Da
qualche anno a questa parte l'arrivo del mese sacro accende i riflettori sulle
incongruenze di una legislazione che difende i diritti e le libertà del
cittadino (in base alla costituzione e ai trattati internazionali sottoscritti)
ma condanna al carcere chi trasgredisce pubblicamente il digiuno (in base al
codice penale). Una minoranza combattiva, sul web ma non solo, sta cercando di
far sentire la propria voce.
(Credit photo AFP) |
L'interpretazione
dei testi religiosi considera il digiuno durante il ramadan (appena trascorso) come
uno dei cinque pilastri dell'islam, ma il Corano non prevede esplicite pene o
sanzioni contro chi contravviene a questo precetto (Sura n. 2). "Era
talmente inimmaginabile non osservare il digiuno che il Profeta non ha indicato
punizioni", spiega Malek Chebel, tra i maggiori studiosi contemporanei di
antropologia islamica. Tuttavia alle omissioni del Libro hanno rimediato gli
uomini, attraverso i dettami legislativi, la prassi giudiziaria e la (re)pressione
sociale.
Per
esempio in Marocco. Nel regno alawita "l'islam è la religione di Stato",
il quale - secondo l'art. 3 della costituzione - "garantisce a tutti il
libero esercizio di culto". Un'affermazione di certo valida per gli stranieri
di fede cristiana e per la comunità ebraica presente da secoli sul territorio
(ridotta a poche migliaia di unità dopo l'esodo verso Israele durante gli anni cinquanta
e sessanta), ma non per i marocchini stessi, la cui libertà di coscienza rimane
un tabù tanto sul piano sociale che su quello legale.
Il
codice penale infatti punisce il proselitismo (art. 220), termine dietro al
quale spesso si nasconde la repressione e l'esclusione imposta ai marocchini convertiti, e condanna al carcere
(da uno a sei mesi) e ad un'ammenda pecuniaria "ogni persona che,
conosciuta per la sua appartenenza alla religione musulmana, rompe il digiuno
in pubblico durante il periodo di ramadan senza alcun motivo ammesso dalla
stessa religione" (art. 222).
Gli "eretici" del ramadan
In virtù dell'art. 222,
ogni anno decine di contravvenenti al dogma religioso vengono condotte nei
tribunali del regno e, per la maggior parte, condannate silenziosamente alla
prigione. L'ultimo caso registrato, riportato in una breve nota dall'AFP,
risale a fine agosto, quando un giovane abitante di Rabat (di cui non sono
state diffuse le generalità) si è visto infliggere tre mesi di reclusione dopo
essere stato sorpreso a mangiare in pubblico durante le ore di digiuno. Inutile,
agli occhi del giudice, la difesa intentata dall'uomo che ha affermato di aver
agito "per convinzione" e in conformità con il diritto alla libertà
individuale "garantito" dalla carta costituzionale (preambolo e artt.
19, 25).
Per
denunciare questa anomalia giuridica e le ingerenze del codice nella vita
privata dei cittadini, alcuni attivisti hanno creato - nel luglio scorso - un
gruppo facebook sotto lo slogan Masayminch
("Non digiuneremo" in arabo marocchino). L'obiettivo del gruppo,
ricorda uno dei suoi promotori Abdelhak Amrani, è quello di collegare il
dibattito sulla libertà di coscienza lanciato dal MALI (Mouvement alternatif pour les libertés individuelles) nel 2009 ai recenti sollevamenti democratici
che hanno scosso l'intera regione mediorientale.
"Non
è lo scontro frontale tra laici e conservatori che ci interessa in questo
momento. La priorità è l'instaurazione di un regime democratico che garantisca
ai cittadini il pieno esercizio dei loro diritti, compreso il diritto di
credere o non credere, di rispettare il digiuno oppure no, come previsto dai
principi universali enunciati nella Dichiarazione dei diritti umani e nella
Convenzione ONU sui diritti civili e politici, ratificata senza riserve dal
Marocco trent'anni fa e in aperta contraddizione con la legislazione nazionale".
"L'art.
222 - aggiunge Nizar, un altro membro del gruppo - vieta la rottura del digiuno
in pubblico ad ogni persona conosciuta per la sua appartenenza alla fede musulmana.
Il problema è che ogni marocchino, ad eccezione dei pochi ebrei rimasti, è
considerato musulmano per nascita. Perché? Io non sono credente e rivendico il
diritto di non osservare i precetti religiosi in cui non mi riconosco. E poi,
cosa significa rompere il digiuno in pubblico? Se mangio vicino alla finestra
aperta sono in pubblico o in privato?".
Secondo
il professor Abdelwahab Meddeb (Università Paris X - Nanterre) il digiuno
durante il ramadan (come anche la diffusione del velo) sarebbe divenuto un "fenomeno
sociale" più che un esercizio spirituale, tanto nei paesi del Nord Africa
quanto nelle comunità di immigrati in Europa. La manifestazione di un bisogno
di appartenenza alla collettività, un bisogno di identificazione, più che il
frutto di una convinzione interiore.
