Nella
regione meridionale del regno, la modernizzazione agricola e l'impiego delle
tecniche intensive hanno innescato un mutamento profondo nel tessuto
socio-economico. Investimenti stranieri, sfruttamento e violazioni alcuni dei
risultati.
L'accordo
è arrivato dopo un lungo periodo di lotta e repressione, di minacce e ricorsi
in tribunale. Si tratta di una vittoria per tutti gli abitanti del Souss, come hanno
dichiarato i sei alla fine della protesta: "il nostro non era solo un
obiettivo materiale. Abbiamo voluto dimostrare alle grandi aziende straniere e
nazionali che anche gli operai e i contadini marocchini possono difendersi, per
veder rispettati i loro diritti".
Vecchi fellah, nuovi braccianti
Quella
del Souss - Marocco meridionale - è una zona di coltivazione per eccellenza,
storicamente conosciuta per le fertili pianure irrigate dal fiume omonimo. Il "granaio
nordafricano", così era stata ribattezzata la regione qualche secolo fa.
Nessuna fantasia o immaginazione, se si pensa che la città di riferimento -
Agadir - nella lingua berbera parlata da queste parti significa proprio "granaio"
o più generalmente silos, magazzino di stoccaggio, di cui è ancora possibile
vedere qualche antico gioiello sparso sul territorio.
Fino
a ieri popolata da piccoli contadini (fellah)
dediti alla produzione di ortaggi e cereali essenzialmente per il circuito
locale - come la maggior parte della superficie rurale del paese -, la piana del
Souss ha ormai mutato il suo volto ed è divenuta un esempio del nuovo modello
di produzione agricola, moderno e intensivo, veicolato dal governo e dagli
accordi internazionali di libero scambio conclusi in materia (con USA e UE i più
importanti).
Risultato:
la comparsa di oltre 10 mila ettari di serre, riservate alle monocolture da
esportazione (agrumi, pomodori, banane) e molto dispendiose in termini di
approvvigionamento idrico; il prosciugamento del fiume Souss, che taglia in due
la valle racchiusa tra le catene dell'Alto e dell'Anti Atlante, e la
progressiva scomparsa dei piccoli contadini, fagocitati dai nuovi colossi del
settore.
"Le
dighe erette per assicurare l'acqua alle aziende esportatrici hanno abbassato
il livello della falda, che in alcune zone raggiunge i 100 m di
profondità", spiega Houcine Bouchabi, segretario regionale del sindacato
di categoria (FNSA). "I pozzi sono rimasti a secco e così i fellah - non potendo acquistare le
costose attrezzature per i nuovi scavi - vendono le loro terre per pochi soldi
e iniziano a lavorare come braccianti".
Chi
sono questi colossi del settore? Una lobby ristretta e potente, formata da
gruppi europei stabilmente insediati nella zona, come le spagnole Nufribel, Fruca,
la francese Soprofel-Idyl o le società a capitale misto Azura-Disma, Duroc e
Monsanto Maroc. Oppure i grandi proprietari marocchini, l'attuale sindaco di
Agadir e il monarca Mohammed VI due esempi su tutti, a conferma del solido
legame tra rappresentanza politica e affarismo.
Alcuni
agricoltori hanno cercato di rimediare alla scarsa competitività unendosi in
cooperative, ma la maggior parte è stata comunque estromessa, andando ad
infoltire il tessuto del sottoproletariato rurale, assieme ai flussi di migranti
che arrivano da ogni parte del paese. Le serre costituiscono infatti l'unica alternativa
ai cantieri nelle città, per chi è senza lavoro o è costretto ad abbandonare le
proprie terre.
Una
delle conseguenze del recente aumento demografico nella regione è il
peggioramento delle condizioni di vita per i nuovi abitanti. Molti provengono
dalle montagne dell'Atlante e dagli altipiani delle zone interne, dove hanno
lasciato le vecchie case, i magri raccolti di sussistenza e i greggi
striminziti di capre. Hanno percorso centinaia di chilometri nella speranza di
migliorare la loro esistenza, mettendo in vendita la loro forza lavoro, vale a
dire tutto quello che gli resta.
Ma,
all'arrivo nella piana del Souss, la realtà è diversa da quella immaginata, da
quella promessa dalle agenzie di lavoro interinale, sparse su tutto il
territorio, che si accaparrano la gestione dei flussi stagionali scaricando le
aziende da gran parte degli oneri dell'assunzione.
Nella
migliore delle ipotesi - come attestato dalle ricerche in materia della
sociologa Houria Elattaoui - le famiglie riescono ad installarsi in una piccola
camera in affitto, i singoli invece condividono un letto in una stanza
sovraffollata. Più in generale, gli immigrati non trovano di meglio che
innalzare baracche nelle periferie dei piccoli centri o a ridosso dei campi
dove lavorano. Sono i cosiddetti douar
mika - i "sobborghi di plastica" - costruiti con i resti delle
serre ed altri materiali di scarto.
