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giovedì 13 settembre 2012

Nuove condanne per gli attivisti marocchini

Il tribunale di Casablanca ha condannato sei militanti del "20 febbraio" per aver preso parte ad una manifestazione non autorizzata. Secondo l'Associazione marocchina dei diritti umani sarebbero oltre settanta i membri del movimento attualmente detenuti nelle prigioni del regno.




Samir Bradley, Tariq Rochdi, Abderrahman Assal, Youssef Oubella, Nour Essalam Kartachi e Laila Nassimi (in foto) sono finiti in arresto la sera del 22 luglio, in seguito all'intervento violento della polizia che ha disperso una marcia pacifica del Movimento 20 febbraio nel quartiere popolare di Sidi Bernussi, periferia nord della metropoli atlantica.

Dopo settantadue ore di interrogatori in stato di custodia cautelare, i cinque ragazzi sono stati trasferiti nel carcere di Oukacha, mentre Laila è tornata momentaneamente a casa. Tutti e sei gli attivisti, infatti, sono stati accusati di "partecipazione a manifestazione non autorizzata", "oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale".

Il movimento, sceso in strada in quell'occasione contro l'aumento dei prezzi di alcuni generi di prima necessità e per la liberazione dei detenuti politici, da un anno e mezzo manifesta con regolarità in tutte le città del paese per chiedere la fine del monopolio reale sulla sfera di potere - politica, economica, religiosa - e riforme sociali volte ad attenuare il divario crescente tra le elite e il resto della popolazione (sebbene la frequenza delle iniziative e l'adesione popolare siano in calo negli ultimi mesi).


Un processo politico

Durante le udienze (31 agosto, 7-10 settembre), i testimoni - piccoli commercianti del quartiere - convocati dall'accusa per avallare la tesi della "pericolosità e dell'aggressività dei manifestanti" si sono tutti rifiutati di comparire in aula. La sola prova in mano all'avvocato della polizia - costituitasi parte civile in un processo dal sapore kafkiano - sono le confessioni degli imputati ottenute durante la custodia cautelare in commissariato, mentre i video del corteo apportati dalla difesa non sono stati presi in considerazione.

Ma le confessioni, hanno ribattuto i sei attivisti in aula, sono state estorte sotto tortura. Samir Bradley ha descritto minuziosamente i particolari dei maltrattamenti ("un manico di scopa infilato nell'ano") ed ha mostrato al giudice la sua maglietta ancora sporca di sangue. "Ho chiesto ad un agente - ha riferito invece Tariq - di poter leggere la deposizione prima di firmarla. Lui mi ha risposto: credi forse di essere in Spagna?".

Per alcuni solo un lontano ricordo degli "anni di piombo" sotto Hassan II, gli abusi delle forze dell'ordine sui fermati o sui detenuti rimangono una pratica ancora attuale nel regno alawita, come ricordano le vicende dei prigionieri islamici dopo gli attentati di Casablanca (2003) o di Ezedine Erroussi, protagonista di uno sciopero della fame durato centotrentacinque giorni, presente in tribunale assieme ai familiari degli imputati.

Nonostante le evidenti violazioni, le lacune e le incongruenze emerse durante il dibattimento, ieri pomeriggio (12 settembre, ndr) tutti i militanti citati in giudizio sono stati riconosciuti colpevoli. Samir, Tariq e Abderrahman sono stati condannati a 10 mesi di detenzione, 8 mesi per Youssef e Nour Essalam, 6 mesi con la condizionale infine per Laila. I sei dovranno inoltre versare un risarcimento di 3 mila dirham a testa (circa 280 euro) alla parte civile.

Al momento della lettura del verdetto, le grida di dolore delle famiglie dei detenuti sono state affiancate dalle voci degli attivisti accorsi in tribunale, che hanno intonato alcuni degli slogan più noti del movimento: ash ash'ab ("viva il popolo") e karama, hurrya, 'adala ijtima'iyya ("dignità, libertà e giustizia sociale").