Dello
stesso avviso sono i membri di Masayminch,
che incalzano: "ciascuno deve avere la libertà di osservare i dettami
della propria religione. Coloro che vogliono praticare il digiuno devono
poterlo fare senza impedimenti, ovunque si trovino. Allo stesso modo ci
opponiamo alla stigmatizzazione mediatica e politica, oltre all'accanimento
legale, di chi non è mosso dalle stesse convinzioni. Tra di noi ci sono
musulmani praticanti che sostengono il diritto di chi non rispetta il digiuno
ad esistere liberamente, senza la necessità di doversi nascondere".
Stando
ad uno studio condotto nel 2006 sulla percezione religiosa della popolazione
nel regno alawita, il 60% dei marocchini considera come non-musulmano colui che
non fa il ramadan, mentre il 44,1% ritiene che chi rompe il digiuno in pieno
giorno debba essere punito fino al recupero "della retta via". Circa
l'82% degli intervistati, inoltre, sono contrari all'apertura dei bar e dei
ristoranti prima del tramonto durante il mese sacro.
Attivisti
e studiosi fanno notare come il ramadan rivesta ormai un ruolo di primo piano
nella fenomenologia religiosa rispetto agli altri pilastri della dottrina
islamica. "La prescrizione della salat
non è oggetto, almeno fino ad ora, della stessa attenzione e dello stesso
controllo sociale, senza contare che il codice penale non prevede sanzioni,
fortunatamente, per chi contravviene all'obbligo della preghiera
quotidiana", affermano i promotori del collettivo.
Una
spiegazione può essere fornita prendendo in esame la dimensione politica assunta
dal ramadan in un Marocco ancora fortemente impregnato di tradizionalismo. La
monarchia, infatti, è il vertice religioso del paese (oltre che politico e
militare) e il sovrano si fregia dei titoli di Amir al-mu'minin (Capo dei credenti) e sharif (discendente del Profeta), status su cui il trono poggia gran
parte della sua legittimità. Il mese sacro rappresenta quindi un'occasione per
riaffermare primato e visibilità - ad esempio attraverso le conferenze
sull'islam patrocinate dal monarca e trasmesse dalle reti nazionali - e in cui
ostentare la pietas reale con la
moltiplicazione di offerte e donazioni a fondazioni caritatevoli e
confraternite religiose. Stessa considerazione per le organizzazioni islamiche
attive sul territorio (partiti, associazioni, gruppi informali), che in questo
periodo moltiplicano le iniziative assistenziali in favore delle fasce più
disagiate e la presenza nei quartieri popolari, consolidando così il
radicamento nella società.
Non
è un caso, del resto, che i numerosi detrattori del gruppo Masayminch - e prima ancora del MALI - abbiano fatto ricorso ad
argomenti quali la "destabilizzazione della nazione" e
"l'attacco ai suoi fondamenti e alle sue istituzioni" per scagliarsi
contro gli "eretici" del ramadan. Per il predicatore Abdelbari Zemzmi,
ex deputato del Partito
della rinascita e della virtù (di ispirazione religiosa), "i capisaldi
del regno sono Dio, la patria e il re (art. 4 della costituzione, nda) ed è per questo che bisogna
rispettare la religione musulmana. Fare riferimento ad una libertà individuale
che non rispetti l'islam aprirebbe la porta al non-rispetto della patria e
dell'istituzione monarchica".
"Cento poliziotti
contro dieci panini"
La
comparsa del gruppo Masayminch, al di
là di una debole presenza mediatica soprattutto sul web, non è riuscita ad
innescare un vero dibattito pubblico sulla libertà di coscienza e sulle
incongruenze dell'impianto legislativo come era nelle intenzioni dei suoi
fondatori e come erano riusciti a fare, qualche anno prima, gli attivisti del
Mouvement alternatif pour les libertés individuelles (l'acronimo MALI, in arabo
marocchino, significa "che cos'hai da rimproverarmi?") con la proposta
di una merenda in pieno ramadan.
Nell'agosto
del 2009 Zineb El Rhazoui (al tempo giornalista a Le Journal Hebdomadaire) e Ibtissam Lachgar (psicologa) avevano
fondato il movimento - la cui pagina facebook conta oggi oltre tremila aderenti
- "vista la necessità di difendere i diritti e libertà di cui i marocchini
dovrebbero godere e che invece sono costantemente minacciati da abusi di
potere, inquisizioni socio-religiose e testi di legge oscurantisti", si
legge nel manifesto redatto per l'occasione dalle giovani militanti.
"Eravamo
nel mese di digiuno - ricorda Zineb - e così abbiamo deciso di cominciare
proprio da lì, dalla denuncia dell'articolo 222, con un'azione dimostrativa che
ha fatto molto parlare di sé: un pic-nic all'aria aperta prima del tramonto".
Un
pic-nic che in realtà non si è mai tenuto, poiché il giorno fissato per
l'iniziativa alla stazione di Mohammedia - il luogo di incontro (città sulla
costa atlantica tra Rabat e Casablanca) indicato in rete - un folto
schieramento di agenti ha impedito ai sei attivisti che avevano risposto
all'appello di estrarre i panini dagli zaini, sotto lo sguardo della stampa
nazionale e straniera accorsa sul posto.
