Sono
le "donne delle terre collettive", quelle che il diritto
consuetudinario tribale esclude dall'eredità. In gran parte analfabete, provenienti
dalla campagna, si sono unite per reclamare diritti e uguaglianza. Con qualche
risultato.
Fatima
è seduta accanto alla baracca di legno e lamiere dove vive da alcuni anni
assieme alle due figlie, Ilham e Samira. Da quando, rimasta vedova, ha dovuto
lasciare il villaggio poco lontano per rifugiarsi nei sobborghi di Kenitra, in
località douar Bled Dendou.
All'interno
del piccolo capanno i tappeti cercano di sopperire all'assenza di pavimento,
separando i materassi dalla terra battuta. Dalla soglia, si vede in lontananza
la striscia d'asfalto dell'autostrada fendere i campi circostanti, per lo più
lasciati a maggese, e più dietro il cemento dei palazzi del centro abitato.
La
donna, sulla cinquantina, tira avanti con qualche lavoretto - pulizie negli
appartamenti in città - sufficiente a pagare le bombole del gas, i pasti, e ad
assicurare un'istruzione alle ragazze. Lei è analfabeta, come gran parte della
popolazione femminile cresciuta in ambito rurale, ed ha scoperto tardi il
significato delle parole diritto e uguaglianza. Per Ilham e Samira vuole
qualcosa di diverso.
Fatima
fa parte del movimento Soulaliyate, composto da migliaia di donne in tutto il
Marocco, che reclamano il diritto di beneficiare, allo stesso titolo degli
uomini, dei proventi delle terre collettive tribali.
Leggi e consuetudini
Queste
donne, appartenenti ad una delle oltre 4 mila tribù (berberofone e arabofone)
tuttora recensite nel paese, sono state escluse dalla riforma del codice di
famiglia (moudawwana) del 2004, che ha
gettato le basi - almeno a livello legale - per un miglioramento della
condizione femminile in contesto urbano (e ha fissato la quota di eredità per
le donne a metà di quella prevista per gli uomini).
Le
soulaliyate infatti restano
sottoposte al diritto consuetudinario, orf
o azerf in lingua amazigh, che le
priva della possibilità di possedere o sfruttare terre appartenenti alla tribù,
trasmesse di padre in figlio. Le divisioni in parcelle e le assegnazioni sono
affidate al consiglio dei delegati, i nouab,
posto sotto la "tutela" dello Stato: è il Ministero dell'Interno, in
base al dahir (decreto reale) del
1919, che ne detiene il controllo.
Considerate
per legge "inalienabili", il diritto di usufrutto di queste terre
viene abitualmente trasferito agli eredi, rigorosamente maschi, una volta
compiuto il sedicesimo anno di età. Ma dagli anni '90 si è resa possibile una
nuova, ghiotta, opportunità: la vendita. Le terre vengono cedute al comune di
riferimento, che nove volte su dieci le dichiara edificabili e le affida alle
società di costruzione (una lobby molto influente e vicina agli ambienti monarchici).
In
questi casi gli uomini della tribù possono ricevere in cambio un appartamento
nei nuovi palazzi o un indennizzo in denaro. Le donne - se divorziate, vedove o
sposate con un "estraneo" (esterno al lignaggio) - rimangono escluse
dai proventi o peggio ancora, nell'ipotesi in cui vivano sui terreni passati di
mano, vengono espropriate e costrette a riparare alla meno peggio in un'altra
zona. Spesso in baraccopoli cresciute ai margini dei centri abitati.
Fatima
è una di queste.
L'area
di Kenitra-Mahdia, tra l'altro, è uno degli esempi più eclatanti
dell'esplosione del fenomeno. Battezzata Port Lyautey ai tempi della
colonizzazione francese, oggi la città è il quarto polo industriale del paese,
in continua espansione urbanistica. Le terre circostanti vengono inghiottite a
ritmo serrato e dall'oggi al domani sorgono nuovi quartieri-dormitorio, nelle
aree periferiche, e complessi residenziali lungo la costa.
La
vicinanza a Rabat (40 km circa) e i facili collegamenti (treno, autostrada) la
rendono una soluzione appetibile per molti funzionari e appartenenti alla
classe media, che non sono disposti a pagare l'alto canone di affitto
solitamente imposto nella capitale.
Fatima
ha sentito parlare per la prima volta delle soulaliyate
nel 2011, quando le "donne delle terre collettive" si sono unite alle
manifestazioni - quasi quotidiane - del Movimento 20 febbraio, dando maggior
impulso all'attività di sensibilizzazione, estesa ormai a quasi tutto il
territorio nazionale. Da allora, partecipa agli incontri e alle iniziative del
gruppo e cerca lei stessa di informare amiche e conoscenti sulla lotta condotta
dal movimento femminile e sui primi risultati ottenuti.
Rompere il muro del
silenzio
"All'inizio
le altre donne della tribù mi prendevano per pazza e gli uomini non esitavano a
minacciarmi" racconta Rkia B., ex impiegata al Ministero delle Finanze
oggi in pensione, tra le fondatrici del movimento nel 2007. Appartenente al
lignaggio degli Haddada ma sposata con un "estraneo", Rkia si è vista
rifiutare la sua parte di eredità alla morte del padre. "Ho otto fratelli
maschi e sono la sola a non aver ricevuto niente. Poi la discriminazione è
proseguita quando una parte delle terre è stata venduta e la famiglia ha
ricevuto i risarcimenti del caso".
