Succede
spesso, in questi ultimi giorni, di parlare di una "riedizione dello
scenario algerino" in Egitto, dove il processo rivoluzionario lanciato nel
gennaio 2011 sta attraversando una fase critica con il ritorno dell'esercito
sul davanti della scena e il suo hold-up sulla formidabile mobilitazione
anti-Morsi iniziata dal movimento Tamarud.
"La fine della primavera araba" secondo Khalid Gueddar |
traduzione dell'articolo di Yassin Temlali per
Le Quotidien d'Oran
Non
è necessario enumerare tutte le differenze tra quello che è successo in questo
paese e l'annullamento, deciso dai militari algerini, delle elezioni
legislative del dicembre 1991 vinte dal Front islamique du salut (FIS). Ci
limiteremo ad evocarne due, le più importanti.
La
prima è che la dimissione di Mohamed Morsi era una rivendicazione realmente
popolare, a differenza del congelamento del voto tra il primo ed il secondo
turno avvenuto nel caso algerino. Per una parte importante della popolazione e
dell'elettorato, infatti, solo gli islamisti avrebbero potuto mettere fine al
sistema FLN (Front de libération National, partito unico controllato
dall'esercito fino al 1988, ndt).
La
seconda differenza è che la rivendicazione della piazza egiziana non era un
sintomo di timore per un possibile avvento al potere degli islamisti, ma una
reazione al fallimento dei Fratelli musulmani incapaci di migliorare la
situazione socio-economica e della sicurezza nel paese, e una risposta ai
tentativi di islamizzazione dell'apparato di Stato, di cui un esempio
caricaturale è fornito dalla designazione di un ex responsabile di un gruppo
integralista macchiatosi della morte di decine di turisti stranieri a Luxor
(1997)…alla testa del governatorato della stessa Luxor.
In
un paese dove circa il 10% della popolazione è cristiano e dove la riscoperta
dell'attaccamento religioso non è riuscito a bloccare il processo di
secolarizzazione della società, in atto da oltre un secolo e mezzo, il discorso
islamista era sempre più percepito come un affondo settario, una minaccia per
il multi-confessionalismo egiziano e la stessa diversità all'interno dell'islam
(massacro degli sciiti del 23 giugno 2013).
Queste
differenze con il contesto algerino di inizio anni '90 significano allora che
la situazione in Egitto è al riparo da una possibile evoluzione, per così dire,
"all'algerina"? In altre parole, le frange religiose più radicali
(all'interno e all'esterno della Fratellanza) faranno o no ricorso alla
violenza? Questo rischio, purtroppo, non può essere scartato.
Le
organizzazioni più radicali non sembrano ancora aver rivisto la "dottrina
del jihad" e in alcuni casi credono ancora alle armi come estremo ricorso
contro il taghout
("trasgressore"), oggi incarnato non soltanto dal generale
Abdelfattah El Sissi ma anche da milioni di egiziani di ogni estrazione
sociale.
Non
è da escludere che, seguendo la vecchia massima "la miglior difesa è
l'attacco", certi elementi possano giocare d'anticipo reagendo così alla
repressione che sembra potersi abbattere sul campo islamista dopo la
destituzione dell'ex presidente Morsi e l'arresto dei membri più in vista dei
Fratelli musulmani.
(…)
L'esercito e il ricorso
alla violenza
E'
utile ricordare in questa sede alcuni eventi accaduti nei primi anni '90 in
Algeria. La prima azione militare attribuita ad un gruppo islamista, dopo lo
smantellamento della rete degli insorti di Bouyali (1982-1987), ha avuto luogo
alla fine del novembre 1991, ossia un mese prima della sospensione dello
scrutinio legislativo vinto dal FIS. Si tratta dell'attacco ad una postazione
dell'esercito a Guemar (sud-est) ad opera del Mouvement islamique armé (MIA),
che non aveva legami organici con il partito islamista e che addirittura avversava
il suo progetto di penetrazione dello Stato per via elettorale.
Il
jihadismo algerino, in effetti, aveva negli anni '90 una suo programma
d'azione, come sembra essere il caso anche per l'omologo fenomeno egiziano
(l'elezione di Morsi non ha messo termine alle violenze e agli attentati nella
penisola del Sinai). Questo significa che l'annullamento delle elezioni nel
1991 ha avuto, in realtà, un ruolo minore nell'esplosione delle violenze e
delle contro-violenze vissute dall'Algeria a partire dal 1992?
