Il
tribunale di Casablanca ha condannato sei militanti del "20 febbraio"
per aver preso parte ad una manifestazione non autorizzata. Secondo
l'Associazione marocchina dei diritti umani sarebbero oltre settanta i membri
del movimento attualmente detenuti nelle prigioni del regno.
Samir
Bradley, Tariq Rochdi, Abderrahman Assal, Youssef Oubella, Nour Essalam
Kartachi e Laila Nassimi (in foto) sono finiti in arresto la sera del 22
luglio, in seguito all'intervento violento della polizia che ha disperso una marcia
pacifica del Movimento 20 febbraio nel quartiere popolare di Sidi Bernussi,
periferia nord della metropoli atlantica.
Dopo
settantadue ore di interrogatori in stato di custodia cautelare, i cinque
ragazzi sono stati trasferiti nel carcere di Oukacha, mentre Laila è tornata
momentaneamente a casa. Tutti e sei gli attivisti, infatti, sono stati accusati
di "partecipazione a manifestazione non autorizzata", "oltraggio
e resistenza a pubblico ufficiale".
Il
movimento,
sceso in strada in quell'occasione contro l'aumento dei prezzi di alcuni generi
di prima necessità e per la liberazione dei detenuti politici, da un anno e
mezzo manifesta con regolarità in tutte le città del paese per chiedere la fine
del monopolio reale sulla sfera di potere - politica, economica, religiosa - e
riforme sociali volte ad attenuare il divario crescente tra le elite e il resto
della popolazione (sebbene la frequenza delle iniziative e l'adesione popolare
siano in calo negli ultimi mesi).
Un processo politico
Durante
le udienze (31 agosto, 7-10 settembre), i testimoni - piccoli commercianti del
quartiere - convocati dall'accusa per avallare la tesi della "pericolosità
e dell'aggressività dei manifestanti" si sono tutti rifiutati di comparire
in aula. La sola prova in mano all'avvocato della polizia - costituitasi parte
civile in un processo dal sapore kafkiano - sono le confessioni degli imputati
ottenute durante la custodia cautelare in commissariato, mentre i video del
corteo apportati dalla difesa non sono stati presi in considerazione.
Ma
le confessioni, hanno ribattuto i sei attivisti in aula, sono state estorte
sotto tortura. Samir Bradley ha descritto minuziosamente i particolari dei
maltrattamenti ("un manico di scopa infilato nell'ano") ed ha
mostrato al giudice la sua maglietta ancora sporca di sangue. "Ho chiesto
ad un agente - ha riferito invece Tariq - di poter leggere la deposizione prima
di firmarla. Lui mi ha risposto: credi forse di essere in Spagna?".
Per
alcuni solo un lontano ricordo degli "anni di piombo" sotto Hassan
II, gli abusi delle forze dell'ordine sui fermati o sui detenuti rimangono una
pratica ancora attuale nel regno alawita, come ricordano le vicende dei prigionieri islamici dopo gli attentati di Casablanca (2003) o di Ezedine Erroussi, protagonista di uno sciopero della fame durato centotrentacinque
giorni, presente in tribunale assieme ai familiari degli imputati.
Nonostante
le evidenti violazioni, le lacune e le incongruenze emerse durante il
dibattimento, ieri pomeriggio (12 settembre, ndr) tutti i militanti citati in giudizio sono stati riconosciuti
colpevoli. Samir, Tariq e Abderrahman sono stati condannati a 10 mesi di
detenzione, 8 mesi per Youssef e Nour Essalam, 6 mesi con la condizionale
infine per Laila. I sei dovranno inoltre versare un risarcimento di 3 mila
dirham a testa (circa 280 euro) alla parte civile.
Al
momento della lettura del verdetto, le grida di dolore delle famiglie dei
detenuti sono state affiancate dalle voci degli attivisti accorsi in tribunale,
che hanno intonato alcuni degli slogan più noti del movimento: ash ash'ab ("viva il popolo")
e karama, hurrya, 'adala ijtima'iyya
("dignità, libertà e giustizia sociale").