"Cento
poliziotti contro dieci sandwich" titolava l'indomani uno dei principali
quotidiani spagnoli. Intanto la maggioranza dei media locali dava ampio spazio
agli attacchi delle istituzioni contro gli "agitatori
irresponsabili". Mentre i sei membri del MALI trascorrevano una settimana
di calvario - tra interrogatori, insulti, minacce e percosse - al commissariato
di Mohammedia, il consiglio degli 'ulama'
della città invitava le autorità ad infliggere "una sanzione esemplare
agli autori dell'atto odioso" e il consigliere del sovrano Moatassim
riuniva i principali leader di partito per chiedere una ferma condanna
"dell'azione sconsiderata" da parte di tutto il panorama politico.
L'evento
- o meglio il non-evento, dal momento che nessun pasto era stato consumato - è
rimasto per settimane al centro dei riflettori e, nonostante i settori più
conservatori abbiano cercato di alimentare il clima di linciaggio, molte voci
all'interno della società civile (in primis l'Associazione marocchina dei
diritti umani) si sono schierate a difesa del movimento e della sua iniziativa,
grazie anche al sostegno della stampa indipendente (Le Journal Hebdomadaire, al-Jarida al-Oula, Tel Quel). I sei
attivisti invece, non avendo commesso alcun reato, sono poi stati rilasciati
senza conseguenze sul piano giudiziario.
Aziz
El Yaakoubi, giornalista, uno dei sei membri del MALI presenti quel 13
settembre alla stazione, ricorda come durante gli interrogatori le domande degli
inquirenti fossero principalmente rivolte a svelare i "veri" istigatori
dell'azione. "Bisognava assolutamente riconoscere che dietro al nostro
movimento ci fosse la lunga mano di qualche paese straniero, meglio se nemico
della nazione. Il regime rifiuta di accettare i cambiamenti profondi che maturano
al suo interno e ne minacciano la stabilità, come accaduto più di recente con
il '20 febbraio'. Cambiamenti che sono tuttavia inevitabili per un paese aperto
sul resto del mondo e che in più si fa vanto dell'accordo di partenariato
avanzato con l'Unione europea".
Per
giustificare il loro accanimento contro i "non-jeuneurs"
le autorità e i partiti politici avevano più volte fatto appello al rispetto
dei principi condivisi dalla schiacciante maggioranza della popolazione
marocchina. "Una maggioranza 'schiacciata' piuttosto - ribatteva El
Yaakoubi dalle colonne del Journal
Hebdomadaire - che ha lasciato per troppo tempo, sul terreno politico come
su quello religioso, i suoi presunti responsabili riflettere al suo
posto". Le sollevazioni popolari che hanno scosso il Marocco nel 2011,
nonostante i magri successi ottenuti, sembrano avergli dato ragione.
Tra
gli oppositori più zelanti all'iniziativa di Mohammedia figurava poi il Partito
della giustizia e dello sviluppo (PJD),
formazione islamica attualmente al governo, che aveva espresso preoccupazione
per la sicurezza spirituale dei cittadini. Secondo il deputato Mustapha Ramid,
oggi ministro della Giustizia, "il legislatore non può trascurare il
sentimento del 99,9% dei marocchini in favore dello 0,01% che desidera poter
mangiare apertamente. Del resto nessuno gli impedisce di farlo in segreto".
Propositi
respinti dai membri del MALI che con la loro provocazione, precisa Zineb El
Rhazoui, hanno voluto "mettere a nudo proprio l'ipocrisia di una società che
continua a nascondersi dietro ad un miope comunitarismo, facendo finta di
ignorare che al suo interno esistono realtà differenti".
Per
di più, prosegue l'attivista, "affermare che sia sufficiente qualche
panino mangiato all'aria aperta per intaccare la convinzione dei credenti,
significa ammettere implicitamente che la maggior parte della popolazione segue
il dogma religioso solo per imposizione e non per una sincera adesione
spirituale".
Il
dibattito aperto dall'affaire MALI, violento nei toni - soprattutto
nelle prime fasi - ma proficuo nella sua essenza, si è assopito lentamente con
il passare del tempo. Da allora nel paese sono trascorsi mesi di
"primavere", manifestazioni e rivendicazioni democratiche. E' stata
modificata la costituzione e si sono tenute nuove elezioni, ma l'affermazione
della libertà di coscienza continua a non figurare tra le priorità
dell'esecutivo, così come la risoluzione delle contraddizioni giuridiche in
materia.
Tuttavia
secondo l'avvocato Abderrahim Jamai, da sempre in prima linea nella difesa dei
diritti umani, il nodo della questione sollevata dal movimento sarebbe ben più
profondo della sola abrogazione dell'articolo 222. "La presenza di una
religione di Stato e ancor più la commistione tra potere temporale e spirituale
incarnata dal monarca impediscono alla base il diritto all'autodeterminazione
dei cittadini. Siamo quindi di fronte ad una realtà che già in sé costituisce
una violazione dei diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione".
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