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giovedì 16 giugno 2011

Rida, “salafita” marocchino, racconta e si racconta…

Rida Benotmane, ex detenuto islamico trentaquattrenne, è uscito di prigione lo scorso gennaio, dopo aver scontato una condanna a quattro anni. Rida era per caso un pericoloso terrorista pronto a commettere attentati e ad uccidere civili innocenti? No. Il suo crimine, secondo la polizia politica, era quello di “diffondere informazioni su internet atte a compromettere l’immagine del regime marocchino”. La sua colpa, l’aver criticato la politica anti-terrorista del regno alawita su alcuni forum di discussione in rete.



Quello di Rida non è un caso isolato, in un paese che dall’11 settembre 2001 (e in particolar modo dopo gli attentati di Casablanca del 16 maggio 2003) ha fatto della “caccia all’islamista” il perno della sua strategia di sicurezza. Sono oltre duemila i detenuti islamici condannati in Marocco dopo l’approvazione della legge anti-terrorismo. Ma chi sono veramente queste persone? Fondamentalisti intransigenti, potenziali jihaddisti pronti a combattere la loro “guerra santa”? Bersagli di una strategia mirata ad eradicare il dissenso religioso nel regno? Oppure vittime delle violazioni e degli abusi operati dai servizi segreti e dalla polizia politica marocchina, desiderosa di fomentare una “minaccia terrorista” nel paese?
Il dossier “detenuti islamici” o “salfiyya jihadiyya”, come è stato etichettato dal governo di Rabat, è tornato in primo piano nelle ultime settimane. Dopo il provvedimento di grazia concesso da Mohammed VI lo scorso 14 aprile, infatti, le provocazioni all’interno delle prigioni – dove restano rinchiusi ancora circa ottocento “salafiti” – sono riprese. La punta dell’iceberg è stata la rivolta scoppiata nel carcere di Salé il 16 e 17 maggio. In quell’occasione i media nazionali avevano parlato di “ammutinamento e violenze” operate dagli stessi detenuti all’indirizzo delle guardie carcerarie. Rida Benotmane, ormai portavoce della Coordination des Anciens Detenus Islamistes (CADI), racconta invece una storia diversa, una storia fatta di accordi tra i prigionieri islamici, la Delegazione delle carceri e il Ministero della Giustizia. Accordi che “qualcuno in seno all’amministrazione penitenziaria o al governo stesso ha cercato in ogni modo di far saltare”. E così è stato. Dopo la repressione del 16-17 maggio alla prigione Zaki, “dove per poco si è sfiorato il massacro”, si sono perse le tracce dei detenuti “ribelli”. C’è chi parla di trasferimento, chi di isolamento, chi di torture e ritorsione da parte dei carcerieri. Le informazioni sulla sorte toccata a questi prigionieri sono negate perfino alle ong per i diritti umani che presentano regolare richiesta al Ministero. Le famiglie, che si sono viste vietare le visite per 40 giorni, dal 6 giugno scorso sono entrate in sciopero della fame, per chiedere l’applicazione dei diritti detentivi sui loro cari e per chiedere il rispetto degli “accordi del 25 marzo”. Tra loro c’è anche una giovane ragazza italiana, Jessica Zanchi, moglie di Youness Zarli, scomparso dalla sua abitazione di Casablanca nell’aprile 2010 e riapparso “misteriosamente” nelle celle del regno con un’accusa di affiliazione terrorista.
Nel corso dell’intervista rilasciata a (r)umori dal Mediterraneo, Rida Benotmane ripercorre la sua vicenda personale, ritorna sul sequestro e le violenze che hanno preceduto la sua condanna in tribunale. Descrive i vecchi metodi che sopravvivono ancora oggi nel nuovo regno di Mohammed VI. Parla poi degli “accordi del 25 marzo”, ossia dell’illusione data dal regime – e ben presto smentita – di voler giungere ad una soluzione equa e definitiva del “dossier detenuti islamici”. Infine Rida, licenziato durante i primi mesi di reclusione per “abbandono del posto di lavoro”, si sofferma sul legame che unisce la “sfera salafita marocchina” di cui ormai fa parte alle iniziative proposte dal Movimento 20 febbraio. “Abbiamo deciso di appoggiare il movimento poiché nei discorsi di questi giovani viene ribadita la necessità di giungere ad una vera sovranità popolare, che lasci a tutte le componenti della società marocchina la possibilità di esprimersi. A me è sembrata la sintesi perfetta e l’obiettivo giusto. Una buona strada per contrastare il regime attuale, lontano anni luce dal rispetto dei diritti e delle libertà. (…)Tutto quello che chiediamo è di poter vivere in uno Stato che non ci perseguiti. Che non ci metta in prigione per le nostre idee. Ma che rispetti la nostra particolarità e ci accetti al suo interno”.

