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mercoledì 12 settembre 2012

Ramadan e libertà di coscienza in Marocco

Da qualche anno a questa parte l'arrivo del mese sacro accende i riflettori sulle incongruenze di una legislazione che difende i diritti e le libertà del cittadino (in base alla costituzione e ai trattati internazionali sottoscritti) ma condanna al carcere chi trasgredisce pubblicamente il digiuno (in base al codice penale). Una minoranza combattiva, sul web ma non solo, sta cercando di far sentire la propria voce.

(Credit photo AFP)

L'interpretazione dei testi religiosi considera il digiuno durante il ramadan (appena trascorso) come uno dei cinque pilastri dell'islam, ma il Corano non prevede esplicite pene o sanzioni contro chi contravviene a questo precetto (Sura n. 2). "Era talmente inimmaginabile non osservare il digiuno che il Profeta non ha indicato punizioni", spiega Malek Chebel, tra i maggiori studiosi contemporanei di antropologia islamica. Tuttavia alle omissioni del Libro hanno rimediato gli uomini, attraverso i dettami legislativi, la prassi giudiziaria e la (re)pressione sociale.

Per esempio in Marocco. Nel regno alawita "l'islam è la religione di Stato", il quale - secondo l'art. 3 della costituzione - "garantisce a tutti il libero esercizio di culto". Un'affermazione di certo valida per gli stranieri di fede cristiana e per la comunità ebraica presente da secoli sul territorio (ridotta a poche migliaia di unità dopo l'esodo verso Israele durante gli anni cinquanta e sessanta), ma non per i marocchini stessi, la cui libertà di coscienza rimane un tabù tanto sul piano sociale che su quello legale.

Il codice penale infatti punisce il proselitismo (art. 220), termine dietro al quale spesso si nasconde la repressione e l'esclusione imposta ai marocchini convertiti, e  condanna al carcere (da uno a sei mesi) e ad un'ammenda pecuniaria "ogni persona che, conosciuta per la sua appartenenza alla religione musulmana, rompe il digiuno in pubblico durante il periodo di ramadan senza alcun motivo ammesso dalla stessa religione" (art. 222).


Gli "eretici" del ramadan

In virtù dell'art. 222, ogni anno decine di contravvenenti al dogma religioso vengono condotte nei tribunali del regno e, per la maggior parte, condannate silenziosamente alla prigione. L'ultimo caso registrato, riportato in una breve nota dall'AFP, risale a fine agosto, quando un giovane abitante di Rabat (di cui non sono state diffuse le generalità) si è visto infliggere tre mesi di reclusione dopo essere stato sorpreso a mangiare in pubblico durante le ore di digiuno. Inutile, agli occhi del giudice, la difesa intentata dall'uomo che ha affermato di aver agito "per convinzione" e in conformità con il diritto alla libertà individuale "garantito" dalla carta costituzionale (preambolo e artt. 19, 25).

Per denunciare questa anomalia giuridica e le ingerenze del codice nella vita privata dei cittadini, alcuni attivisti hanno creato - nel luglio scorso - un gruppo facebook sotto lo slogan Masayminch ("Non digiuneremo" in arabo marocchino). L'obiettivo del gruppo, ricorda uno dei suoi promotori Abdelhak Amrani, è quello di collegare il dibattito sulla libertà di coscienza lanciato dal MALI (Mouvement alternatif pour les libertés individuelles) nel 2009 ai recenti sollevamenti democratici che hanno scosso l'intera regione mediorientale.

"Non è lo scontro frontale tra laici e conservatori che ci interessa in questo momento. La priorità è l'instaurazione di un regime democratico che garantisca ai cittadini il pieno esercizio dei loro diritti, compreso il diritto di credere o non credere, di rispettare il digiuno oppure no, come previsto dai principi universali enunciati nella Dichiarazione dei diritti umani e nella Convenzione ONU sui diritti civili e politici, ratificata senza riserve dal Marocco trent'anni fa e in aperta contraddizione con la legislazione nazionale".

"L'art. 222 - aggiunge Nizar, un altro membro del gruppo - vieta la rottura del digiuno in pubblico ad ogni persona conosciuta per la sua appartenenza alla fede musulmana. Il problema è che ogni marocchino, ad eccezione dei pochi ebrei rimasti, è considerato musulmano per nascita. Perché? Io non sono credente e rivendico il diritto di non osservare i precetti religiosi in cui non mi riconosco. E poi, cosa significa rompere il digiuno in pubblico? Se mangio vicino alla finestra aperta sono in pubblico o in privato?".

Secondo il professor Abdelwahab Meddeb (Università Paris X - Nanterre) il digiuno durante il ramadan (come anche la diffusione del velo) sarebbe divenuto un "fenomeno sociale" più che un esercizio spirituale, tanto nei paesi del Nord Africa quanto nelle comunità di immigrati in Europa. La manifestazione di un bisogno di appartenenza alla collettività, un bisogno di identificazione, più che il frutto di una convinzione interiore.

