La
corte di appello di Rabat ha riconosciuto colpevole di "appartenenza ad
organizzazione terrorista" il belgo-marocchino Ali Aarrass. Dodici anni di
carcere il verdetto emesso dal tribunale sulla base di una confessione
"estorta sotto tortura", denunciano gli avvocati e le ong per i
diritti umani. Accuse che si sommano alle pesanti dichiarazioni contenute nella
sentenza della Corte europea sul caso El Haski c. Belgio e a quelle rilasciate
di recente dall'inviato ONU Juan Mendez.
"La
farsa continua" è il commento secco di Nicholas Cohen, uno dei legali di
Ali Aarrass, all'uscita dall'aula lunedì 1° ottobre. Il tribunale ha sostanzialmente
confermato la pena inflitta in primo grado (quindici anni) al suo assistito,
con una lieve decurtazione che non cambia la valutazione generale sul processo
da parte del comitato di giuristi schierato a difesa di Ali.
"I
giudici non hanno tenuto conto del nostro rapporto dettagliato sulle numerose
inosservanze ed hanno preferito dare credito ancora una volta alla confessione
che Aarrass è stato costretto a firmare sotto torture indicibili durante il
periodo di custodia", ha affermato il legale prima di ricordare che
l'estradizione di Ali - passato a fine 2010 dalle carceri spagnole a quelle
marocchine nell'indifferenza delle autorità belghe - è avvenuta "in aperta
violazione delle misure provvisorie stabilite dall'Alto Commissariato ONU per i
diritti umani".
Non
è servito a nulla nemmeno l'arrivo a Rabat - per assistere all'udienza - della
cospicua delegazione internazionale a sostegno dell'imputato, tra cui figuravano
gli avvocati dell'International State Crime Initiative (ISCI) di Londra, l'ex
presidente di Avocats sans frontières Marc Nève (membro del Comitato europeo
per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani) e i rappresentanti
dello studio legale belga Ius Cogens, promotori dell'iniziativa "l'ultima
possibilità per un processo equo in Marocco".
Quella
di Ali Aarrass è una storia per lo più sconosciuta e pertanto emblematica per
capire l'estrema fragilità in cui versa lo Stato di diritto nel regno alawita.
Una storia che si intreccia con la dura repressione del fenomeno islamista (o
presunto tale) messa in atto dal governo di Rabat dopo gli attentati del 2003 a
Casablanca, denunciata da Amnesty International, Human Rights Watch (HRW) e dalla Federation internationales
des drotis de l'homme (FIDH) nei loro rapporti. Ma non solo. Quella di Ali
è una storia che illustra anche la complicità dei paesi europei nelle
violazioni perpetrate - dietro l'alibi della lotta al terrorismo - sull'altra
sponda del Mediterraneo, e il disinteresse di quegli stessi paesi per la sorte
riservata ai propri cittadini "di serie B". Una storia - ai lettori
italiani che si interessano di diritti umani in Marocco ricorderà da vicino le
vicende di Kassim Britel e Younes Zarli - su cui vale la pena ritornare nel dettaglio.
Melilla-Bruxelles a/r
Ali
Aarrass è un cittadino marocchino originario delle montagne del Rif, nato e
cresciuto nell'enclave di Melilla (città spagnola situata nella costa nordafricana)
fino all'età di quindici anni. E' il 1977 quando, dopo la separazione dei
genitori, si stabilisce a Bruxelles con la madre e le due sorelle minori e
inizia subito a lavorare per sostenere le spese della famiglia. Operaio,
venditore ambulante e poi proprietario di una piccola cartoleria in un
quartiere abitato prevalentemente da immigrati, Ali è considerato un ragazzo
semplice e generoso dai suoi conoscenti, uno che "non si riempie la testa
con la politica, ma si dimostra sensibile ad ogni sorta di ingiustizia", dicono
di lui le testimonianze raccolte dal comitato Free Ali.
