempio con le elezioni per la costituente, e un cambiamento sostanziale della configurazione politica del paese. Se poi da questa configurazione scaturirà un nuovo autoritarismo o meno è ancora presto per stabilirlo, in ogni caso gli attori dominanti non saranno più gli stessi.
Lei ha parlato di "crisi di legittimità del regime" e di "successione imminente". In tutto questo, quanto ha influito il deterioramento della condizione economica e la crisi del "miracolo tunisino", per anni vanto del governo di Cartagine e delle cancellerie occidentali che lo sostenevano?
La situazione economica in fase di deterioramento, la perdita del potere d'acquisto, la scomparsa della classe media e il fallimento del modello liberista-clientelare hanno favorito l'emergere della protesta popolare scoppiata a Sidi Bouzid e proseguita a Kasserine e Théla. Il degrado è servito da catalizzatore e non a caso l'inizio della rivolta ha avuto luogo nelle regioni più marginalizzate, quelle con il più alto tasso di disoccupazione e con meno investimenti, le regioni insomma dove il terreno sociale era più favorevole. Ma in seguito si è verificata una sorta di convergenza, che ha portato differenti attori, differenti fasce della popolazione a scendere in strada in tutto il paese. Una confluenza dettata dalla volontà comune di denunciare l'illegittimità del regime. Il sistema Ben Ali, dove corruzione e dispotismo erano arrivati a livelli parossistici, aveva perduto consenso in tutte le categorie, dagli operai alla borghesia urbana.
Vale la pena ricordare che a Gafsa, nel 2008, era esplosa una contestazione molto simile a quella verificatasi a Sidi Bouzid dopo il 17 dicembre. Forse le condizioni necessarie ad una rivoluzione - nel palazzo e fuori - non erano ancora mature, forse l'utilizzo di internet era ancora troppo limitato, in ogni caso lo scenario della rivolta è rimasto territorialmente circoscritto e socialmente limitato ai disoccupati della regione, che denunciavano il nepotismo e le manovre clientelari del rappresentante locale dell'UGTT (il sindacato unico sotto il regime). Per questo ritengo che il fattore socio-economico non sia sufficiente, da solo, a spiegare quanto successo un anno fa in Tunisia.
Torniamo ai giorni del sollevamento. Qual è stata la dinamica che ha portato la protesta dai lontani villaggi dell'interno fino al cuore di Tunisi?
Dopo l'immolazione di Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid e l'inizio della repressione, il movimento di protesta è cresciuto fino ai primi giorni di gennaio, quando l'onda della rivolta era quasi sul punto di stabilizzarsi. La contestazione è ripresa con maggior vigore dopo i massacri di Kasserine e Théla, tra il 7 e il 9 gennaio, quando i media - internet e le televisioni satellitari - hanno diffuso le immagini strazianti della folla disarmata sotto il fuoco delle forze di polizia. Queste immagini hanno fatto precipitare gli eventi, hanno dato nuovo impulso alla rivolta mentre Ben Ali ha perduto progressivamente il controllo della situazione.
E' in questa fase che sono entrati in gioco gli attori della società civile, o meglio quelle rare organizzazioni che erano riuscite a conservare una relativa autonomia sotto la dittatura. Mi riferisco in special modo alle sezioni locali e di categoria dell'UGTT e all'ordine degli avvocati, che si sono schierati al fianco del popolo in rivolta e si sono implicati direttamente nella contestazione. Dopo Kasserine, vero punto di rottura nella dinamica della protesta, gli appelli allo sciopero generale hanno avuto un riscontro formidabile, prima nelle regioni dell'interno, poi nel Sahel e infine nella regione della capitale.
In che modo questi due attori, su cui lei ha concentrato la gran parte dei suoi studi negli anni passati, hanno contribuito all'estensione e alla riuscita della protesta?
Prendiamo il caso dell'ordine degli avvocati, che io considero una sorta di "additivo" alla rivolta. Gli avvocati militanti, primi fra tutti quelli di Sidi Bouzid e Kasserine, avevano iniziato già a dicembre a scendere in strada, a prendere la testa dei cortei, ad inquadrare anche politicamente le manifestazioni, lanciando slogan e parole d'ordine. La stessa cosa è avvenuta poi a Tunisi, dove gli storici difensori dei diritti umani e gli oppositori del regime nelle aule di tribunale - Abderraouf Ayadi, Ayachi Hammami, Choukri Belaid, Rhadia Nasraoui e Fawzi Ben Mrad - si sono ritrovati in prima fila sulla avenue Habib Bourghiba (Ayadi e Belaid sono stati anche arrestati pochi giorni prima dalla partenza di Ben Ali). Tuttavia, ancora più importante è il fatto che lo stesso Consiglio dell'ordine, al cui interno si trovavano esponenti legati al regime, dopo i massacri di Kasserine abbia rotto gli indugi prendendo posizione contro quanto stava accadendo e denunciando la repressione nelle aule del Palazzo di giustizia. Il presidente dell'ordine Abderrazak Kilani ha messo da parte l'atteggiamento conciliante mantenuto fino a quel momento nei confronti di Cartagine ed ha indetto uno sciopero nazionale delle sentenze.