Rida Benotmane manifesta a Rabat, l'8 maggio 2011, contro l'attentato al Café Argana

Intervista a Rida Benotmane (Rabat, 28 maggio 2011)

Come è iniziata la storia dell’ex detenuto islamico Rida Benotmane?
Tutto è cominciato la notte del 19 gennaio 2007. Fino a quel momento ero un funzionario di un ente pubblico (Office du developpement de la cooperation), dove lavoravo da quattro anni. Ero allo stesso tempo un attivista, privo di alcuna affiliazione, anche se partecipavo alle manifestazioni e alle iniziative proposte dall’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani). L’interesse della polizia e dei servizi marocchini nei miei confronti è iniziato il giorno in cui Rumsfeld è venuto in visita a Rabat (2007), accompagnato da una delegazione israeliana. In quell’occasione, vista la situazione in cui si trovavano e si trovano tuttora i nostri fratelli palestinesi, il popolo era sceso in strada per protestare contro l’accoglienza riservata a questo personaggio.
Al tempo avevo una barba folta e lunga. Le autorità mi hanno etichettato subito come estremista islamico. A volte scrivevo in alcuni forum di discussione, esprimendo il mio parere sulla politica adottata dal Marocco nella lotta contro il terrorismo, il mio disappunto sull’utilizzo del centro di detenzione segreta di Temara, la mia avversità alla politica estera promossa dal governo, totalmente allineata alla posizione americana sulla strategia di intervento nell’area arabo-islamica. Controllavano i miei accessi internet: per loro ero un pericoloso islamista e, in virtù della strategia di prevenzione al terrorismo, sono stato arrestato e condannato.

In che condizioni si è svolto il suo “arresto”, se possiamo definirlo così?
Erano le dieci di sera, mi ricordo bene, quando una ventina di persone hanno fatto irruzione nel mio appartamento (situato guarda caso a Temara, poco distante dalla sede della DST). Mi hanno subito ammanettato e bendato, prima di caricarmi su una macchina. Alcuni di questi agenti sono rimasti nell’abitazione e l’hanno perquisita tutta, sequestrando poi computer, telefono, libri ed altri effetti personali. Mia moglie era in cinta di sette mesi, quella sera ha avuto una crisi violenta ed ha rischiato di perdere il bambino.
Una volta in macchina, il viaggio è durato appena una decina di minuti. Sentivo il rumore degli alberi che sbattevano sul veicolo, stavamo passando in mezzo ad una foresta. Capivo che mi stavano portando all’interno del centro di Temara, poiché tutto coincideva con le testimonianze dei malcapitati che mi avevano preceduto e che avevo letto nei rapporti di denuncia pubblicati dalle ong per i diritti umani. Cominciati gli interrogatori, gli agenti hanno dato subito il via alle minacce e alle intimidazioni. “Mettetelo nella fossa dei serpenti”, sono state le prime parole che ho udito. Volevano spaventarmi, stavano testando la mia reazione. Io rimanevo seduto, bendato e ammanettato per tutto il tempo dell’interrogatorio. Quando si stancavano, venivo rinchiuso in un’altra stanza, completamente spoglia, con solo un buco per i bisogni e una specie di lavandino lurido. In questi casi, mi toglievano la benda. Sulle pareti della cella c’erano numerose tracce di sangue. Non so dire se avessero appena sgozzato un montone o se si trattasse effettivamente di sangue umano, ma gli schizzi erano ben visibili su tutto il muro. E’ andata avanti così per tre giorni, senza mai dormire…