Nel
1989, sposato e ventisettenne, Aarrass acquisisce la cittadinanza belga e, in
seguito, adempie regolarmente agli obblighi di leva in una base Nato a Spa. Quando
nel 2005 decide di tornare a vivere a Melilla assieme alla moglie Houria, dopo
il fallimento della cartoleria e le scarse prospettive lavorative, Ali può
essere considerato un cittadino modello. Non mai avuto problemi né con la
polizia né con la giustizia di Bruxelles.
L'arresto in Spagna e
l'estradizione in Marocco
I
guai iniziano, invece, pochi mesi dopo il rientro a Melilla, quando Aarrass viene
fermato per la prima volta dalla polizia spagnola nell'ambito di un'inchiesta -
condotta con l'ausilio dei servizi marocchini - sul traffico d'armi (2006).
Dopo quattro giorni di reclusione Ali viene scarcerato su cauzione e riprende
servizio nella piccola ditta di trasporti in cui lavora assieme ad un
fratellastro.
L'episodio
sembra destinato a non avere ripercussioni, ma nel 2008 un mandato di arresto
internazionale proveniente da Rabat determina un secondo fermo, questa volta
con l'accusa di terrorismo. In Marocco infatti è stato annunciato lo
smantellamento della "cellula jihadista" nota come Gruppo Belliraj,
dal nome del belgo-marocchino presumibilmente a capo dell'iniziativa.
Stando
agli elementi emersi successivamente durante il dibattimento, il coinvolgimento
di Aarrass nell'inchiesta sarebbe il frutto di una confessione (poi ritrattata)
fatta da un detenuto durante il suo passaggio nei commissariati marocchini.
Il
contesto, all'interno del regno alawita, è quello della "caccia
all'islamista" seguita agli attentati del 2003 a Casablanca. Una stretta
repressiva che ha portato alla condanna - in assenza delle dovute cautele
giuridiche e legali - di quasi 2 mila persone in pochi anni e al ritorno su
vasta scala degli abusi e delle pratiche vessatorie su sospetti e prigionieri da
parte dei servizi di sicurezza per estorcere loro informazioni (vedi link ai
rapporti sopracitati).
Quanto
all'affaire Belliraj - strettamente
legato alle vicende in cui si trova coinvolto Ali Aarrass - perfino nei cabli
della diplomazia americana resi noti da Wikileaks il processo è stato definito
una "farsa", sprovvisto delle garanzie di equità e sostanzialmente
pilotato fin dal suo inizio. L'associazione marocchina per i diritti umani
(AMDH), in prima linea nella difesa degli accusati, ha denunciato inoltre il
carattere politico dell'episodio, che ha visto tra gli imputati sei dirigenti
di alcuni piccoli partiti di opposizione.
"Il
caso Ali Aarrass, come tutto quello che riguarda la famigerata cellula
Belliraj, è una macchinazione", dichiara Khadija Ryadi, presidente
dell'AMDH. "Alla base di tutta la vicenda c'è l'avvicinamento tra la
sinistra e gli islamisti moderati, a cui le autorità hanno voluto opporsi in
tutti i modi. Una simile alleanza non era gradita a Palazzo, che ha provveduto
a punire i trasgressori. Abdelkader Belliraj è servito da capro espiatorio e
attorno alla sua figura - rimasta peraltro oscura - è stata montata la
favoletta della cellula terrorista, con l'unico obiettivo di frenare un
progetto politico islamo-socialista, ben diverso dalla retorica fondamentalista
conosciuta fino a quel momento".
Il
filone spagnolo dell'inchiesta Belliraj, intanto, è affidato ad un giudice
scrupoloso e determinato - Baltazar Garzon - che si occupa delle indagini sulle
reti terroriste attive in territorio iberico dopo gli attentati a Madrid del
2004.
Nel
2009, mentre il tribunale di Rabat condanna tutti i 35 imputati del processo a
lunghe pene detentive, Baltazar Garzon pronuncia un "non luogo a
procedere" nei confronti di Ali Aarrass, il cui dossier è privo di
fondamento, smentendo così le accuse degli omologhi marocchini. Ciò nonostante
Ali resta in prigione, in isolamento, mentre la giustizia spagnola trasferisce
al Consiglio dei ministri il compito di esaminare la domanda di estradizione
presentata dal regno alawita.