Per quanto riguarda l'UGTT, si è verificata una discrepanza - non nuova per altro - tra l'atteggiamento mostrato dalle sezioni regionali e gli attivisti di base, che hanno appoggiato la rivolta fin dall'inizio, e la direzione centrale, compromessa con la dittatura, cha ha atteso la radicalizzazione del movimento per schierarsi in suo sostegno. L'"additivo" fornito dalla direzione nazionale, ancora una volta, è arrivato dopo i massacri di Kasserine, con gli appelli allo sciopero generale il 12, 13 e 14 gennaio. Una scelta inevitabile, nel momento in cui il regime ha cominciato a vacillare, anche per il fedele segretario Abdessalem Jrad.
Quale ruolo hanno avuto i media durante la rivolta?
Tutto il comparto mediatico, come ho già accennato in merito agli eventi di Kasserine, ha avuto un peso notevole nell'accelerazione della dinamica di protesta. E' servito da cassa di risonanza ed è stato in grado di diffondere una documentazione dettagliata di quanto stava accadendo lontano dalla capitale, vale a dire l'inizio della sollevazione e a seguire l'escalation della repressione. Nello specifico, tuttavia, ritengo sia necessaria una precisazione riguardo al tipo di apporto fornito dai differenti canali di informazione - le televisioni satellitari, i blogger e i social network - capaci di oltrepassare la censura del regime.
L'esplosione del fenomeno facebook e il ricorso alla rete per il coordinamento delle iniziative è arrivato dopo l'impatto avuto dai servizi trasmessi su al-Jazeera e non prima. La televisione del Qatar è riuscita a captare i primi contenuti video e le foto pubblicate dai blogger militanti o dai singoli attivisti nel web, restituendo all'opinione pubblica le immagini delle violenze sui manifestanti. Uno shock enorme, che ha avuto ricadute profonde all'interno del paese, dove la percentuale di internauti non è paragonabile con quella registrata nella sponda nord del Mediterraneo, ma dove tutti possiedono una parabola e guardano al-Jazeera. Inoltre, la mediatizzazione della rivolta su scala internazionale ha impedito al regime di imporre un black-out sugli eventi in corso, come invece era successo in occasione delle precedenti sollevazioni, per esempio a Gafsa.
Che tipo di implicazione, invece, hanno avuto i partiti di opposizione nella caduta del regime?
Le formazioni politiche dell'opposizione "riconosciuta" - Nejib Chebbi, Mustapha Ben Jafaar e Ettajdid - non hanno svolto un ruolo determinante durante la rivolta, data la loro scarsa visibilità sotto il regime e la debole presa sulla popolazione. Stessa cosa per i partiti dissidenti "illegali", i cui principali responsabili si trovavano in carcere o in esilio. Anche se Ennahda, e in misura minore il CPR e il PCOT, erano presenti e attivi all'interno dell'ordine degli avvocati e avevano le loro reti clandestine di contatto tra gli attivisti rimasti nel paese. Non dimentichiamo che Ennahda, con i vari Noureddine Bhiri (attuale ministro della Giustizia) e Samir Dilou, al momento delle elezioni per il Consiglio dell'ordine era la sola forza in grado di tenere testa agli esponenti pro-RCD.
Queste formazioni, tuttavia, sono salite alla ribalta nel corso della transizione. Dal momento che non c'era un'altra classe politica pronta a subentrare, i vecchi oppositori erano i soli a possedere un'esperienza e un capitale militante, nonostante l'estrema marginalizzazione patita sotto la dittatura, da investire nel passaggio ad un sistema democratico.
Quali sono i cambiamenti più significativi che hanno marcato la Tunisia del dopo Ben Ali?
