Il
10 maggio gli algerini si recheranno alle urne per eleggere la nuova assemblea
nazionale (camera bassa) e le formazioni islamiche, spinte dalle vittorie in
Tunisia, Marocco ed Egitto, sembrano le più accreditate per spezzare il
monopolio di governo del tandem FLN-RND. Quale cambiamento riuscirà ad
innescare l'appuntamento elettorale, presentato dalle autorità come la chiave
di volta di un "lungo processo di riforme", ma poco o nulla sentito
dalla popolazione? Ne parliamo con Karima Direche (CNRS), ricercatrice al
Centre Jacques Berque di Rabat e autrice di numerose pubblicazioni[1]
sui movimenti di contestazione in Algeria. L'intervista[2]
con la professoressa Direche è anche l'occasione per tornare sulle rivolte che
avevano infiammato Algeri ad inizio 2011 e per capire quali ripercussioni ha
avuto la "primavera araba" nel paese.
La "primavera
araba" sembra aver toccato solo superficialmente l'Algeria, nonostante le
rivolte del gennaio 2011 e le immolazioni continue a cui abbiamo assistito anche
negli ultimi giorni. Per quale motivo?
Assieme
ad alcuni colleghi ci siamo posti spesso questa domanda. La risposta, che
riflette il mio punto di vista personale, è complessa e chiama in causa
differenti fattori. Per prima cosa è bene precisare che le rivolte erano
scoppiate già nel novembre 2010, nelle regioni interne del paese, per arrivare
poi ad Algeri nel gennaio 2011. La concomitanza con il sollevamento tunisino ha
fatto sì che l'opinione pubblica internazionale se ne sia accorta solo in quel
momento.
Le
ragioni delle insurrezioni erano legate a questioni prettamente sociali. Il
rincaro dei prodotti alimentari di prima necessità - farina, riso, olio e latte
- dovuto alla riduzione delle sovvenzioni statali, ha aggravato le difficili
condizioni di vita della popolazione, che lamenta la mancanza di orizzonti e
prospettive.
Inoltre,
quelle rivolte non erano altro che il proseguimento delle mobilitazioni, degli
scioperi del settore pubblico e delle occupazioni delle università che negli
ultimi anni hanno interessato tutte le prefetture del paese. Un fenomeno
endemico dunque e non un tentativo di emulazione o una conseguenza del contagio
tunisino.
In quel momento molti
osservatori hanno creduto di trovarsi di fronte ad un nuovo 1988, l'anno delle
grandi contestazioni e della repressione violenta del regime. Quelle
contestazioni avevano innescato la riforma della costituzione, l'apertura al
multipartitismo ed alla libertà di espressione. Una prima
"rivoluzione", naufragata dopo la vittoria del FIS (Front islamique
de salut) alle elezioni del 1991 e il conseguente colpo di stato dei militari. Tuttavia
il parallelo con il 1988 è stato smentito dall'immediata evoluzione degli
eventi. Qual è la sua spiegazione?
La
società algerina si inscrive, storicamente, in una tradizione di contestazione
e di resistenza. C'è stata la "primavera berbera" del 1980, i moti
dell'88 e nel 2001 la "primavera nera" della Cabilia. In
quell'occasione il Mouvement des aarch fu in grado di mobilitare più di un
milione di persone, che hanno marciato da Tizi Ouzou ad Algeri (oltre 100 km)
prima di venire dispersi dalla polizia. Una prima assoluta tanto in Nord Africa
che in Medio Oriente.
Tuttavia,
tornando al parallelo con gli eventi dell'88, sia le modalità che gli attori
della contestazione - protagonisti nel gennaio 2011 - si sono rivelati
profondamente differenti. Nel primo caso ci trovavamo di fronte ad una società
fortemente politicizzata, mossa da ideologie diverse ma ben radicate
(islamisti, femministe, socialisti, sindacalisti, attivisti amazigh), unita
dalla comune volontà di rompere con il regime in atto e accedere alla
democrazia.