E'
a questo punto che nascono i primi comitati a sostegno di Ali e si costituisce
il pool internazionale di legali schierati in sua difesa. La sorella Farida
riesce a mobilitare amici, conoscenti e poi avvocati e giuristi a Melilla,
Bruxelles, Parigi e Londra. La detenzione di Ali è ormai illegale e la
prospettiva del trasferimento nelle carceri marocchine - considerate le
pratiche in esse riservate ai sospetti di terrorismo - un incubo da evitare a
tutti i costi.
I
comitati interpellano i governi di Madrid e Bruxelles, fanno pressione sulle
organizzazioni per i diritti umani e perfino all'ONU il quale, attraverso
l'Alto Commissariato per i diritti umani, emette nel novembre 2010 un parere
negativo sull'estradizione di Arrass. Ma non basta. Poche settimane dopo
l'esecutivo Zapatero dà il via libera al trasferimento, nel silenzio e
nell'indifferenza delle autorità belghe che non si premurano nemmeno di
avvertire la famiglia. Per diversi giorni Farida e gli avvocati non avranno più
notizie di Ali.
"Il Marocco
prosegue sul cammino della vergogna" (Ius Cogens)
"L'estradizione
del signor Aarrass lo porterà direttamente alla tortura. Alla fine i suoi
accusatori impugneranno la prova della sua colpevolezza, una volta ottenuto
l'obiettivo prefissato con metodi barbari". Queste le parole pronunciate
da Abdelkader Belliraj, sulla base della propria esperienza personale, qualche
tempo prima del passaggio di Ali Aarrass nelle mani della giustizia marocchina.
Quanto
accaduto nei mesi trascorsi dal momento dell'estradizione all'inizio del
processo (aprile 2011) è lo stesso Ali a raccontarlo, in una lettera consegnata
alla sorella Farida dove menziona la sua permanenza nel centro di detenzione
segreta di Temara,
la cui esistenza viene negata dalle autorità di Rabat nonostante le numerose
testimonianze rilasciate dagli ospiti di questo luogo, divenuto negli ultimi
anni tristemente celebre e sinonimo delle peggiori vessazioni.
"Mi
trovo di fronte ad orrori e ingiustizie che nessun uomo potrebbe mai
immaginare! Il numero di persone torturate in centri come quello di Temara,
prima di essere condotte in prigione, è impressionante. Molti detenuti non
hanno né un avvocato né una famiglia che possa prendersi cura di loro. Alcuni
sono stati torturati per mesi interi".
Stando
al dossier raccolto dai suoi avvocati, Aarrass non sfugge agli abusi e ai
maltrattamenti riservati ai compagni di sventura prima di comparire di fronte
al giudice istruttore con una confessione firmata in arabo, lingua che non sa
né leggere né scrivere. Nessuna prova materiale. E' questo l'unico elemento in
mano al magistrato al momento della prima condanna a quindici anni di
reclusione, avvenuta nel novembre 2011, cioè pochi mesi dopo la grazia reale
che ha permesso la liberazione di alcuni dei detenuti coinvolti nell'affaire Belliraj.
Ma
le contraddizioni non finiscono qui. Durante i dibattimenti in primo grado e in
appello, Ali ritrattata la confessione e denuncia apertamente i propri
torturatori, senza che il giudice tenga conto delle sue gravi asserzioni o
decida di aprire un'inchiesta. Allo stesso modo i magistrati ignorano altri
importanti elementi apportati dalla difesa, come la registrazione in cui
Belliraj scagiona l'imputato o il confronto di Aarrass con il suo presunto accusatore,
che nega di conoscerlo e di aver intrattenuto rapporti con lui.
Recentemente
il caso di Ali ha suscitato l'interesse dell'inviato ONU Juan Mendez, con cui si è intrattenuto personalmente al momento del suo arrivo
in Marocco - lo scorso settembre - per verificare i progressi del regno in
materia di rispetto dei diritti umani e di lotta alla tortura declamati dalle
autorità di Rabat.