"Si
tratta di un processo politico - ha dichiarato Omar Benjelloun, uno degli
avvocati della difesa, all'uscita dall'aula - un provvedimento conforme alla
strategia di repressione intrapresa dalle autorità contro il 20 febbraio".
Per Youssef Raissouni, uno dei responsabili dell'Associazione marocchina dei
diritti umani (AMDH), "il makhzen
(l'apparato di potere, nda) sta
riprendendo fiato dopo mesi di pressione sociale e politica e dimostra tutta la
sua voglia di vendetta nei confronti di chi l'ha contestato. L'obiettivo è
terrorizzare i dissidenti, per intimidire i futuri militanti e spingerli a non
scendere in strada. E' come se dicesse: prima di manifestare fai bene i tuoi
calcoli".
"Ho visto
condannare degli innocenti"
"Samir, Tariq,
Abderrahman, Youssef, Nour Essalam et Laila sono innocenti. Lo so perché quel
giorno io ero con loro. Molti, come me, lo sanno. Tutti
sanno che si è trattato di un processo farsa", ha scritto il blogger Larbi
El Hilali, poche ore dopo il pronunciamento della sentenza, nel post J'ai vu condamner des innocents. "Nell'aula del tribunale ci sono almeno
cinquanta persone che hanno partecipato alla manifestazione, io compreso. Le
imputazioni, quindi, riguardano anche me. Perché non sono tra gli
accusati?", si domanda Larbi nell'articolo - un resoconto dettagliato
della marcia e delle udienze appena concluse - in cui confessa "il
sentimento struggente di non poter fare altro che apportare una testimonianza
sull'ennesima ingiustizia".
Secondo
le stime dell'AMDH, sarebbero oltre settanta i membri del Movimento 20 febbraio
detenuti nelle carceri del regno. Non ci sono cifre ufficiali in proposito,
però, dal momento che gli attivisti continuano ad essere accusati e condannati
per reati di diritto comune e, almeno formalmente, non in virtù della loro
militanza politica. Come nel caso del blogger-dissidente Said Ziani, a Tangeri,
costretto a tre mesi di reclusione per "vendita di sigarette al
dettaglio", una delle attività più diffuse su tutto il territorio
nazionale.
Per
Hicham, altro membro del movimento, la gravità del problema non si riassume con
il solo calcolo dei militanti attualmente in prigione. "La questione non è
sapere quanti siano al momento, ma quante persone sono state arrestate, anche
solo per poche ore, maltrattate, trattenute illegalmente nei commissariati e
sbattute in cella dopo il 20 febbraio 2011 (il giorno che ha segnato la nascita
del movimento, nda)".
Dello
stesso avviso è Youssef Raissouni che si unisce ad Hicham nel denunciare la
"repressione sistematica, sotto forme diverse" che ha accompagnato
fin dall'inizio l'epifania dei nuovi contestatori. Per l'attivista dei diritti
umani il bilancio è senza appello e contraddistingue un ritorno in auge della
detenzione politica nel regno alawita; propositi che smentiscono radicalmente
le dichiarazioni rilasciate di recente, al canale libanese al-Mayadine, dal ministro della Giustizia Mustapha Ramid, secondo
cui "non esistono prigionieri politici in Marocco".
Samir
e compagni, intanto, hanno ripreso posto nelle rispettive celle del carcere di
Oukacha. Lo stesso penitenziario in cui si trovano rinchiusi molti altri
protagonisti della contestazione a Casablanca. Tra loro ci sono Younes Belkhdim
- il "poeta del popolo", una delle voci più conosciute del movimento
- che dal 5 settembre scorso è in sciopero della fame, e il rapper Mouad L'haqed - altro simbolo della "primavera marocchina" - alla seconda detenzione in pochi mesi a causa dei suoi testi impegnati, intonati
costantemente durante i cortei.
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