La
decisione presa allora dall'Alto comando dell'esercito, mascherata da
operazione di salvataggio della repubblica, ha certo contribuito a far apparire
i sostenitori del jihadismo - agli occhi dei quadri del FIS - come degli uomini
lungimiranti, che non si sono lasciati ammaliare inutilmente dalle sirene della
legalità. Ha aperto agli islamisti radicali, già attivi all'interno del MIA e
in altri gruppi (tra cui uno uscito dal FIS, il Mouvement de l'Etat islamique
di Sais Makhloufi), delle prospettive di reclutamento insperate, con centinaia
di militanti che si consideravano derubati della loro vittoria e si ritrovavano
costretti a fuggire la repressione.
Sì
perché in quel frangente l'irresponsabilità si è spinta fino a rinchiudere, a
"titolo preventivo", migliaia di membri del FIS nei "campi del
sud" e ad assoldare squadroni della morte per abbatterne altrettanti. Una
parte considerevole tra gli "ospiti" dei campi, liberati o fuggiti,
si sono dati poi alla macchia - raggiungendo coloro che li avevano preceduti -
per salvarsi dalle esecuzioni sommarie.
La
gestione catastrofica del dopo-gennaio 1992, quindi, è il motivo principale
della tragedia vissuta in quel decennio e non, in sé, l'annullamento delle
elezioni legislative, che in un contesto di forti tensioni politiche e di
estrema bipolarizzazione FLN-FIS non sono state né libere né democratiche.
Ventuno
anni dopo possiamo dire che quel dramma poteva forse essere evitato se i
dirigenti dell'esercito non si fossero mostrati tanto ciechi (ma lo sono stati
veramente, visto che tuttora detengono le redini politiche ed economiche del
paese?, ndt) rispetto alle
conseguenze delle loro decisioni.
L'Algeria
avrebbe ugualmente perduto decine di migliaia di suoi figli, se non fossero
cominciati gli arresti e le esecuzioni senza processo a carico di numerosi
militanti islamisti? Se la messa al bando del FIS non avesse significato la
morte del processo di apertura democratica seguito all'intifada del 1988?
Egitto: la tentazione del
"ritorno alla sicurezza"
E'
questa fase del celebre "scenario algerino" che deve essere ben
meditata in Egitto, soprattutto tra i partigiani della "estirpazione
militare dell'islamismo", un fantasma condiviso in tutto il contesto
mediorientale. Certi errori commessi durante il decennio rosso non devono
essere ripetuti in questo paese, nonostante la disaffezione nei confronti
dell'islam politico stia toccando il suo apice e costituisca un precedente
nella storia non solo nazionale.
Se
l'Egitto non vuole che lo slancio più genuino contro l'autoritarismo islamico
si spenga, e si perda in un regolamento di conti diretto dai fouloul (residui e nostalgici dell'era
Moubarak), il movimento che si oppone ai Fratelli musulmani deve moderare gli
ardori tra le fila degli éradicateurs,
che sognano di "rispedire gli islamisti in prigione" piuttosto che di
vincerli in una competizione democratica, in cui le regole vietino tanto la
limitazione delle libertà politiche quanto la strumentalizzazione religiosa per
accedere al potere.
Intanto
però, sono già stati avviati procedimenti giudiziari contro i dirigenti della
Fratellanza, su ordine di un procuratore generale nominato da Hosni Moubarak,
inutilmente dimesso da Morsi e rientrato in carica proprio alla vigilia della
destituzione dell'ex presidente.
Sebbene
in alcuni casi le accuse possano essere fondate (appello alla violenza e
all'odio..), gli espedienti utilizzati hanno tutta l'aria di una vendetta legale,
condotta da una giustizia che non ha ancora condannato i responsabili della
repressione di gennaio-febbraio 2011 e che continua a scagionare i simboli del
passato regime.
Se
questa repressione si estenderà alla base della Fratellanza, potrebbe - come avvenuto
in Algeria nel 1992 - spingere molti suoi membri tra le braccia dei jihadisti.
La conformazione geografica dell'Egitto - l'assenza di montagne boscose dove
ripararsi e costituire dei "territori liberati" - non lascia
propendere per una insurrezione all'algerina. Ma un ritorno ai grandi affari,
sotto il cappello protettivo dei militari, di fouloul entusiasti e vendicativi - che non hanno altro programma se
non l'asservimento politico ed economico degli egiziani - potrebbe scatenarne
una di bassa intensità. In questo modo verrebbe servito il pretesto per
rimandare alle calende greche quel processo di democratizzazione che fu una
delle rivendicazioni centrali dell'intifada del 25 gennaio 2011.
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