Le
pesanti dichiarazioni rilasciate da Mendez al termine del suo soggiorno -
secondo cui i maltrattamenti e le sevizie sui prigionieri politici hanno ancora
un "carattere sistematico" (vedi allegato), e a cui il governo
marocchino non ha mai ufficialmente replicato - sono state impugnate dai
difensori di Aarrass durante le ultime udienze, prima che il presidente della
corte si affrettasse a togliergli la parola ribadendo che il Marocco è uno
Stato sovrano e che tali dichiarazioni non avevano niente a che vedere con la
vicenda dell'imputato.
Secondo
la delegazione internazionale presente al processo, che ha dovuto far fronte
alle intimidazioni dei poliziotti fuori dall'aula, era evidente l'intenzione
del tribunale di concludere in fretta il dibattimento, "come se la
sentenza fosse stata già scritta".
"La
corte non è nemmeno riuscita a salvare le apparenze di un processo equo. Due
dei consiglieri si sono palesemente addormentati, mentre il presidente ha
continuato a consultare il proprio cellulare", hanno affermato gli
avvocati di Ius Cogens.
Nessuna
sorpresa, dunque, quando il 1° ottobre scorso Ali Aarrass si è visto condannare
a dodici anni in appello, nonostante le incongruenze e le violazioni
sottolineate dai legali dell'imputato e nonostante gli ammonimenti provenienti
dalle istanze internazionali. "Il Marocco prosegue nel cammino della
vergogna", è stato il commento
lapidario dello studio legale belga.
Pochi
giorni prima del verdetto infatti, oltre alle dichiarazioni di Juan Mendez, anche
la Corte europea di Strasburgo - deliberando su un caso molto simile a quello
di Ali Aarrass (El Haski c. Belgio) - aveva dichiarato che la tortura rimane una pratica corrente
nel regno alawita e che il sistema giuridico marocchino, rifiutandosi di
ammettere l'esistenza del fenomeno e di perseguire i responsabili, si rende
complice di maltrattamenti commessi su vasta scala.
Ma
le accuse mosse dai comitati in sostegno di Ali Aarrass presso gli organismi di
difesa internazionale non riguardano soltanto l'atteggiamento dello Stato
maghrebino. Una denuncia contro la Spagna, colpevole di aver estradato il
cittadino belgo-marocchino malgrado il parere negativo espresso delle Nazioni
Unite, è stata ugualmente depositata al Comitato ONU di Ginevra.
Inquietanti
risultano infine, agli occhi degli attivisti, gli interrogativi sul
comportamento del governo di Bruxelles. Le autorità belghe - condannate nel
caso El Haski per la violazione dell'art. 6 della CEDU sul diritto ad un equo
processo - hanno giustificato in un primo tempo il loro totale disinteresse per
la vicenda Aarrass, asserendo che "la Spagna è uno Stato democratico e di
conseguenza si deve avere fiducia nel suo operato". Dopo il trasferimento
del detenuto in Marocco, tuttavia, Bruxelles ha continuato ad ignorare la sorte
di Ali, invocando l'esistenza di una vecchia legge consolare secondo cui un
cittadino belga in possesso della doppia nazionalità, nel momento in cui
rientra nella prima madrepatria (pressoché sconosciuta nel caso di Aarrass),
perde il diritto a godere del suo sostegno per evitare ogni ingerenza.
Per
i comitati in difesa di Ali si tratterebbe in realtà di una giustificazione di
comodo, necessaria ad avallare invece la stretta cooperazione in materia
giudiziaria con Rabat - ormai in evidente contrasto con le norme della
Convenzione europea sui diritti umani - e a coprire l'indifferenza delle
istituzioni per un cittadino considerato "di seconda categoria".
"Tutti
sapevano che Aarrass avrebbe subito i peggiori maltrattamenti una volta giunto
in territorio marocchino. Ci chiediamo - afferma un membro della delegazione
all'esterno del tribunale - con che coraggio il governo belga abbia giudicato
preminente una disposizione diplomatica del XIX° secolo sulla tutela dei
diritti fondamentali di un proprio cittadino che ha sempre adempiuto ai suoi
obblighi verso lo Stato. E' forse perché il cittadino in questione si chiama
Ali e non Pierre o Michel?".
(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)
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