Mi parli un po’ di questi tre giorni di interrogatorio a Temara.
Con i miei interventi sui forum di discussione, con le mie critiche alla lotta la terrorismo e alla politica del governo, stavo gettando fango sul Marocco. Questo era il problema principale per le autorità. “Non faccio che esprimere le mie opinioni, se non siete d’accordo con me cercate di convincermi del contrario”, era la mia risposta. Ai servizi marocchini non piace che qualcuno gli tenga testa con argomentazioni solide e concrete. Così hanno iniziato ad intimorirmi: “in questo modo ti prenderai trent’anni di prigione, vediamo se hai il coraggio di continuare su questo tono”. Allora hanno provato a collegarmi a presunte cellule e gruppi terroristi. Volevano che confessassi di avere relazioni con gli islamisti algerini e di aver fatto parte del GSPC (Groupe Salafiste pour la Predication et le Combat, attivo tra gli anni novanta e i primi anni duemila, ndt). Stavo vivendo una situazione surreale. Non avevo alcun tipo di relazione con nessuno, ero un semplice funzionario che aveva espresso la sua posizione riguardo alla politica del proprio paese. Il peggio è arrivato quando hanno minacciato di coinvolgere mia moglie per costringermi a confessare il falso. Mi hanno mostrato un pezzo di carta dove c’erano scritti degli insulti nei confronti della monarchia e della dinastia alawita. Non era la mia calligrafia. In più, in tutti i miei interventi, sono sempre stato attento a non scadere nell’insulto o negli attacchi personali. La mia era una critica ragionata sul piano politico e ideologico. Dunque, si trattava di una “prova” fabbricata ad hoc. Quando ho risposto che non ero stato io a scrivere quella frase, i poliziotti hanno detto che il colpevole, allora, era mia moglie e che sarebbero andati subito a prenderla, dal momento che il pezzo di carta era stato ritrovato dentro alla mia agenda. La mia fu una reazione spontanea e, credo, naturale. Pur di non vederla immischiata in una situazione simile, mi sono assunto tutte le responsabilità.

Quali sono i capi di imputazione per cui è stato condannato?
Alla fine, sono stato condannato a due anni di carcere (diventati quattro al processo in appello) sulla base di due capi di imputazione. Il primo, “apologia del terrorismo”. Quando durante gli interrogatori mi hanno chiesto cosa pensassi della resistenza in Iraq, Palestina e Afghanistan io ho risposto onestamente che ogni popolo colonizzato ha il diritto di difendersi. Per loro, dunque, resistenza è solo sinonimo di Al Qaida e Zarkawi. Il secondo è l’“offesa alla persona del re”, secondo l’articolo 169 del Codice penale. Un’imputazione direttamente legata all’ammissione di colpevolezza strappatami sotto ricatto.

In merito alla sua vicenda si è parlato anche di alcune foto satellitari scattate sopra il noto centro di Temara, ma nulla in proposito è stato detto al processo. Perché?
Perché di Temara è vietato parlare. Comunque non ero stato io a scattare le fotografie satellitari sul centro di detenzione. L’immagine è stata diffusa attraverso un account utilizzato da più persone e, tra i vari nickname elencati sotto le immagini, c’era anche il mio. E’ stata la polizia, durante gli interrogatori dei primi giorni, ad attribuirmi la responsabilità. Per loro, io avevo scattato quelle foto e dunque io volevo far esplodere il centro. Era la conferma delle mie intenzioni terroriste. Sinceramente, credevo di esser diventato il protagonista di un film di fantascienza o di uno squallido romanzo poliziesco. Di fatto ero impotente di fronte alle loro calunnie e alle loro insinuazioni ridicole e inconsistenti.

Dopo i tre giorni trascorsi a Temara, è stato trasferito nel commissariato di Maarif (Casablanca), dove è rimasto per nove giorni nelle stesse condizioni di isolamento. Durante queste due settimane lei era un desaparecido sottoposto ad interrogatori estenuanti e a violenze psicologiche. Cosa mi dice invece della sua esperienza in carcere?
Una volta che il mio arresto è stato legalizzato, sono stato rinchiuso nella prigione di Salé, dove sono rimasto per sette mesi. Dopo la sentenza in appello, ho chiesto e ottenuto il trasferimento alla prigione di Ain Borja (Casablanca). Lì, grazie ad anni di lotta da parte dei detenuti, c’era la possibilità di scontare la pena in un ambiente senza tensioni, dove i prigionieri venivano trattati con rispetto dall’amministrazione penitenziaria e le visite dei familiari potevano svolgersi in un clima tranquillo. Purtroppo ci sono rimasto solo tre mesi, perché la Delegazione delle carceri aveva ricevuto l’ordine di separare i prigionieri islamici e di impedire la concentrazioni di gruppi troppo numerosi. Così sono passato a Oukacha (Casablanca). Dopo un anno e mezzo ho chiesto di ritornare alla prigione di Salé. A Oukacha il direttore era in aperto conflitto con i detenuti islamici, provava in ogni modo a mettere zizzania tra noi e i secondini, insomma era un inferno.
E’ durante i quattro anni trascorsi in carcere che ho avuto l’occasione di conoscere più da vicino la storia dei detenuti islamici e il motivo per cui si sono ritrovati in carcere con accuse decennali dall’oggi al domani. La mia conclusione è che lo Stato marocchino, attraverso l’appoggio dei servizi segreti, ha costruito dei dossier ad hoc, trasformando sospetti o timori preventivi in condanne per terrorismo. Decine e decine di miei compagni mi hanno raccontato le violenze e le torture subite sia a Temara sia al commissariato di Maarif. Era come rivivere la mia stessa storia decine e decine di volte. Pur di mettere fine ai colpi e alle umiliazioni, queste persone hanno accettato di firmare false confessioni. Ecco da dove vengono le cellule terroriste smantellate negli ultimi anni in Marocco. Ci hanno provato anche con me, ma poi si sono limitati alle due condanne che le ho esposto in precedenza. Al resto del lavoro ci pensa la stampa al servizio del regime. Pubblica le confessioni estorte sotto tortura, veicola la paura, ed ecco creato il “fenomeno terrorismo”. Altro che Al Qaida o fondamentalisti islamici.

