RABAT – Omar Radi, giornalista indipendente (Lakome, Les Echos, Atlantic radio) e attivista del Movimento 20 febbraio, racconta quanto successo nella capitale marocchina il 15 maggio scorso, quando i giovani dissidenti hanno lanciato l’“operazione GuanTemara” (un sit-in di protesta simbolico di fronte alla sede della polizia politica (DST), situata nella foresta di Temara, a pochi chilometri da Rabat – vai al link per maggiori informazioni su cosa succede a Temara) trovando per tutta risposta la violenta repressione della polizia. Nel corso dell’intervista, il ventiquattrenne Radi si sofferma sulla nuova strategia delle autorità (intrapresa dopo l’attentato di Marrakech) nei confronti delle contestazioni che da tre mesi agitano il paese, sul ritorno della violenza all’indirizzo di manifestanti pacifici, sulla perdita di consenso di un regime che rilancia lo spauracchio del terrorismo internazionale e del pericolo islamista per fare quadrato attorno a sé. In attesa delle manifestazioni previste per domani, 22 maggio, “si annunciano giorni oscuri per il movimento e per tutte le forze democratiche marocchine”, ricorda Omar.
Perché il Movimento 20 febbraio ha deciso di lanciare l’“operazione GuanTemara”?
L’iniziativa aveva due obiettivi di fondo. Il primo, legato strettamente alle rivendicazioni del movimento, cioè chiedere la fine dello stato di polizia e una nuova gouvernance per il paese, fuori dalla gestione dei servizi segreti, dei corpi militari e della polizia politica. Questi organismi sfuggono al controllo dei cittadini e dello stesso parlamento (per quanto nelle condizioni attuali sia uno strumento in sé inefficace) e non devono rendere conto delle loro azioni. Dall’11 settembre 2001 e, ancor più, dal 16 maggio 2003 (attentati di Casablanca) gli apparati securitari hanno le mani completamente libere e il loro modus operandi ricorda sempre di più quello utilizzato dalla polizia di Hassan II durante gli “anni di piombo” (1962-1999). La liquidazione fisica degli oppositori – marxisti, sindacalisti, saharawi e infine islamisti – una pagina nera che credevamo ormai superata, ha fatto inaspettatamente ritorno, come purtroppo confermano i rapporti delle ong per i diritti umani, locali e internazionali, e le testimonianze rilasciate dalle vittime di rapimenti e torture, dai loro familiari e dai loro avvocati (ultime prove raccolte, i filmati degli “interrogatori” CIA a Temara, finiti nelle mani dell’agenzia americana Associated Press). Questa la prima ragione che ha spinto il movimento a manifestare contro un sistema di sicurezza fuori controllo e colpevole di gravi violazioni dei diritti umani, di cui la polizia politica è parte integrante. Riteniamo che sia arrivato il momento di mettere fine ai sequestri e ai maltrattamenti dei “sospetti”, agli interrogatori sotto tortura (agevolati dalla legge anti-terrorismo approvata l’indomani del maggio 2003). Crediamo che ogni essere umano, qualunque sia la sua ideologia, abbia diritto ad un equo processo e chiediamo che i colpevoli delle violazioni siano rimossi e processati da una giustizia indipendente.
Il secondo obiettivo dell’“operazione GuanTemara” era l’effetto mediatico che una simile azione avrebbe suscitato. In ogni caso, ci siamo detti, il movimento né uscirà vincente. Se le forze dell’ordine non intervengono e il sit-in riesce avremo sfatato un altro tabù. Un passo avanti nella riappropriazione di una coscienza civica e pienamente cittadina. Se invece la polizia reprimerà una manifestazione pacifica, sarà l’ennesimo passo falso di un regime che si riempie la bocca di parole come “democrazia” e “rispetto delle libertà e dei diritti”.
Lei ha detto, “la DST non deve rendere conto delle sue azioni”. Da chi dipende l’operato della polizia politica in Marocco?