L'amarezza
che le compare sul volto, cinto da un foulard colorato in stoffa leggera,
accompagna il ricordo dell'umiliazione subita nel momento in cui l'anziana militante
aveva cercato di far valere i propri diritti. "I delegati della tribù mi
hanno liquidata dicendo: sei solo una
donna, per caso ci vedi vestiti con la takchita? [abito tradizionale
femminile, variante del caftano. Nda].
Quando mi sono rivolta al ministero, invece, mi sono sentita dire: signora, lei non ha i requisiti richiesti.
La stessa risposta, insomma, solo in forma più diplomatica".
E'
a questo punto che Rkia ha deciso di appoggiarsi sull'Association démocratique
des femmes du Maroc (ADFM) per costituire i primi nuclei di quello che è poi
divenuto il movimento Soulaliyate. La sede dell'organizzazione è stata messa a
disposizione per gli incontri, la formazione giuridica e in molti casi
l'alfabetizzazione di base, mentre le attiviste più rodate hanno fatto capire alle
donne, che si presentavano man mano, l'importanza di creare una rete e di
federarsi.
Così,
sei anni fa, è stato possibile organizzare il primo grande sit-in di fronte al
Parlamento, dove circa mille soulaliyate
- arrivate da tutto il paese - hanno manifestato chiedendo la modifica della
legislazione in vigore e l'accesso ai benefici delle terre tribali. Le donne
rurali, emarginate economicamente e socialmente, hanno iniziato a prendere
coscienza e rompere il muro di silenzio che le circonda.
"Diritti a dosi
omeopatiche"
Da
allora le soulaliyate, forti del
sostegno dell'ADFM e di altre organizzazioni, hanno moltiplicato le iniziative
e la risonanza, riuscendo a smuovere qualcosa nella farraginosa amministrazione
del regno. Nel 2009 e nel 2010 il Ministero dell'Interno ha emesso una
circolare che autorizza le "donne delle terre collettive" a ricevere
una parte di indennizzo in caso di vendita delle parcelle. Inoltre la nuova
costituzione, voluta dal sovrano per arginare la "primavera" locale nel
2011, ha sancito il principio di uguaglianza tra i sessi (art. 19), fornendo
un'arma in più - a livello legale - alla battaglia femminista.
"Il
mio è l'esempio vivente che la nostra lotta non è vana" afferma Leila R.,
originaria della tribù Chebbaka, qualche decina di chilometri verso l'interno
rispetto a Kenitra. Nei mesi scorsi, lei e le altre donne della comunità hanno
beneficiato di un primo risarcimento di 5 mila dirham (circa 500 euro). Una
vittoria, ricorda tuttavia la stessa Leila, più simbolica che materiale: da un
lato è la prova che l'usufrutto delle terre tribali non è più appannaggio
esclusivo degli uomini, dall'altro i soldi ricevuti sono briciole, se
paragonati ai lunghi decenni durante i quali le donne sono state escluse dagli
introiti.
Più
in generale, fa sapere l'ADFM, negli ultimi due anni sono circa 50 mila le soulaliyate che hanno ricevuto questo
tipo di indennizzo. Ma si tratta soltanto di "un primo passo",
precisano le attiviste. Le somme concesse sono "insignificanti" e
soprattutto sono ancora molti, troppi, i villaggi del "Marocco
profondo" in cui le autorità locali e il consiglio dei nouab riescono a bloccare l'applicazione
delle circolari o in cui le donne sono tenute all'oscuro delle transazioni
effettuate sul patrimonio collettivo.
A
precludere ulteriori progressi c'è la mancanza di trasparenza dell'intero
processo di assegnazione, con i silenzi e le connivenze tra delegati tribali e quelli
statali. D'altra parte la contraddittorietà della legislazione in sé - con decreti
reali, circolari ministeriali, orf e moudawwana che sembrano annullarsi a
vicenda - fornisce un comodo alibi ai responsabili che dovrebbero metterla in
atto. Risultato: il principio di uguaglianza sancito dalla costituzione resta
per il momento un lontano miraggio.
Piuttosto
che cedere e accontentarsi, il movimento ha deciso di rilanciare. La linea da
seguire è stata definita durante un incontro nazionale tenutosi - nell'aprile
scorso - nei locali dell'ADFM a Rabat. "Per prima cosa ricorreremo in
tribunale ad ogni ulteriore torto subito, a ripetizione se serve" dichiara
Maryam D., quarant'anni, di fatto una delle portavoce delle soulaliyate e tra le poche ad aver
terminato gli studi superiori.
"Continueremo
anche le mobilitazioni, i sit-in, di fronte ai municipi e al Parlamento, per
chiedere la revisione di un dahir
ormai centenario e palesemente incostituzionale - prosegue in tono agguerrito
la militante -. Serve una nuova legge-quadro che faccia chiarezza, è finito il
tempo delle circolari cavillose e della somministrazione dei diritti a dosi
omeopatiche".
Come
ultima risorsa, Maryam ha intenzione di presentare la sua candidatura al
consiglio dei nouab. "Vogliamo
essere associate al processo decisionale. Anche se il nostro parere non verrà
ascoltato, saremo almeno informate sulle transazioni e non potremo più essere
raggirate al momento della ripartizione dei proventi".
Le
soulaliyate, insomma, sono decise a
rivendicare il pieno status di cittadine. Le militanti della campagna
marocchina non sono più disposte a rimanere relegate ai margini, ad essere ancora
dimenticate - tra arcaismo e discriminazione - in un paese che si vanta degli
avanzamenti democratici, ma che troppo spesso "fatica" a passare
dalla teoria alla pratica.
Nessun commento:
Posta un commento