"Si tratta di un processo politico - ha dichiarato Omar Benjelloun, uno degli avvocati della difesa, all'uscita dall'aula - un provvedimento conforme alla strategia di repressione intrapresa dalle autorità contro il 20 febbraio". Per Youssef Raissouni, uno dei responsabili dell'Associazione marocchina dei diritti umani (AMDH), "il makhzen (l'apparato di potere, nda) sta riprendendo fiato dopo mesi di pressione sociale e politica e dimostra tutta la sua voglia di vendetta nei confronti di chi l'ha contestato. L'obiettivo è terrorizzare i dissidenti, per intimidire i futuri militanti e spingerli a non scendere in strada. E' come se dicesse: prima di manifestare fai bene i tuoi calcoli".


"Ho visto condannare degli innocenti"

"Samir, Tariq, Abderrahman, Youssef, Nour Essalam et Laila sono innocenti. Lo so perché quel giorno io ero con loro. Molti, come me, lo sanno. Tutti sanno che si è trattato di un processo farsa", ha scritto il blogger Larbi El Hilali, poche ore dopo il pronunciamento della sentenza, nel post J'ai vu condamner des innocents. "Nell'aula del tribunale ci sono almeno cinquanta persone che hanno partecipato alla manifestazione, io compreso. Le imputazioni, quindi, riguardano anche me. Perché non sono tra gli accusati?", si domanda Larbi nell'articolo - un resoconto dettagliato della marcia e delle udienze appena concluse - in cui confessa "il sentimento struggente di non poter fare altro che apportare una testimonianza sull'ennesima ingiustizia".

Secondo le stime dell'AMDH, sarebbero oltre settanta i membri del Movimento 20 febbraio detenuti nelle carceri del regno. Non ci sono cifre ufficiali in proposito, però, dal momento che gli attivisti continuano ad essere accusati e condannati per reati di diritto comune e, almeno formalmente, non in virtù della loro militanza politica. Come nel caso del blogger-dissidente Said Ziani, a Tangeri, costretto a tre mesi di reclusione per "vendita di sigarette al dettaglio", una delle attività più diffuse su tutto il territorio nazionale.

Per Hicham, altro membro del movimento, la gravità del problema non si riassume con il solo calcolo dei militanti attualmente in prigione. "La questione non è sapere quanti siano al momento, ma quante persone sono state arrestate, anche solo per poche ore, maltrattate, trattenute illegalmente nei commissariati e sbattute in cella dopo il 20 febbraio 2011 (il giorno che ha segnato la nascita del movimento, nda)".

Dello stesso avviso è Youssef Raissouni che si unisce ad Hicham nel denunciare la "repressione sistematica, sotto forme diverse" che ha accompagnato fin dall'inizio l'epifania dei nuovi contestatori. Per l'attivista dei diritti umani il bilancio è senza appello e contraddistingue un ritorno in auge della detenzione politica nel regno alawita; propositi che smentiscono radicalmente le dichiarazioni rilasciate di recente, al canale libanese al-Mayadine, dal ministro della Giustizia Mustapha Ramid, secondo cui "non esistono prigionieri politici in Marocco".

Samir e compagni, intanto, hanno ripreso posto nelle rispettive celle del carcere di Oukacha. Lo stesso penitenziario in cui si trovano rinchiusi molti altri protagonisti della contestazione a Casablanca. Tra loro ci sono Younes Belkhdim - il "poeta del popolo", una delle voci più conosciute del movimento - che dal 5 settembre scorso è in sciopero della fame, e il rapper Mouad L'haqed - altro simbolo della "primavera marocchina" - alla seconda detenzione in pochi mesi a causa dei suoi testi impegnati, intonati costantemente durante i cortei.

(Articolo pubblicato in Osservatorio Iraq Medioriente e Nordafrica)

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