Dello stesso avviso sono i membri di Masayminch, che incalzano: "ciascuno deve avere la libertà di osservare i dettami della propria religione. Coloro che vogliono praticare il digiuno devono poterlo fare senza impedimenti, ovunque si trovino. Allo stesso modo ci opponiamo alla stigmatizzazione mediatica e politica, oltre all'accanimento legale, di chi non è mosso dalle stesse convinzioni. Tra di noi ci sono musulmani praticanti che sostengono il diritto di chi non rispetta il digiuno ad esistere liberamente, senza la necessità di doversi nascondere".

Stando ad uno studio condotto nel 2006 sulla percezione religiosa della popolazione nel regno alawita, il 60% dei marocchini considera come non-musulmano colui che non fa il ramadan, mentre il 44,1% ritiene che chi rompe il digiuno in pieno giorno debba essere punito fino al recupero "della retta via". Circa l'82% degli intervistati, inoltre, sono contrari all'apertura dei bar e dei ristoranti prima del tramonto durante il mese sacro.

Attivisti e studiosi fanno notare come il ramadan rivesta ormai un ruolo di primo piano nella fenomenologia religiosa rispetto agli altri pilastri della dottrina islamica. "La prescrizione della salat non è oggetto, almeno fino ad ora, della stessa attenzione e dello stesso controllo sociale, senza contare che il codice penale non prevede sanzioni, fortunatamente, per chi contravviene all'obbligo della preghiera quotidiana", affermano i promotori del collettivo.

Una spiegazione può essere fornita prendendo in esame la dimensione politica assunta dal ramadan in un Marocco ancora fortemente impregnato di tradizionalismo. La monarchia, infatti, è il vertice religioso del paese (oltre che politico e militare) e il sovrano si fregia dei titoli di Amir al-mu'minin (Capo dei credenti) e sharif (discendente del Profeta), status su cui il trono poggia gran parte della sua legittimità. Il mese sacro rappresenta quindi un'occasione per riaffermare primato e visibilità - ad esempio attraverso le conferenze sull'islam patrocinate dal monarca e trasmesse dalle reti nazionali - e in cui ostentare la pietas reale con la moltiplicazione di offerte e donazioni a fondazioni caritatevoli e confraternite religiose. Stessa considerazione per le organizzazioni islamiche attive sul territorio (partiti, associazioni, gruppi informali), che in questo periodo moltiplicano le iniziative assistenziali in favore delle fasce più disagiate e la presenza nei quartieri popolari, consolidando così il radicamento nella società.

Non è un caso, del resto, che i numerosi detrattori del gruppo Masayminch - e prima ancora del MALI - abbiano fatto ricorso ad argomenti quali la "destabilizzazione della nazione" e "l'attacco ai suoi fondamenti e alle sue istituzioni" per scagliarsi contro gli "eretici" del ramadan. Per il predicatore Abdelbari Zemzmi, ex deputato del Partito della rinascita e della virtù (di ispirazione religiosa), "i capisaldi del regno sono Dio, la patria e il re (art. 4 della costituzione, nda) ed è per questo che bisogna rispettare la religione musulmana. Fare riferimento ad una libertà individuale che non rispetti l'islam aprirebbe la porta al non-rispetto della patria e dell'istituzione monarchica".


"Cento poliziotti contro dieci panini"

La comparsa del gruppo Masayminch, al di là di una debole presenza mediatica soprattutto sul web, non è riuscita ad innescare un vero dibattito pubblico sulla libertà di coscienza e sulle incongruenze dell'impianto legislativo come era nelle intenzioni dei suoi fondatori e come erano riusciti a fare, qualche anno prima, gli attivisti del Mouvement alternatif pour les libertés individuelles (l'acronimo MALI, in arabo marocchino, significa "che cos'hai da rimproverarmi?") con la proposta di una merenda in pieno ramadan.

Nell'agosto del 2009 Zineb El Rhazoui (al tempo giornalista a Le Journal Hebdomadaire) e Ibtissam Lachgar (psicologa) avevano fondato il movimento - la cui pagina facebook conta oggi oltre tremila aderenti - "vista la necessità di difendere i diritti e libertà di cui i marocchini dovrebbero godere e che invece sono costantemente minacciati da abusi di potere, inquisizioni socio-religiose e testi di legge oscurantisti", si legge nel manifesto redatto per l'occasione dalle giovani militanti.

"Eravamo nel mese di digiuno - ricorda Zineb - e così abbiamo deciso di cominciare proprio da lì, dalla denuncia dell'articolo 222, con un'azione dimostrativa che ha fatto molto parlare di sé: un pic-nic all'aria aperta prima del tramonto".

Un pic-nic che in realtà non si è mai tenuto, poiché il giorno fissato per l'iniziativa alla stazione di Mohammedia - il luogo di incontro (città sulla costa atlantica tra Rabat e Casablanca) indicato in rete - un folto schieramento di agenti ha impedito ai sei attivisti che avevano risposto all'appello di estrarre i panini dagli zaini, sotto lo sguardo della stampa nazionale e straniera accorsa sul posto.

