Nei primi giorni del 2011 l'opinione pubblica internazionale scopre il risveglio del popolo tunisino. La rivolta scoppiata nelle regioni interne giunge nelle strade della capitale, incalzata dalla repressione del regime Ben Ali, mentre i media iniziano a diffondere le immagini delle manifestazioni e delle violenze della polizia, preludio alla fuga del dittatore. Incontro - ad un anno dagli eventi - con i cyber-dissidenti più attivi prima e durante la rivoluzione.
Dopo l'immolazione di Mohamed Bouazizi - il 17 dicembre 2010 - e i conseguenti sollevamenti di Sidi Bouzid, Kasserine e Théla, gli echi della feroce repressione ordinata da Cartagine (circa 300 morti e oltre mille feriti al 14 gennaio 2011, secondo fonti ONU) hanno rapidamente varcato i confini tunisini, mentre la protesta sfociava nelle piazze dei principali centri urbani, fino a conquistare le prime pagine dei grandi media internazionali.
In quei giorni, per la prima volta dall'inizio dell'era Ben Ali, è caduto il muro di paura e silenzio con cui il regime aveva protetto per oltre vent'anni l'accaparramento indiscriminato di potere e risorse. Blogger e cyber-dissidenti sono riusciti ad aggirare la censura e a far conoscere gli ultimi sanguinari colpi di coda di una dittatura la cui efficienza e brutalità era rimasta sconosciuta, fino a quel momento, alla gran parte dei lettori e degli spettatori occidentali.
"Bisognava mostrare cosa stava succedendo, la violenza della repressione, le carneficine. Le televisioni e i giornali nazionali, fedeli alle direttive di palazzo, tacevano sulle rivolte e sui massacri in corso, come era già accaduto durante le proteste di Gafsa nel 2008, mentre i giornalisti stranieri, a cui era vietato l'ingresso nel territorio, avevano bisogno di contatti e fonti attendibili", ricorda il blogger Houssem Hajlaoui, giovane tecnico informatico membro del collettivo Nawaat.
Dal 17 dicembre al 14 gennaio, data della fuga di Ben Ali, il lavoro del collettivo si è concentrato sulla raccolta e sulla diffusione di rapporti, dati e testimonianze, "un'intensa attività di redazione - selezione e verifica delle notizie, traduzione dei testi in francese e in inglese - possibile solo grazie al contributo dei protagonisti della ribellione che ogni giorno riuscivano ad inviarci materiale o a pubblicarlo su facebook".
Risultato, il "dossier Sidi Bouzid", disponibile sul sito Nawaat.org e aggiornato in tempo reale, si è subito affermato come una fonte di informazione primaria, necessaria per conoscere l'evoluzione della primavera tunisina, in quei giorni ancora lontana dalla capitale e dai riflettori mediatici. "Al-Jazeera e France 24, i primi ad interessarsi a quanto stava accadendo nel paese - spiega Houssem - prendevano i nostri post come notizie ufficiali, ci consideravano una sorta di agenzia stampa".
Per Sami Ben Gharbia, co-fondatore del collettivo e membro della piattaforma Global Voices, serviva un trait d'union, un anello di congiunzione tra gli attivisti e l'opinione pubblica internazionale. "Abbiamo capito che c'era un vuoto tra la documentazione prodotta dai testimoni degli eventi e la fruibilità della stessa documentazione da parte dei mezzi di informazione. Il nostro sito era ancora oscurato in Tunisia, ma perfettamente visibile al di fuori dei confini nazionali. Era arrivato il momento di sfruttare il capitale di credibilità costruito nel tempo da Nawaat per superare il blocco mediatico imposto dal regime".
Dopo il Netizen Price e il Pioneer Award attribuiti ai blogger di Nawaat nel corso del 2011 dalle ong Reporters sans frontières e The Electronic Frontier Foundation, anche il World Summit Award (concorso mondiale allestito dal Summit della società dell'informazione che ogni due anni premia i migliori contenuti digitali) ha assegnato un riconoscimento - l'Arab eContent Award - ai cyber-attivisti tunisini per il prezioso lavoro svolto nel documentare e raccontare la rivolta. Tuttavia, il gruppo ha rifiutato il premio e disertato l'evento. "La cerimonia ufficiale per la consegna dei premi è avvenuta in Bahrein, uno Stato che viola apertamente le libertà fondamentali dei suoi cittadini, prima fra tutte la libertà di espressione. Il nostro rifiuto è un atto di protesta dovuto, conforme ai principi per cui ci siamo sempre battuti e per cui continueremo a batterci", è il commento ineccepibile di Houssem Hajlaoui.
Cos'è Nawaat?