Rida, appena uscito dal carcere di Salé, con la mamma Rachida e la figlioletta

Lei è uno dei fondatori, oltre che portavoce, della Coordination des ex detenus islamistes (CADI). Qual è lo scopo di questa coordinazione?
Appena tornato in libertà mi sono incontrato con altri ex-detenuti islamici. Non ci lasciavano in pace nemmeno fuori, eravamo continuamente seguiti e infastiditi. Così abbiamo deciso di creare una piccola coordinazione (CADI), per solidarizzare tra noi ex prigionieri e per divenire un punto di riferimento per i compagni ancora in carcere. La CADI, formalmente costituitasi il 12 maggio scorso, si è prefissa cinque obiettivi: il primo è fare in modo che i detenuti islamici ancora in carcere escano di prigione, poiché dalle discussioni avute con i compagni di cella e gli altri prigionieri è emerso che la maggior parte dei detenuti della cosiddetta salafiyya jihadiyya sono stati condannati per le loro idee e le loro opinioni, e non per aver effettivamente compiuto crimini o reati (come confermato da numerosi rapporti delle ong internazionali, ndr). Anche ai piani alti del regime si sono accorti della strategia miope – sequestri, torture e arresti di massa – intrapresa dopo l’11 settembre e ancor più dopo gli attentati del 16 maggio 2003 a Casablanca. Sanno che numerose ingiustizie sono state compiute e la grazia reale decisa lo scorso 14 aprile è un segno evidente di questa presa di coscienza. Il secondo obiettivo è battersi affinché venga abolita la legge anti-terrorismo, votata in gran fretta l’indomani degli attentati di Casablanca. Su questo punto riceviamo il sostegno di numerose altre organizzazioni della società civile, che ritengono il provvedimento contrario al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Terzo, ottenere un indennizzo per le centinaia di persone condannate e incarcerate ingiustamente, che come me hanno perduto il lavoro in seguito all’arresto e si trovano a dover ricostruire una vita da zero, oltre a mantenere intere famiglie. Quarto obiettivo, stiamo cercando di raccogliere e mettere insieme tutte le informazioni riguardo alle violazioni e ai soprusi subiti da quella parte di popolazione etichettata come salafiyya jihadiyya, in gran parte formata da giovani e gente con scarsa esperienza di attivismo militante, non in grado quindi di auto-tutelarsi o di diffondere le informazioni. Non esistono associazioni, lobby, media o partiti politici che difendano i nostri interessi e che facciano eco alle nostre vicende. Ultimo punto, esigere che i responsabili delle violazioni commesse contro di noi, ad ogni livello, vengano puniti.