Nel
secondo caso, invece, l'appartenenza ideologica è vista più come un ostacolo
che come un fattore di forza. I giovani, in gran parte disoccupati, sono usciti
in strada per gridare la loro rabbia contro la corruzione, contro i simboli di
una ricchezza a cui non hanno accesso. Hanno rivendicato dignità e giustizia,
ma la dimensione politica della loro azione è rimasta in secondo piano. Nel
1988, ad esempio, i manifestanti si sono scagliati contro i simboli del regime,
la sede del governo e del partito unico, mentre nel gennaio 2011 sono stati i quartieri
chic della capitale ad essere presi di mira.
Una "primavera
sociale", quindi, che non si è trasformata in rivoluzione. Il sintomo di un
malessere e di una precarietà economica che vengono spesso indicate con il
termine "hogra". Oltre il 10% della popolazione attiva è disoccupata
e per i giovani sotto i trent'anni il tasso raggiunge il 40%. Pertanto l'Algeria
è un paese ricco di risorse energetiche e di capitali. Come si spiega una
simile realtà?
L'Algeria
è il secondo paese più ricco d'Africa dopo la Repubblica sudafricana. Dispone
di notevoli riserve di idrocarburi e l'aumento della rendita petrolifera,
esponenziale negli ultimi anni, ha permesso l'estinzione del debito estero.
Tuttavia quest'enorme ricchezza non viene ridistribuita secondo criteri di
equità o di necessità. La rendita serve essenzialmente ad alimentare il sistema
di potere, fondato sempre più sulla corruzione e sulla cooptazione. In questo
modo le disuguaglianze sociali aumentano anziché diminuire.
Altro
elemento chiave per comprendere il dissesto economico del paese è la mancanza
di una strategia di investimenti volta a diversificare la produzione e a creare
impiego.
L'autosufficienza
alimentare è un miraggio e i prodotti di consumo restano legati
all'importazione, dal momento che il settore non è considerato una priorità. La
stessa considerazione è valida in riferimento alla produzione industriale,
pressoché assente. Per ora le casse dello Stato bastano a coprire gli acquisti.
Ma quando la rendita petrolifera finirà o si abbasserà, cosa accadrà?
Gli
unici progetti a ricevere l'avallo governativo riguardano il settore
dell'edilizia e delle grandi infrastrutture, un mercato dominato per lo più da
aziende straniere e funzionale ai bisogni clientelari. Le faccio un esempio.
Uno dei progetti di punta su cui molto hanno insistito le autorità è la
costruzione dell'autostrada est-ovest. Nel primo tratto ultimato, Algeri-Constantine
(400 km), non c'è una sola stazione di servizio. Perché? Perché non è stato
trovato un accordo sull'assegnazione degli appalti, o meglio, su chi dovrà
beneficiarne.
L'Algeria
assomiglia sempre di più ad un enorme cantiere a cielo aperto, un piano di
sviluppo che però non corrisponde alle attese e ai bisogni della popolazione.
Le faccio un altro esempio. La nuova priorità urbanistica della capitale è la
costruzione della grande moschea, voluta dal presidente Bouteflika, per una
spesa che oltrepassa i 2 miliardi di euro. Intanto il centro oncologico
nazionale ha dovuto rifiutare le cure ai pazienti in attesa per mancanza di
fondi e le strutture universitarie sono surclassate dall'aumento demografico.
Abbiamo parlato di
rivolte a carattere socio-economico, tuttavia nel panorama della contestazione
emerso a fine gennaio 2011 era presente anche una componente politica, la
Coordination nationale pour le changement et la démocratie (CNCD). Quali forze
ne facevano parte e cosa ha determinato la sua rapida scomparsa?
La
dissidenza politica esiste, anche se stenta ad avere visibilità e manca talvolta
di credibilità. Al momento dell'appello lanciato il 21 gennaio dalla CNCD erano
presenti tutti gli attori conosciuti. Partiti (FFS[3],
RCD[4],
PST[5]),
sindacati autonomi, organizzazioni per i diritti umani, associazioni di
studenti, di disoccupati e delle vittime del decennio nero. Un'unione inedita
fino a questo momento, in cui tuttavia le divergenze pregresse tra i differenti
attori hanno subito prevalso sulla volontà federatrice.
La
CNCD ha cominciato a perdere pezzi[6]
prima della manifestazione organizzata ad Algeri il 12 febbraio, quando nelle
vie della capitale c'erano solo 3 mila persone in marcia di fronte a 40 mila
poliziotti e una città militarizzata.