"Nawaat.org è un blog collettivo che offre la parola a tutti coloro che, attraverso il loro impegno cittadino, la prendono, la supportano e la diffondono. […] Cosciente che la conquista della libertà di espressione è una lotta quotidiana da condurre in totale indipendenza, Nawaat non riceve finanziamenti da partiti e non accetta sovvenzioni pubbliche", così si autodefiniscono sul web gli stessi blogger.
L'idea del blog collettivo prende forma nel 2004, dopo che altre esperienze di cyber-dissidenza - come per esempio il sito TuneZine - avevano aperto la strada alla "disobbedienza informatica". Sono un pugno di tunisini in esilio politico - Sami Ben Gharbia in Olanda, Astrubal (Riadh Guerfali) e Malek Khadhraoui in Francia, Centrist in Quebec - a lanciare Nawaat, "il nucleo" o meglio "il fulcro della resistenza alla dittatura", come spiegano alcuni dei protagonisti.
"Abbiamo deciso di aprire uno spazio per dare la possibilità ai cittadini di esprimersi, tuttavia - ad un mese dalla creazione - Nawaat era già censurato e l'accesso al sito vietato in Tunisia dall'agenzia per il controllo informatico [ATI, Agence tuinisienne d'internet, nda]", racconta Sami Ben Gharbia, in esilio dal 1998. Per aggirare la censura, Sami e compagni utilizzano le mailing list per diffondere gli articoli e le piattaforme Youtube e Dailymotion per divulgare i contenuti video, ma "Ammar 404" (gioco di parole sul messaggio "Error 404" che appariva sullo schermo dei siti oscurati) arriva a bloccare anche queste soluzioni.
"Si era instaurato un vero e proprio braccio di ferro con la polizia informatica, ma ad ogni stop riuscivamo a trovare nuove scappatoie. Per esempio attraverso l'aggregazione per RSS - che consiste nell'iscriversi ad un blog e ricevere contenuti senza accedervi direttamente - e poi, due anni fa, abbiamo pubblicato una guida tecnica al servizio dell'utente per eludere i filtri dell'ATI", continua la spiegazione Sami. I blogger che fino al 14 gennaio 2011 inviano contributi dall'interno del paese lo fanno clandestinamente e sotto pseudonimo, servendosi di programmi di navigazione anonima come Tor.
Nonostante queste difficoltà, Nawaat diventa una piattaforma di riferimento a cui partecipano vittime e perseguitati del regime di ogni colore politico, dalla sinistra radicale agli islamisti. "Era un mezzo per opporsi alla dittatura e per denunciarne le continue violazioni - riferisce Houssem - ma anche per alimentare il dibattito interno al fronte dissidente, dando spazio alle differenti posizioni e al confronto, una dinamica impossibile nella Tunisia di Ben Ali".
In poco tempo un centinaio di blogger "esterni" affiancano lo "zoccolo duro" di Nawaat, una sorta di redazione incaricata della gestione del sito, composta dai fondatori e dai collaboratori più assidui - una decina in totale. "Non esiste una vera linea editoriale e i soli limiti imposti dagli amministratori sono il rispetto delle libertà fondamentali, dei diritti umani e delle regole del funzionamento democratico nella stesura dei post. Per il resto, non siamo noi a selezionare i contributors, sono loro a scegliere la nostra piattaforma - chiarisce Sami Ben Gharbia - e il contenuto degli articoli rispecchia il punto di vista dei singoli autori, non dell'intero collettivo".
TuniLeaks: "il re è nudo"
Tra i contributi di maggior impatto diffusi da Nawaat prima dello scoppio della rivoluzione, vale la pena di menzionare il dossier TuniLeaks, ancora disponibile nella homepage del sito, dove la redazione ha raccolto, tradotto e pubblicato tutti i cablogrammi messi a disposizione da wikileaks in merito al regime Ben Ali. Il contenuto dei cabli ha svelato all'opinione pubblica la corruzione endemica nascosta dietro al "miracolo tunisino" e il ruolo giocato dal clan Trabelsi nel controllo dell'economia del paese.
Inoltre, è servito a smentire l’idea che il governo di Cartagine fosse sostenuto in maniera incondizionata dall’amministrazione statunitense. I dispacci inviati dalla diplomazia americana mostrano infatti in maniera chiara come Washington, pur continuando ad appoggiare l’ex presidente nella sua strenua "lotta al terrorismo", ritenesse ormai Ben Ali una "carta bruciata” e che il suo modello - un feroce stato di polizia - era divenuto insostenibile.