La CADI può contare sull’appoggio di qualche altra organizzazione o associazione, oltre al sostegno degli ex detenuti islamici e delle loro famiglie?
Per prima cosa, la CADI non è un’associazione ma una coordinazione nata per il raggiungimento di alcuni obiettivi precisi, cinque come le ho appena elencato. Perciò non ha bisogno del riconoscimento legale delle autorità. Una volta raggiunti questi obiettivi potremo discutere se trasformarci in associazione, con uno statuto e una nuova strutturazione da sottomettere alla legislazione nazionale, oppure dissolverci semplicemente. Alla creazione della CADI hanno contribuito organizzazioni già esistenti e sensibili al problema dei prigionieri islamici, alle loro condizioni di detenzione e al dramma vissuto dalle loro famiglie: il Forum marocchino per la dignità (Al Karama) e l’Associazione marocchina per i diritti dell’uomo (AMDH). La riunione fondatrice della CADI, per esempio, l’abbiamo tenuta nei locali dell’AMDH a Rabat ed era presente il vice-segretario Abdelilah Benabdesslam. E’ un appoggio morale e allo stesso tempo pratico, dal momento che possiamo inviare le nostre relazioni e i nostri comunicati attraverso le loro reti diffuse su tutto il territorio nazionale e anche all’estero.
Per quanto concerne il sostegno finanziario, invece, la CADI si regge esclusivamente sulle donazioni degli stessi membri. Non accettiamo donazioni che provengano dall’esterno del nostro circuito o addirittura dall’estero, per non offrire l’occasione ai servizi di sicurezza di attaccarci anche su questo piano. Sarebbe facile sentirsi dire da un momento all’altro “la CADI è finanziata dalle reti del terrorismo internazionale o dalle lobby pro-Polisario”. E questo non possiamo permettercelo.

In che modo siete in contatto con i “confratelli” ancora in prigione?
I contatti tra la CADI e i detenuti ancora in carcere sono essenzialmente le famiglie stesse, che fino agli ultimi episodi di Salé avevano il diritto a visite regolari. Le mogli e i figli degli islamisti in prigione si sono costituiti anche loro in una coordinazione, Al Haqiqa (La Verità). Attraverso i loro racconti e le loro testimonianze riusciamo a seguire la situazione dei confratelli in carcere. Il tutto viene riportato nei nostri comunicati e diffuso attraverso conferenze stampa.

Cosa è successo all’interno della prigione di Salé il 16 e il 17 maggio scorso? La stampa ha parlato di “ammutinamento” dei detenuti islamici, di “rivolta” e “sequestro dei secondini”. Qual è l’opinione della CADI in proposito?
Abbiamo ricevuto le prime telefonate verso mezzogiorno di lunedì 16 maggio. I detenuti erano già sul tetto della prigione Zaki di Salé. In mattinata erano successi degli episodi strani, che hanno allarmato i prigionieri e li hanno spinti a salire sul tetto del penitenziario. Alcuni detenuti, tra cui Bouchta Charraf (noto per essere riuscito a diffondere una testimonianza video sulle torture subite a Temara, riportata dal sito di informazione Lakome.com) erano stati prelevati dalle rispettive celle e portati via da guardie armate senza alcuna spiegazione. Le porte della sezione riservata agli islamisti (M1 e M2) erano tutte chiuse, a differenza dei giorni passati. Qualcosa era nell’aria. C’era il timore di un ritorno ai maltrattamenti conosciuti negli anni precedenti. Quando poi i detenuti sono saliti sul tetto, hanno notato la presenza nel cortile interno al carcere di decine e decine di soldati pronti a fare irruzione nella loro sezione. In quel momento è iniziata la rivolta. Si è poi saputo che tutti i detenuti islamici di Salé sarebbero stati trasferiti in altri penitenziari. La decisione era stata presa in gran segreto dal capo della delegazione delle carceri, nonché fedele torturatore del regime sotto Driss Basri, Hafid Benhachem. I militari erano lì per assicurare la buona riuscita dell’operazione.
Nonostante i tentativi di mediazione, gli agenti hanno attaccato i detenuti sul tetto. I video diffusi dai media ufficiali hanno voluto far credere ad un sequestro volontario (5 guardie carcerarie) da parte dei prigionieri, colpevoli di aver scatenato le violenze. Tuttavia altri filmati mostrano come lo scambio di violenze sia iniziato solo dopo l’intervento delle forze anti-sommossa. Per la disparità dei mezzi e dei numeri a disposizione, per la ferocia con cui gli agenti si sono accaniti contro i detenuti, possiamo dire che alla prigione di Salé si è sfiorato per poco il massacro (35 feriti gravi). Per i prigionieri, certi ormai di andare in contro a nuove vessazioni e privazioni, si è trattato di legittima difesa. Io mi trovavo all’esterno del penitenziario, assieme alle famiglie, tra il pomeriggio del 16 e la mattina del 17. Sono continuati ad arrivare rinforzi militari per mettere fine alla resistenza dei detenuti, mentre sopra i tetti della prigione volavano elicotteri della Gendarmerie royale. E’ stato un assedio, durante il quale gli agenti hanno utilizzato pietre, bastoni, manganelli, gas lacrimogeno ed hanno sparato anche proiettili veri (non solo di caucciù) contro i prigionieri, come quello che ha perforato il petto di Zakaria Benaarif (nessuna novità al momento sul suo stato di salute).