Le
iniziative di quest'avanguardia militante non hanno ottenuto il sostegno della
cittadinanza, che ha messo in dubbio la legittimità di alcuni suoi protagonisti,
primo fra tutti il RCD e il suo storico leader Said Sadi. La mancanza
dell'appoggio popolare, come pure la risposta del regime alla crescente
instabilità, hanno tolto ossigeno alla coalizione, la cui crisi è stata
accentuata da una sostanziale mancanza di coesione e dalla campagna mediatica che
ha gettato discredito su tutta la CNCD.
Lei ha accennato prima
alla "primavera berbera" e al Mouvement des aarch. Perché gli attori
della contestazione amazigh non si sono uniti alla CNCD? Cosa resta oggi di quel
radicato focolaio di dissidenza che è la Cabilia?
Il
Mouvement des aarch si è frammentato e indebolito dopo l'apertura della
trattativa con il Primo ministro Ouayahia nel 2004. Le assemblee di villaggio,
le manifestazioni a ripetizione si sono trasformate in piccole associazioni
locali o comitati di quartiere che hanno perso quella straordinaria capacità di
mobilitazione, quella presa sulla popolazione dimostrata dagli aarch nel 2001.
Il
riconoscimento dell'identità amazigh, la valorizzazione della lingua e della
cultura berbera, la marginalizzazione economica della regione, sono problemi
tuttora in cerca di risposta e di soluzione.
Ma
ancora una volta ci troviamo di fronte ad un contesto socio-politico diviso,
dove i partiti detti berberisti - FFS e RCD - sono in conflitto tra loro da
oltre vent'anni e non godono più della legittimazione popolare. Le associazioni
e i movimenti nati negli ultimi anni - come gli aarch o il Mouvement pour
l'autonomie de la Kabylie - sono a loro volta in disaccordo, vittime dell'attenta
strategia di "logoramento" tessuta dalle autorità. Quanto
all'opinione pubblica, la dissidenza cabila ha finito per assumere una
rappresentazione regionalista e settaria, un'immagine che è riuscita a
nascondere il carattere universale delle rivendicazioni amazigh, incentrate sul
rispetto dei diritti e sul cambiamento democratico.
In un suo articolo di
recente pubblicazione - "Il paradosso algerino" - lei ha fornito una
spiegazione psicologica della "paura degli algerini nell'andare fino in
fondo alla rivolta", in altre parole nel trasformare la contestazione in
rivoluzione. Che cos'è e da dove viene questa paura?
La
dimensione traumatica è fondamentale per capire l'attuale dinamica della
contestazione in Algeria. La protesta si radicalizza si è poi spegne in
brevissimo tempo. E' come se ci fosse la paura di alzare il livello dello
scontro, di rivivere situazioni già conosciute in un passato non troppo lontano
e di cui il prezzo pagato dalla popolazione è stato altissimo. Siamo di fronte
ad un paese "violentato" e costretto al silenzio, in cui la società
si porta dietro le conseguenze drammatiche di una quasi guerra civile.
Le
ferite aperte dalle violenze islamiste e dalla repressione di Stato sono
lontane dall'essere rimarginate. La legge sull'amnistia [1999] e poi sulla
"riconciliazione nazionale" [2006] volute da Bouteflika hanno fatto
dell'oblio e dell'amnesia una regola politica per il quieto vivere. Ma, invece
di ricucire i legami sociali, non sono servite ad altro che ad accentuare il
trauma. Un trauma di cui la popolazione non riesce a liberarsi, di cui non può
parlare e che non è in grado di metabolizzare.
Qual è stata la
risposta del regime alla contestazione?
Le
prime misure adottate dal governo sono state di ordine economico, eccetto la
fine dello stato di eccezione in vigore dal 1992. Il regime ha comprato la pace
sociale grazie ai cospicui proventi del petrolio e del gas. Le sovvenzioni ai
prodotti di base, causa dell'esplosione del malcontento, sono state
ripristinate e addirittura aumentate rispetto a prima. I salari di alcune
categorie "strategiche" (polizia) e di quelle più sensibili alla
protesta (funzionari pubblici) hanno visto un aumento del 50% con effetto
retroattivo al 2008. Infine nuovi fondi sono stati stanziati per l'agenzia di
sostegno all'impiego giovanile ed è stata decisa l'istituzione di un sussidio
di disoccupazione.