"Cento poliziotti contro dieci sandwich" titolava l'indomani uno dei principali quotidiani spagnoli. Intanto la maggioranza dei media locali dava ampio spazio agli attacchi delle istituzioni contro gli "agitatori irresponsabili". Mentre i sei membri del MALI trascorrevano una settimana di calvario - tra interrogatori, insulti, minacce e percosse - al commissariato di Mohammedia, il consiglio degli 'ulama' della città invitava le autorità ad infliggere "una sanzione esemplare agli autori dell'atto odioso" e il consigliere del sovrano Moatassim riuniva i principali leader di partito per chiedere una ferma condanna "dell'azione sconsiderata" da parte di tutto il panorama politico.

L'evento - o meglio il non-evento, dal momento che nessun pasto era stato consumato - è rimasto per settimane al centro dei riflettori e, nonostante i settori più conservatori abbiano cercato di alimentare il clima di linciaggio, molte voci all'interno della società civile (in primis l'Associazione marocchina dei diritti umani) si sono schierate a difesa del movimento e della sua iniziativa, grazie anche al sostegno della stampa indipendente (Le Journal Hebdomadaire, al-Jarida al-Oula, Tel Quel). I sei attivisti invece, non avendo commesso alcun reato, sono poi stati rilasciati senza conseguenze sul piano giudiziario.

Aziz El Yaakoubi, giornalista, uno dei sei membri del MALI presenti quel 13 settembre alla stazione, ricorda come durante gli interrogatori le domande degli inquirenti fossero principalmente rivolte a svelare i "veri" istigatori dell'azione. "Bisognava assolutamente riconoscere che dietro al nostro movimento ci fosse la lunga mano di qualche paese straniero, meglio se nemico della nazione. Il regime rifiuta di accettare i cambiamenti profondi che maturano al suo interno e ne minacciano la stabilità, come accaduto più di recente con il '20 febbraio'. Cambiamenti che sono tuttavia inevitabili per un paese aperto sul resto del mondo e che in più si fa vanto dell'accordo di partenariato avanzato con l'Unione europea".

Per giustificare il loro accanimento contro i "non-jeuneurs" le autorità e i partiti politici avevano più volte fatto appello al rispetto dei principi condivisi dalla schiacciante maggioranza della popolazione marocchina. "Una maggioranza 'schiacciata' piuttosto - ribatteva El Yaakoubi dalle colonne del Journal Hebdomadaire - che ha lasciato per troppo tempo, sul terreno politico come su quello religioso, i suoi presunti responsabili riflettere al suo posto". Le sollevazioni popolari che hanno scosso il Marocco nel 2011, nonostante i magri successi ottenuti, sembrano avergli dato ragione.

Tra gli oppositori più zelanti all'iniziativa di Mohammedia figurava poi il Partito della giustizia e dello sviluppo (PJD), formazione islamica attualmente al governo, che aveva espresso preoccupazione per la sicurezza spirituale dei cittadini. Secondo il deputato Mustapha Ramid, oggi ministro della Giustizia, "il legislatore non può trascurare il sentimento del 99,9% dei marocchini in favore dello 0,01% che desidera poter mangiare apertamente. Del resto nessuno gli impedisce di farlo in segreto".

Propositi respinti dai membri del MALI che con la loro provocazione, precisa Zineb El Rhazoui, hanno voluto "mettere a nudo proprio l'ipocrisia di una società che continua a nascondersi dietro ad un miope comunitarismo, facendo finta di ignorare che al suo interno esistono realtà differenti".

Per di più, prosegue l'attivista, "affermare che sia sufficiente qualche panino mangiato all'aria aperta per intaccare la convinzione dei credenti, significa ammettere implicitamente che la maggior parte della popolazione segue il dogma religioso solo per imposizione e non per una sincera adesione spirituale".

Il dibattito aperto dall'affaire MALI, violento nei toni - soprattutto nelle prime fasi - ma proficuo nella sua essenza, si è assopito lentamente con il passare del tempo. Da allora nel paese sono trascorsi mesi di "primavere", manifestazioni e rivendicazioni democratiche. E' stata modificata la costituzione e si sono tenute nuove elezioni, ma l'affermazione della libertà di coscienza continua a non figurare tra le priorità dell'esecutivo, così come la risoluzione delle contraddizioni giuridiche in materia.

Tuttavia secondo l'avvocato Abderrahim Jamai, da sempre in prima linea nella difesa dei diritti umani, il nodo della questione sollevata dal movimento sarebbe ben più profondo della sola abrogazione dell'articolo 222. "La presenza di una religione di Stato e ancor più la commistione tra potere temporale e spirituale incarnata dal monarca impediscono alla base il diritto all'autodeterminazione dei cittadini. Siamo quindi di fronte ad una realtà che già in sé costituisce una violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione".

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