Cosa è successo ai detenuti di Salé, dopo che il 17 maggio le forze di sicurezza hanno ripreso il controllo della prigione Zaki?
Lo stiamo ancora appurando. Fino ad ora è stato impossibile entrare in contatto con i prigionieri, il Ministero si è rifiutato di rispondere alle richieste presentate dall’AMDH e dalle altre ong per i diritti umani. Ci sono stati dei trasferimenti immediati al carcere di Salé 2, altri alla prigione Toulal di Meknes. E’ difficile raccogliere informazioni poiché a tutti i detenuti è stato tolto il diritto di visita per quaranta giorni (per evitare che i familiari vedessero sui loro corpi le ferite e i segni delle ritorsioni dei secondini). Tuttavia, secondo le testimonianze dei pochi avvocati che sono riusciti ad incontrare i rispettivi clienti, i detenuti si trovano in uno stato di salute pessimo, portano addosso le ferite e i segni della violenza repressiva, sono stati privati di tutti gli effetti personali posseduti nella prigione di Zaki (secondo il sito di informazione Demain on-line gli effetti personali sono stati poi rivenduti dai secondini di Salé ai detenuti di diritto comune, ndr). Di alcuni dei prigionieri protagonisti della “rivolta” si sono perse completamente le tracce, non sappiamo dove si trovino in questo momento e quali siano le loro condizioni. Secondo alcune testimonianze sarebbero rinchiusi nelle celle di isolamento di Salé 2. In ogni caso, la macchina repressiva dell’amministrazione penitenziaria si è messa in moto e si è scagliata contro i “prigionieri ribelli” utilizzando il solo linguaggio che conosce, quello della violenza.

Da dove è scaturita la rivolta?
La vicenda esplosa il 16-17 maggio va letta in prospettiva storica. Per spiegare bene quanto successo e l’origine della rivolta, bisogna tornare in dietro di tre mesi. Il 17 febbraio i detenuti islamici avevano avviato numerose proteste – salendo in sit-in sui tetti dei penitenziari – in tutte le prigioni del regno per chiedere la revisione dei processi ingiusti e la scarcerazione. Centinaia di persone, condannate in modo arbitrario e in prigione da oltre otto anni, hanno voluto trasmettere un messaggio chiaro all’amministrazione penitenziaria e al Ministero della Giustizia: “è tempo che il dossier dei detenuti islamici venga risolto e si trovi un modo per far uscire di prigione i cittadini innocenti”. L’amministrazione ha fatto appello in quella circostanza ad un detenuto islamico riconosciuto e rispettato da tutti all’interno del contesto carcerale, Noureddine Nafiaa, per cercare di risolvere la crisi e giungere ad una soluzione.
L’accordo è stato raggiunto il 25 marzo, alla presenza dei responsabili dell’amministrazione penitenziaria, del segretario generale del Ministero della Giustizia, del segretario generale del Consiglio nazionale per i diritti umani (CNDH, org. governativa) e del presidente del Forum Al Karama. Lo Stato marocchino e i detenuti islamici, per bloccare le proteste, avevano sottoscritto i seguenti impegni: la liberazione progressiva di tutti i prigionieri ingiustamente condannati; il miglioramento, durante il periodo di revisione e analisi dei dossier, delle condizioni di detenzione di tutti i prigionieri, ossia la fine dei maltrattamenti da parte dei funzionari penitenziari, la fine delle perquisizioni ossessive nei bracci degli islamisti, l’apertura delle celle durante tutta la giornata, visite dei parenti regolari e in condizioni confortevoli.