"Come mosche
attorno a una carogna"
Secondo
le stime della FNSA sono più di 100 mila i braccianti che lavorano nel Souss,
quasi tutti ingaggiati a giornata per una paga media di 6 euro (9 euro quella
prevista dal salario minimo). Si ritrovano all'alba nei mawqef dei villaggi, nella speranza di essere caricati sui furgoni
diretti ai campi. "Quando usciamo di casa non sappiamo se riusciremo ad
ottenere il posto..l'alternativa è l'elemosina. A volte ci facciamo concorrenza
al ribasso pur di lavorare qualche giornata in più. Viviamo come mosche che
ronzano attorno ad una carogna", confessa Fatima, 25 anni già sfioriti.
I
tre quarti degli operai ingaggiati nella zona sono donne. "Lavorano di
più, sopportano meglio lo sforzo fisico e sono ritenute più docili dai
padroni", riferisce Bouchabi. Sono anche le principali vittime di
aggressioni sui luoghi di lavoro, come conferma Fatima: "quando lavoriamo
per 10 ore nelle serre, dove la temperatura arriva a 45° e l'umidità è
elevatissima, siamo costrette a svestirci un po' per evitare di soffocare. I
caporali ci guardano con smania, quasi indemoniati..per loro siamo solo oggetti
da sfruttare, anche sessualmente".
Sono
numerose le testimonianze di ragazze che hanno perso il posto per essersi
ribellate ai ricatti e ai maltrattamenti. La FNSA cerca di battersi e fornire
assistenza sul territorio, ma in generale - la sua - è una constatazione di
impotenza. La piccola e decadente sede della federazione, quasi clandestina,
nascosta tra i palazzi di Khmiss Ait Aamira (tra i centri nevralgici dell'agro-business)
è in sé una conferma della scarsa presa sulla popolazione dell'organizzazione.
"L'ingresso
è spesso sorvegliato e le spie riferiscono ai padroni chi passa nel nostro
ufficio", racconta Hamid, ex bracciante ed oggi militante per i diritti.
"Non è facile convincere i colleghi a ricorrere al sindacato. Scappano
piuttosto che accompagnarti in sede. Come dargli torto, io stesso ho perduto il
mio lavoro proprio per questo motivo".
Sono
sempre più rari gli operai sindacalizzati nel settore agricolo, come in tutta
l'industria privata nazionale: la semplice adesione alla federazione di
categoria o la rivendicazione delle garanzie contrattuali - previste dalla
legislazione - può essere causa di licenziamento.
"Ho
avuto un incidente sul lavoro, avevo bisogno di soccorso immediato. Mi hanno fatto
pagare l'ambulanza e le cure mediche… Quando ho protestato con il mio capo,
dicendogli che stava infrangendo la legge, lui mi ha risposto che si tratta
solo di chiacchiere e slogan, buone per la piazza ma non per la serra",
confida Mohamed, impiegato in un magazzino di stoccaggio e confezionamento.
Anche
in questo caso è difficile enumerare le testimonianze di abusi e violazioni commessi
dai caporali e dai proprietari. In questo tipo di lavoro raramente vi sono
contratti (e ancor più raramente vengono rispettati) e sono assenti le minime
forme di tutela.
Non
c'è maternità per chi rimane in cinta, né pensione ad attendere le lavoratrici
anziane, che vengono scaricate dall'oggi al domani appena dimostrano di avere
un rendimento minore delle colleghe più giovani. Non ci sono misure di sicurezza
né protezione a salvaguardare la salute dei braccianti, che entrano nelle serre
poco dopo l'aspersione dei pesticidi, inalando sostanze tossiche per ore.
"Ci ritroviamo a maneggiare fertilizzanti e altri prodotti chimici a mani
nude, senza mascherine…quando proviamo a dire qualcosa se ci va bene riceviamo
insulti, altrimenti veniamo picchiati e messi alla porta. Ci ricattano, minacciano
di denunciarci alla polizia per furto di materiali e attrezzature".
Come
è possibile il perdurare di una simile situazione?
"Da
un lato il settore agricolo è in sé altamente discriminatorio, in termini di
legislazione. Lo stesso salario minimo, ad esempio, è già in partenza inferiore
del 30% rispetto a quello industriale", risponde Abdelhamid Amine,
vice-presidente dell'Associazione marocchina per i diritti umani (AMDH). "Ma
oltre alle carenze legislative e giuridiche - teniamo presente che nemmeno il
re, con le sue aziende, rispetta i pochi diritti previsti sulla carta - bisogna
fare i conti con le connivenze tra padronato e potere politico, che bloccano le
rivendicazioni, il ricorso ai tribunali e favoriscono la repressione".