Sono
provvedimenti estemporanei, misure dettate dall'urgenza che non affrontano il
problema alla radice e non ne costituiscono la soluzione. L'aumento dei salari ha
generato infatti un incremento dei prezzi e del costo della vita.
Per
sedare la piazza non si è fatto ricorso solo alla rendita degli idrocarburi, ma
anche alla repressione. Molti giovani che hanno preso parte alle rivolte sono
finiti in carcere, condannati a dure pene detentive. Di questo aspetto in pochi
ne parlano, ma i tribunali algerini non sono mai stati così pieni. I giudici
sono diventati una nuova arma di dissuasione, molto più efficace degli
interventi della polizia durante le manifestazioni.
Una reazione c'è stata
anche sul piano politico. Il presidente Bouteflika ha lanciato nel marzo 2011
un "processo di riforme" che, secondo la retorica ufficiale, troverà
compimento nelle prossime elezioni legislative. Qual è l'impatto di quella che
sembra annunciarsi come una "apertura controllata"?
Non
considero i provvedimenti adottati fino ad ora una "riforma" e ancor
meno un "processo di riforme", dal momento che mancano elementi
concreti per poter parlare di cambiamento e un nuovo progetto di società alla
base. Non è l'aumento degli eletti in assemblea [da 389 a 462] o del numero di
partiti legalizzati [da 21 a 44] che potranno cambiare la natura del regime,
anzi serviranno solamente a disperdere il voto e ad indebolire gli eventuali
candidati all'opposizione parlamentare.
Lei ha parlato di
natura del regime. Qual è questa natura?
Una
natura opaca, di cui è difficile definire i contorni. Di certo c'è che il Capo
dello Stato non è il solo a prendere le decisioni, ma fa parte di una più vasta
oligarchia che comprende i vertici militari, protagonisti indiscussi della
politica algerina fin dal colpo di stato del 1965. L'esercito resta la spina
dorsale del regime e mantiene un ruolo centrale nella cooptazione delle elite
incaricate dell'amministrazione di governo.
Quale significato
attribuisce, quindi, al prossimo appuntamento elettorale?
Le
elezioni determineranno una ridefinizione delle alleanze di governo e un nuovo
panorama della rappresentanza politica, ma nessun mutamento in termini di rapporti
di forza all'interno del sistema di potere.
Nessuno
dei partiti in corsa, infatti, nonostante la retorica possa essere più o meno
radicale, mette in discussione il funzionamento del regime o il suo apparato di
controllo. Una condizione implicita ma vincolante, dopo quanto avvenuto al FIS nel
1992. Di conseguenza, qualunque sia il risultato che uscirà dalle urne, la
novità sarà nella forma ma non nella sostanza.
Neanche se a vincere
saranno le formazioni islamiche, la cui ascesa elettorale sembra un dato già
acquisito in partenza?
E'
molto probabile che i partiti islamici giocheranno un ruolo di primo piano nell'annunciata
riconfigurazione politica. Spinti dai risultati in Egitto, Tunisia e Marocco,
reclamano - per la prima volta dall'esperienza del FIS - più spazio e
considerazione. In questa campagna hanno abbandonato il basso profilo che li
aveva contraddistinti, e sembrano aver rialzato la testa.
Tuttavia,
gli islamisti che si presentano nel 2012 non sono gli stessi del 1991. Il MSP[7],
che forma l'Alliance de l'Algérie verte assieme al MNR[8]
e Ennahda, fa parte della compagine di governo dal 1997, anche se il suo leader
Bouguerra Soltani ha deciso recentemente di dimettersi dall'incarico
ministeriale. Queste formazioni devono molto al presidente Bouteflika e non
volteranno le spalle al loro benefattore.
Una
loro vittoria, che a mio avviso resterà comunque limitata in termini assoluti,
non provocherà quindi una rottura. Inoltre, difficilmente i due partiti di riferimento
dei clan militari - il FLN[9]
e il RND[10] -
verranno escluse dalla nuova maggioranza.
Senza
contare che lo stesso panorama islamista è frammentato, composto da ben sette
formazioni politiche. Non è di certo un caso, conoscendo l'abilità del regime
nel fomentare divisioni e rivalità all'interno dello stesso schieramento o di
una potenziale forza di opposizione.