La grazia reale concessa ai detenuti il 14 aprile rientra nell’accordo del 25 marzo?
Sì, durante le negoziazioni il segretario del CNDH Mohammed Sebbar aveva affermato che i dossier dei singoli detenuti sarebbero stati risolti per via giuridica. Cioè, coloro che dovevano ancora passare in appello sarebbero stati assolti, mentre i condannati in via definitiva sarebbero stati graziati. Una prima lista sarebbe uscita subito, come effettivamente è stato il 14 aprile, ed una seconda lista di centodieci prigionieri sarebbe stata liberata ad un mese esatto dalla prima grazia. Vale a dire il 14 maggio. Qualcuno potrebbe pensare ad una curiosa coincidenza: la seconda grazia non è arrivata, dunque l’accordo del 25 marzo non è stato rispettato, in più il 15 maggio gli ex-detenuti che volevano manifestare (assieme al “20 febbraio”) contro il centro di detenzione e tortura di Temara sono stati brutalmente repressi (violenze e arresti anche contro i rappresentanti della CADI. Oussama Boutaher, presidente della coordinazione e altri due rappresentanti sono in carcere con l’accusa di violenza contro pubblico ufficiale, ndr). Ventiquattrore dopo sono iniziati gli strani movimenti all’interno del carcere di Salé ed è partita la nuova rivolta dei detenuti…
Questo significa che il regime ha fatto solo finta di scendere a patti. L’attentato di Marrakech gli ha fornito l’occasione per far saltare ogni tentativo di soluzione del dossier “detenuti islamici” e in più gli ha dato il la per un ritorno in grande stile alla strategia securitaria. Del resto, perfino la grazia del 14 aprile era stata una mera operazione di facciata, una mossa ben congeniata per la consumazione mediatica, dato che alla maggior parte dei prigionieri liberati restavano solo poche settimane o addirittura pochi giorni di pena da scontare.

Quindi, il regime non ha mai avuto l’intenzione di risolvere il “dossier detenuti islamici”?
Con l’intervento nel carcere di Zaki l’accordo del 25 marzo è stato definitivamente rotto. Lo stesso Noureddine Nafiaa, considerato dalle autorità un interlocutore ponderato e affidabile oltre che principale artefice dell’accordo, è “scomparso” il 17 maggio. Da allora la moglie Meryem non ha più sue notizie, a parte le intimidazioni lanciate da alcuni funzionari della prigione di Salé lo scorso 26 maggio: “lo stiamo spellando vivo” è la risposta avuta dalla donna.
Credo che qualcuno in seno all’amministrazione penitenziaria o in seno al governo stesso abbia voluto fare di tutto per evitare una soluzione equa del dossier islamista in Marocco, per far saltare gli accordi e la riparazione delle vessazioni subite. Poter continuare a sbandierare un pericolo islamista e una presenza terrorista è una vera manna finanziaria per il regime, che riceve ingenti aiuti dalle potenze occidentali per combatterlo. In più risponde a chiari bisogni di “gouvernance interna”.

Chi sono questi “salafiti” – o meglio membri della “salafiyya jihadiyya”, come vi ha definito il regime – di cui si parla sempre di più e con poca cognizione di causa, non soltanto in Marocco?
Per prima cosa il termine salafiyya jihadiyya identifica un movimento transnazionale, che si richiama ad una certa idea della “guerra santa”. Chi aderisce al movimento, ambisce a raggiungere i focolai del jihad, come nel caso dell’Afghanistan al tempo dell’occupazione sovietica o del nuovo Afghanistan invaso dai contingenti Nato. Ad ogni modo l’obiettivo è raggiungere una zona di conflitto e schierarsi in difesa dell’islam. I marocchini avevano partecipato numerosi al jihad afghano contro i comunisti, con il beneplacito di Washington e del regime alawita. Queste persone, che nella maggior parte dei casi ora si trovano in prigione, continuano a difendere la scelta fatta. Per loro si è trattato di una vera guerra di liberazione: “era una buona causa”, ripetono incessantemente.
Dopo quell’esperienza, difficilmente i salafiti marocchini sono riusciti a raggiungere i nuovi conflitti. Questo perché lo scenario internazionale era nel frattempo cambiato, gli equilibri geopolitici degli anni duemila non erano gli stessi degli anni ottanta. Gli apparati di sicurezza del regime, dopo il 2001, hanno iniziato a mettere in cella chi, anche solo a parole, lasciava trasparire l’idea di voler raggiungere l’Afghanistan, la Cecenia, la Palestina e poi l’Iraq e la Somalia. Per Rabat, alleato fedele degli Stati Uniti, quelle non erano più “guerre giuste” ma minacce alla sicurezza dello Stato. Centinaia di persone sono finite in carcere per il solo fatto di aver intrattenuto una discussione come quella che stiamo avendo tu ed io adesso. Ma di fatto, a parte i vecchi “afghani”, quasi nessuno delle nuove generazioni di salafiti ha preso parte ad un jihad, passando così all’azione.
Nel caso dei salafiti marocchini poi, non esiste l’esigenza di entrare in conflitto con l’autorità del proprio paese. Anche se le scelte non sono condivise, in politica estera come nell’ordinamento interno, queste persone sanno che una strategia armata dentro i confini nazionali non verrebbe recepita dalla popolazione e che quindi non gioverebbe alla causa finale della difesa stessa della nazione e dei valori islamici.