Ciò
nonostante le recenti mobilitazioni andate in scena durante la
"primavera", animata in loco dal Movimento 20 febbraio, sembrano
essere riuscite - assieme a qualche piccolo successo come quello di Biougra - a
scuotere i lavoratori del settore e a coinvolgerli almeno in parte nella
protesta. Negli ultimi mesi la FNSA ha organizzato alcuni sit-in nella
capitale, di fronte al Parlamento, e anche nella piana del Souss braccianti e
attivisti hanno provato in più occasioni a far sentire la loro voce. Quanto alle
promesse (aumento salariale, abolizione dell'art. 288 del codice penale che
criminalizza lo sciopero) avanzate nel 2011 dal Ministero, per frenare l'ondata
di malcontento, non si è ancora registrato nessun avanzamento.
Plan Maroc Vert: la
perpetuazione del sistema
La
politica di sviluppo del settore, promossa dal governo nell'ultimo quinquennio,
punta ad aumentare la produzione ortofrutticola votata all'esportazione, ma non
prende in considerazione le condizioni a cui è costretto l'agricoltore
marocchino, schiacciato dalla ricerca di competitività sui mercati
internazionali, e quindi di profitto, dei magnati dell'agro-business a cui è
stata spalancata la porta del paese.
Gli
accordi conclusi tra Marocco e Unione europea (2012) sullo sgravio fiscale
degli investimenti stranieri e la liberalizzazione degli scambi dei prodotti
agricoli, corollario del Plan Maroc Vert lanciato nel 2008 da Rabat,
favoriscono la perpetuazione di questo sistema di sfruttamento e gettano le
basi per il suo accrescimento.
Sebbene
la grande maggioranza dei terreni coltivati nel regno sia ancora suddivisa in
piccole parcelle (meno di 2 ettari) lavorate dai fellah, la concentrazione di terre e capitali - su cui sono
convogliate la gran parte delle risorse e degli incentivi - occupa ormai un
posto di primaria importanza nell'economia del settore, di cui il Souss è
l'esempio lampante ma non l'unico. Il numero delle serre installate nelle
pianure marocchine è in costante aumento, da Agadir a Dakhla e alla regione di
Kenitra, e le grandi aziende si espandono a danno non soltanto dei piccoli contadini
ma anche di abitazioni, douar,
piccoli villaggi che ne intralciano i guadagni.
Il
modello di agricoltura industriale incoraggiato dal Plan Maroc Vert sembra
dunque disposto a sacrificare dignità e diritti dei lavoratori in nome
dell'esportazione. Ma almeno, contribuisce allo sviluppo del paese?
"Dovrebbe
farlo, ma non è così. Da un lato il ritorno dell'export è minimo se paragonato
agli sforzi fatti per sostenerlo e la bilancia commerciale resta comunque
deficitaria. Dall'altro si rischia di mettere in pericolo la sicurezza
alimentare, già fortemente minacciata dall'accresciuta dipendenza con l'estero
per l'approvvigionamento dei prodotti strategici. Un esempio. Nel 2010 il Marocco
ha importato 3,8 milioni di tonnellate di grano sui 7 consumati, mentre il 70%
dell'import agroalimentare ha interessato cereali, zucchero, latticini ed olio.
In altre parole, per coprire l'importazione annua di grano servono almeno 4
anni di esportazione di pomodori e di arance", spiegava il professor
Najib Akesbi, docente all'Istituto di Veterinaria e Agronomia di Rabat, nei
giorni seguiti all'intesa sui prodotti agricoli tra l'UE e il regno alawita.
"Il
piano - continuava l'economista - afferma di voler modernizzare il settore, ma
privilegiando il modèle tomatier -
intensivo e dannoso per l'equilibrio dell'ambiente - non risponde ai bisogni
reali e prioritari della popolazione. Stati Uniti ed Europa ci vendono il
piatto forte e noi ricambiamo con qualche porzione di insalata e dessert, si
tratta di uno scambio impari".
Più
in generale, per il professor Akesbi, l'agricoltura marocchina si trova
inserita in un processo di integrazione al mercato mondiale in un momento in
cui non ha ancora beneficiato di alcuna riforma strutturale per mettersi al
passo. La sottoscrizione di accordi di libero-scambio, in questa prospettiva,
non rappresenta un incentivo alla lotta contro la povertà o alla crescita
economica, che invece restano legate ad una riforma fondiaria attesa da
cinquant'anni, alla concessione di maggiori finanziamenti alle coltivazioni di
base e ad una nuova strategia di fornitura idrica da sostituire al fallimento
delle dighe.
Intanto
le grandi imprese si arricchiscono grazie a questa politica, con la complicità
dei partner stranieri, senza che contadini e braccianti ne traggano a loro
volta vantaggio. E' così che i banconi dei supermercati europei offrono frutta
e verdura ad un prezzo contenuto, mentre le aziende delocalizzano succhiando
risorse ed esistenze nei "paesi emergenti", mentre i dirigenti
affermano "che vorrebbero tutelare di più il lavoratore ma che non
possono, devono abbattere i costi, è la legge del mercato", mentre i
contadini marocchini continuano ad essere sfruttati in silenzio.
Fino
a quando decidono che è arrivato il momento di dire basta e di alzare la testa.
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