Per Sami Ben Gharbia, “la diffusione di questi documenti ha provocato una forte scossa, uno choc positivo all'interno del paese. Dire che abbia contribuito al sollevamento è troppo, ma se non altro è servito a far capire alla gente che Ben Ali non godeva più del pieno supporto americano. Grazie a TuniLeaks si è fatta strada l'idea che, eccezion fatta per il governo francese, il re era nudo e poteva essere attaccato”.
"Non credo che ci sia un legame diretto con la rivoluzione, di certo non c'è nessun rapporto con le rivolte di Sidi Bouzid, Kasserine e Théla - aggiunge Houssem - ma TuniLeaks ha avuto la sua incidenza, almeno in certe fasce della popolazione. Alcuni oppositori, dopo essere venuti a conoscenza di questa situazione, si sono dimostrati più intraprendenti, più audaci, mentre all'interno dell'establishment alcuni attori hanno cominciato a riflettere sulla possibilità di smarcarsi dalla condotta del regime, come poi è avvenuto nel caso del generale Ammar e delle forze armate ai suoi ordini".
Manifestazione a Sidi Bouzid dopo il 14 gennaio (Foto Jacopo Granci) |
Winston Smith e il "grande fratello" tunisino
Ramzi Bettayeb, tecnico informatico e membro della redazione del collettivo, è entrato a far parte di Nawaat nel 2005, inviando i suoi primi contributi dal carcere di Tunisi. Proprietario di un internet point al Kram, quartiere situato nella periferia nord della capitale, era finito in arresto in occasione del Summit mondiale della società dell'informazione tenuto a Tunisi nell'ottobre del 2005, quando i servizi di Ben Ali - divenuti in quel frangente ancor più "paranoici" - avevano installato nei computer del suo locale dei keyloggers per controllare le informazioni e i documenti digitati dagli utenti.
Ramzi li aveva disinstallati, per questo la polizia lo ha condotto nei sotterranei del ministero dell'Interno, dove è stato torturato e umiliato, prima di essere trasferito nella prigione "9 aprile". "Dal carcere ho iniziato a raccontare le violenze e le torture quotidiane che avevo di fronte ai miei occhi, oltre a quelle che sentivo attraverso le pareti della cella di isolamento in cui sono stato rinchiuso per un anno e mezzo. E' lì che ho deciso di mettermi in gioco, di reagire". Sul metodo con cui riusciva a far filtrare le notizie all'esterno della prigione, Ramzi preferisce tacere e puntualizza: "potrei averne ancora bisogno in futuro".
Per entrare in contatto con gli altri componenti del "nucleo", dopo l'uscita dal carcere, il cyber-attivista si è servito del progetto Winston Smith ideato dal professor Marco Calamari, tra i creatori di FreeNet, rete decentralizzata parallela al web. "Il progetto, concentrandosi sui programmi di navigazione anonima, fornisce istruzioni vitali agli attivisti per sfuggire al controllo dei regimi più repressivi", spiega il blogger in italiano, una lingua che domina perfettamente pur non avendo mai messo piede nella penisola. "Ho imparato l'italiano per capire le istruzioni contenute nel progetto e per avere accesso a tutte le pubblicazioni del professor Calamari, una persona a cui devo molto", prosegue Ramzi, conosciuto in rete e su Nawaat proprio con lo pseudonimo Winston Smith, nome del progetto ma soprattutto nome del protagonista di 1984, il romanzo di anticipazione di George Orwell.
"La scelta del mio pseudonimo non è casuale. Stavo assistendo alla riproposizione dello scenario orwelliano nel mio paese, dove si era affermato il mito del partito unico mentre il popolo sembrava bloccato dalla paura, sotto lo sguardo onnisciente del grande fratello di Cartagine". Per Ramzi-Smith, ribadire il diritto irrinunciabile alla libertà di parola significava distruggere "la retorica di un popolo pacificato e obbediente" veicolata da Ben Ali all’interno e all’esterno della Tunisia. "Con i nostri contributi su Nawaat abbiamo cercato di difendere il pluralismo dall’omologazione al pensiero unico, di tenere viva la cultura della diversità in una società in cui l’unico credo tollerato era quello sportivo e il calcio l’unica passione consentita".
Nuova era, stessa battaglia
Alle 21.30 del 13 gennaio 2011, dopo il discorso di Ben Ali alla nazione e le promesse - inutili - fatte dall'ex presidente per calmare gli animi e sedare il popolo in rivolta, la polizia informatica ha tolto la censura su Nawaat, tra i primi siti proibiti ad essere tornato "visibile" poche ore prima della fuga del dittatore.