Lei si considera un “salafita”? Perché?
Non ho problemi ad essere definito salafita. Con l’aggettivo salafita si vuole indicare un individuo attaccato ai valori islamici primordiali, alle pratiche ancestrali delle prime comunità di fedeli, in termini di rapporti sociali e di organizzazione politica. Un individuo che propone la riscoperta del bagaglio di esperienze offerto dagli antenati (salaf). Tuttavia, non ho nulla a che vedere con il termine jihadista. Io non ho mai abbracciato le armi, non ho mai ricevuto un addestramento militare per partire a combattere nei focolai del jihad. Il problema è che non ho mai nascosto la mia simpatia per quei movimenti di resistenza che oggi difendono il proprio paese dalle invasioni straniere e dalle mire di conquista militare ed economica degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Simpatizzare per questo tipo di resistenza è divenuto estremamente pericoloso. Tanto basta, all’evidenza dei fatti, per essere etichettato come terrorista.

Il Marocco del futuro, per il “salafita” Rida Benotmane, sarà uno Stato democratico o un’autocrazia religiosa?
In Marocco i salafiti sono un’esigua minoranza della popolazione. Questo è un dato di fatto. Di conseguenza non abbiamo mai pensato ad un’organizzazione politico-sociale da imporre a tutta la popolazione. Non è nelle nostre volontà e men che meno nelle nostre capacità. Per questo non ci siamo mai veramente posti il problema “democrazia sì/democrazia no”. Tutto quello che chiediamo è di poter vivere in uno Stato che non ci perseguiti. Che non ci metta in prigione per le nostre idee. Ma che rispetti la nostra particolarità e ci accetti al suo interno. In ogni caso, non mi sognerei mai di prevaricare la volontà del popolo.

Qual è dunque il legame che unisce la CADI, i detenuti e gli ex detenuti islamici, al Movimento 20 febbraio?
La CADI ha adottato e appoggiato le iniziative del Movimento 20 febbraio proprio perché nei discorsi di questi giovani viene ribadita la necessità di giungere ad una vera sovranità popolare, che lasci a tutte le componenti della società marocchina la possibilità di esprimersi. A me è sembrata la sintesi perfetta e l’obiettivo giusto. Una buona strada per contrastare il regime attuale, lontano anni luce dal rispetto dei diritti e delle libertà. Tanto più che il movimento ha deciso fin da subito di lottare per la liberazione di tutti i detenuti di opinione, per l’abolizione della legge anti-terrorismo e per la fine delle violazioni e degli abusi commessi dalla polizia politica. Il “20 febbraio” è stato capace di oltrepassare le divergenze ideologiche tra le varie “opposizioni” presenti in Marocco. E’ riuscito ad inibire la politica del regime, che per decenni ha sfruttato queste divergenze per rafforzarsi, ed ha raccolto attorno a sé tutti gli attori e le forze sociali desiderose di cambiamento e della piena affermazione della volontà del popolo. Nel paese, adesso, c’è un solo vero nemico, sia per la sinistra, sia per i liberali, sia per gli islamisti e i militanti amazigh. Un solo nemico che impone la sua dittatura al popolo, che lo priva delle sue risorse e dei suoi beni, che segue le direttive di alleati stranieri (in primis Francia e Stati Uniti). Oggi è possibile, per tutte queste componenti, sedersi attorno ad un tavolo e discutere assieme sulle rivendicazioni e sulle iniziative da portare avanti. Ciò che ci accomuna è molto più importante di quello che ci divide. Questa consapevolezza è la più grande vittoria raggiunta fino ad ora dalla “primavera marocchina”.
Per noi islamisti non è stato facile né automatico arrivare ad una tale conclusione. Ne abbiamo parlato a lungo, dentro e fuori le prigioni, ma alla fine la scelta di sostenere il movimento è stata ampiamente condivisa. Per esempio, noi della CADI cerchiamo di difendere la causa dei detenuti islamici. Ma, quando partecipiamo alle iniziative del “20 febbraio”, mettiamo da parte la nostra specificità e rivendichiamo giustizia per tutti i detenuti politici e di opinione.

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