L'apertura al pluralismo politico e al confronto delle opinioni, lo svolgimento - per la prima volta nella storia del paese - di elezioni libere, la convocazione di una assemblea costituente come momento di rottura e il beneficio di una sconosciuta libertà di espressione - nei media, sul web e nella vita quotidiana - sono delle reali conquiste che la rivoluzione ha saputo difendere fino ad ora. Parlo intenzionalmente di conquiste e non di acquisizioni dal momento che la transizione è in corso e, di conseguenza, il contesto sociale e politico non è ancora stabile. Ad ogni modo, il risultato più grande ottenuto dalla rivoluzione resta l'abbattimento del muro della paura con cui il regime aveva blindato la sua sopravvivenza. Per questo, a mio avviso, le cose non saranno mai più come prima, anche nel caso di una nuova deriva autoritaria. La memoria politica costruita nel corso dell'ultimo anno rimarrà impressa nell'animo dei tunisini.
La costituzione provvisoria, presentata e approvata dai partiti della "troika" [3], attribuisce la sostanza del potere decisionale al primo ministro Hamadi Jebali. Una prima minaccia alle conquiste di cui parlava prima?
C'è un altro aspetto che mi lascia perplesso riguardo all'assetto della Tunisia post-elettorale: l'assenza di un limite cronologico prestabilito alla durata dell'Assemblea costituente. Il problema, a mio avviso, è in questa provvisorietà indefinita dell'Assemblea - un anno, l'equivalente di una legislatura? - più che negli accordi istituzionali raggiunti tra le formazioni maggioritarie, legati comprensibilmente a dei rapporti di forza. Non mi sorprende che Ennahda, uscito vincitore con ampio margine dalle elezioni, possieda la gran parte delle prerogative di governo. Le influenze di Mustapha Ben Jafaar e del Presidente Marzouki, nonostante le scarse attribuzioni assegnategli della costituzione provvisoria, saranno comunque determinanti sull'operato del partito di Rachid Ghannouchi.
Quali sono le priorità di cui dovrà tenere conto la nuova Tunisia in questa delicata fase di transizione?
Priorità di carattere socio-economico ancor prima che di carattere politico, come può essere la riforma dell'apparato giuridico. Per la riuscita della transizione democratica sarà determinante la buona gestione dei conflitti sociali ancora in corso e il rilancio del sistema economico, vitale per la redistribuzione delle risorse e per lo sviluppo delle regioni interne del paese, marginalizzate fin dall'indipendenza rispetto al Sahel (la zona costiera dove sorgono i porti di Sousse, Sfax e Gabes) e all'area della capitale. Il persistere di una situazione di degrado economico e di instabilità sociale potrebbero favorire l'insorgere di una tentazione autoritaria nelle forze politiche al governo, e questo a prescindere dall'ideologia professata.
Note:
[1] Un elenco delle pubblicazioni recenti di Eric Gobe sul contesto tunisino: "Les avocats dans la Tunisie de Ben Ali : économie politique d’une profession juridique", Droit et Société, n. 79, 2011; "Les avocats, l’ancien régime et la révolution. Profession et engagement public dans la Tunisie des années 2000", Politique africaine, n. 122, juin 2011; "La force de la désobéissance : retour sur la chute du régime de Ben Ali", in Sarah Ben Néfissa et Blandine Destremau (a cura di), Protestations sociales, révolutions civiles. Transformation du politique dans la Méditerranée arabe, Armand Colin, Paris, 2011; "The Tunisian Bar to the test of authoritarianism: professional and political movements in Ben Ali’s Tunisia (1990-2007)", Journal of North African Studies, n. 15 (3), septembre 2010; "La Tunisie entre la ‘révolte du bassin minier de Gafsa’ et l’échéance électorale de 2009", L’Année du Maghreb, 2009.
[2] Il Neo-Destour è una formazione politica fondata nel 1934 da Habib Bourghiba, protagonista della lotta contro il colonialismo francese e primo presidente della Tunisia indipendente. Dal 1956 il Neo-Destour (divenuto Parti socialiste destourien nel 1964 e Rassemblement constitutionnel démocratique nel 1988) si è affermato come partito unico e perno del regime autoritario che ha guidato il paese fino alla caduta di Zine el-Abidine Ben Ali.
[3] Il termine "troika" fa riferimento ai tre partiti - Ennahda, CPR e Ettakatol - che compongono la coalizione a guida del governo provvisorio, in carica dal dicembre scorso. Cfr. C. CAPELLI, "La Tunisia del dopo elezioni", Osservatorioiraq, 9 gennaio 2011.
(Intervista pubblicata in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica, sezione "Processi politici nei paesi arabi")
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