Per i membri del "nucleo" è il preludio di una nuova era, maturata poi nel corso delle settimane e dei mesi successivi, segnata dalla fine della clandestinità e da una motivata speranza di cambiamento. Ramzi e Houssem sono usciti dall'anonimato, Sami, Astrubal e gli altri esuli hanno avuto la possibilità di rientrare in patria, e lo "zoccolo duro" del collettivo ha deciso di costituirsi in associazione (Association Nawaat pour la promotion de la citoyenneté), la cui sede legale - situata a Tunisi, a pochi passi da Place de la kasbah - è stata "inaugurata" durante le elezioni per l'assemblea costituente con lo sciopero della fame in sostegno ai feriti della rivoluzione.
"La caduta del regime ci ha offerto la possibilità di lavorare allo scoperto e con più serenità - commenta Sami Ben Gharbia - la creazione dell'associazione risponde all'esigenza di moltiplicare le nostre attività e di proporre iniziative a più stretto contatto con la società". Per esempio l'organizzazione del 3° incontro ufficiale dei blogger arabi (tenuto a Tunisi ad inizio ottobre 2011), l'allestimento dei corsi di giornalismo on-line e l'apertura di un hackerspace per la formazione degli utenti all'utilizzo delle nuove tecnologie informatiche. "La scelta di fondare l'associazione - precisa Houssem - non compromette la nostra natura di blogger impegnati nella difesa della libertà di espressione. Restiamo profondamente legati alla logica del giornalismo partecipativo e alla proposta di un'informazione alternativa e indipendente, di cui la Tunisia continua ad aver bisogno".
In effetti, come ricorda l'attivista Sihem Bensedrine (fondatrice di Radio Kalima), "la rivoluzione ha esercitato una pressione innegabile sui media tradizionali, che altro non erano se non strumenti di propaganda del regime". La società civile e le nuove forme di giornalismo cittadino - radio e televisioni web, blog e gruppi facebook - li ha obbligati ad aprire nuove finestre di libertà e a prestare maggior attenzione alla popolazione e alle sue necessità. Ma i canali ufficiali di informazione sembrano ancora troppo legati alla vecchia mentalità.
Per Ramzi Bettayeb la stampa, educata a ricevere ordini, non ha imparato ad essere un contropotere e "sente ancora il bisogno di seguire le direttive imposte dall'alto, tanto dal ministero dell'Interno quanto dagli interessi privati dei singoli finanziatori. Di conseguenza, i giornali evitano di trattare temi ritenuti scomodi, come il perseguimento di una vera giustizia di transizione, e si lanciano nella bagarre politica con poco rispetto per la deontologia professionale. Per esempio - continua il cyber-attivista - Moncef Lahjimi, responsabile della repressione a Gafsa e Radeyef nel 2008 e della carneficina di Théla nei primi giorni del 2011, invece di finire in arresto è stato recentemente promosso da colonnello a generale di polizia, senza che dalla stampa - impegnata ad alimentare lo spauracchio islamista - si siano levate critiche o il minimo segno di disappunto".
Sul terreno della libertà di espressione, anche i primi passi del governo Ennahda-CPR-Ettakatol non sembrano molto incoraggianti. Nei giorni scorsi il primo ministro Hamadi Jebali ha nominato personalmente i nuovi vertici dei media pubblici invece di conferire la prerogativa ad un organismo indipendente, come auspicato dalla categoria. Inoltre è stato vietato l'ingresso nel paese, senza alcun comunicato ufficiale, ai settimanali francesi Le Point e L'Express. Stando alle dichiarazioni rilasciate dal direttore della società di distribuzione, il provvedimento sarebbe stato adottato in nome della difesa "dei valori e dei costumi nazionali" (le copie incriminate contenevano l'immagine del volto del profeta Mohammed).
Secondo Ramzi Bettayeb la minaccia del controllo informatico e della censura, del web come degli altri canali di informazione, è un'ipotesi che resta ancora d'attualità. Ammar 404 e la potente strumentazione in mano all'ATI non sono stati smantellati, come ha ricordato il nuovo direttore dell'agenzia Moez Chakchouk, e il governo potrebbe tornare a servirsene paventando nuove giustificazioni di carattere etico e morale.
"Quanto fatto fino ad ora è solo l’inizio di un vero cambiamento. Nonostante gli innegabili avanzamenti, il pericolo di una continuità con il passato è ancora alle porte. Per questo la priorità del nostro collettivo continua ad essere la denuncia delle violazioni e degli attacchi alle libertà e ai diritti del popolo tunisino, indipendentemente dal colore politico e dalle lobby di potere da cui provengano. E' il nostro contributo alla fondazione di una nuova Tunisia, una battaglia che prima e dopo il 14 gennaio scorso non abbiamo mai smesso di combattere", conclude il blogger di Nawaat.
(Articolo pubblicato sul sito Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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