C'è
l'Alliance verte, ma allo stesso tempo c'è il Front du changement (FC) -
emanazione dei fratelli musulmani - e il nuovo partito di Djaballah (FJD), che
ha scelto di rimanere fuori dall'alleanza. Djaballah è una figura che ha sempre
riscosso un certo successo tra l'elettorato islamista, soprattutto nell'ex
elettorato del FIS, e la sua candidatura, come quella del FC, indebolirà l'Alliance.
Quale clima ha
accompagnato la campagna elettorale appena conclusa?
Nonostante
i potenti mezzi messi in campo dalle autorità - finanziari, mediatici e perfino
gli imam delle moschee - per celebrare l'importanza dell'evento, queste
elezioni non sembrano suscitare alcun interesse e men che meno entusiasmo. Con
molta probabilità la popolazione diserterà le urne, come avvenuto nei
precedenti appuntamenti elettorali.[11]
L'attenzione
degli algerini non è stata catturata dal dibattito politico, in sé assente,
soppiantato da sterili - e a volte patetici - appelli alla partecipazione. L'unica
fonte di interesse è arrivata dagli scandali mediatici che hanno accusato
alcuni candidati dei tre partiti finora al governo (FLN, RND, MSP) di aver
utilizzato il budget dello Stato destinato agli incarichi esecutivi per finanziare
la campagna.
Detto
questo, sono appena rientrata da un soggiorno in Algeria e la sensazione più
forte che ho provato è che nel paese sembra si respiri un'atmosfera da
"fine regno". Il Capo di Stato è gravemente malato e il clan
presidenziale è occupato dal problema della successione. Le elezioni, come pure
il dibattito sulla riforma costituzionale che animerà la nuova assemblea, sono
solo in apparenza al centro dei riflettori. Gli equilibri in gioco nei prossimi
mesi sono ben altri.
Il 10 maggio, per la
prima volta nella storia delle elezioni algerine, saranno presenti osservatori
internazionali durante le operazioni di voto. Il loro ruolo, come ha ribadito il
responsabile della missione UE, sarà "soltanto di osservazione e non di
controllo". Ciò nonostante, questa novità lascia ben sperare in termini di
regolarità della consultazione. E' d'accordo?
Sì,
la trasparenza sarà senz'altro maggiore nei grandi centri urbani, mentre non
credo che cambierà molto nelle zone rurali, dove gli osservatori non riusciranno
ad accedere. Tuttavia ci tengo a sottolineare che oltre agli osservatori
internazionali è stato creato recentemente un organismo algerino indipendente -
il Conseil national de surveillance des
élections législatives (Cnsel) - che cercherà di assicurare la supervisione
dello scrutinio, nonostante la scarsa collaborazione delle autorità. Durante la
campagna elettorale il Cnesel è stato molto attivo nel monitoraggio dei media,
nella denuncia degli scandali finanziari legati ai partiti e delle intimidazioni
subite da alcuni candidati indipendenti.
[1] Un
elenco delle pubblicazioni più recenti: "Quand la torture s'oublie en
Algérie: réflexions sur une amnésie d'Etat", in Les échelles de la mémoire en Méditerranée (sous la direction de M.
Crivello), Actes Sud, 2010; "Convoquer le passé et réécrire l'histoire.
Berbérité ou amazighité dans l'histoire de l'Algérie", in Chantiers et défis de la recherche sur le
Maghreb contemporain, Tunis, Karthala / IRMC, 2008; "Femmes, famille
et droit au Maghreb", L’Année du
Maghreb, éditions du CNRS, 2006; "Le mouvement des aarch en Algérie:
pour une alternative démocratique autonome?", REMMM, 111-112, 2006.
[2] Realizzata il 7 maggio 2012.
[3]
Front des forces socialistes.
[4]
Rassemblement pour la culture et la démocratie.
[5] Parti socialiste des
travailleurs.
[6] Ritiro dalla coalizione del FFS
e del PST.
[7]
Mouvement de la société pour la Paix.
[8] Mouvement national du renouveau,
meglio conosciuto come al-Islah.
[9]
Front de libération nationale.
[10]
Rassemblement national démocratique.
[11] Il tasso di partecipazione è
stato del 46% nel 2002 e del 35% nel 2007.
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