Mi correggo, non deve rendere conto alle istanze elette, alla popolazione che è vittima delle sue violazioni. In linea di principio la DST dipende dal Ministero dell’Interno. Ma in Marocco tale dicastero fa parte dei cosiddetti “ministeri di sovranità” (assieme al Ministero della Giustizia, della Difesa, degli Affari Esteri e degli Affari Religiosi). E’ il sovrano a scegliere e nominare questi cinque ministri, che rimangono in carica indipendentemente dalla durata del governo (il potere di revoca appartiene allo stesso re). Il ministro dell’Interno, quindi, è niente più che un rappresentante di Palazzo. Il suo potere resta limitato, vincolato alle direttive impartite dal monarca, dai suoi influenti consiglieri e dalla DGED (servizio di controspionaggio militare). Di conseguenza, come dicevo in precedenza, non esiste nessuna vera forma di controllo su questo apparato. Quanto rimesso nelle mani del monarca non può essere soggetto a discussione e non può essere portato a conoscenza delle altre istituzioni (se non per sua espressa volontà).
Cosa è successo la mattina del 15 maggio?
Alle nove di domenica scorsa (15 maggio, ndr) decine di attivisti si sono ritrovate nel centro di Rabat, di fronte alla sede dell’UMT (Unione marocchina dei lavoratori, il principale sindacato marocchino, ndr), per decidere in che modo raggiungere Temara. Abbiamo deciso di radunarci in una piazza del quartiere periferico di Hay Riad, prima di addentrarci nella foresta in cui è situato il centro della DST. Così alcuni di noi hanno preso le auto, altri hanno preferito i taxi o gli autobus. I primi ad arrivare nel luogo convenuto, tuttavia, hanno subito riscontrato un enorme dispiegamento di agenti di tutti i tipi (forze ausiliarie, polizia, DST..), c’era perfino la brigata anti-terrorismo (riconoscibile per la sua uniforme, volto coperto dal passamontagna e giubbotto anti-proiettile). Alle dieci, solo una parte degli attivisti (circa centocinquanta) era riuscita ad arrivare alla piazza di Hay Riad, quasi tutti giovani esponenti del Movimento 20 febbraio. Molti di noi sono stati intercettati all’ingresso del quartiere, mentre la gran parte degli islamisti (ex detenuti passati per Temara, ora riuniti in collettivi ed associazioni) è stata bloccata già all’uscita delle loro abitazioni, all’ingresso in città, nella stazione del treno o al casello dell’autostrada Casablanca-Rabat. Hay Riad era completamente invasa dalle forze di sicurezza, che non hanno esitato ad attaccare senza la minima provocazione da parte nostra. Avevano l’ordine di intervenire alla cieca e così è stato. Perfino alcuni giornalisti sono stati risucchiati nella foga repressiva. Abbiamo cercato di disperderci nelle vie del quartiere, nonostante i primi feriti, mentre gli agenti continuavano e picchiarci e ad inseguirci in moto e con le camionette. La caccia all’uomo è durata più di un’ora. Alcuni di noi, a causa dei colpi subiti, non potevano più correre e nemmeno camminare, altri hanno perso conoscenza. Qualcuno ha tentato di nascondersi, senza successo. I bersagli privilegiati dai manganelli della polizia sono stati i portavoce del movimento, gli elementi più in vista come per esempio Oussama Khalfi (trauma cranico, frattura del naso e della spalla), Nizar Bennamate (coperto di lividi dall’inguine in giù), Salima Maarouf (gettata a terra e poi percossa selvaggiamente alla testa e nella zona inguinale). Colpire al volto e nei genitali è una specialità dei reparti anti-sommossa marocchini.
Nessuno nel quartiere ha provato a darvi rifugio?
Nessuno nel quartiere ha provato a darvi rifugio?
Hay Riad è un quartiere amministrativo, oltre che la residenza dalla nuova borghesia di Rabat. Le vie erano deserte e le porte chiuse. Ci siamo ritrovati in cinquanta di fronte alla sede dell’USFP (il partito socialista marocchino, dal 1998 al “governo”, ndr), ma i responsabili si sono rifiutati di accoglierci e così le cariche sono ricominciate. Io ed altre dieci persone siamo riusciti ad entrare in un palazzo vicino e ci siamo barricati sul tetto (dopo alcuni tentativi di sfondare la porta di accesso, gli agenti si sono radunati di fronte all’ingresso dell’immobile ed hanno chiamato rinforzi). Gli altri quaranta, invece, sono finiti in un vicolo cieco e sono stati bloccati dalla polizia che, prima di arrestarli, ha continuato il pestaggio. Vedendo l’affluire in massa dei poliziotti, sapevamo che a breve sarebbero venuti a prenderci, forzando le nostre deboli barricate (qualche vecchio mobile rimediato all’ultimo piano). Alcuni di noi hanno minacciato di gettarsi di sotto nell’eventualità di un simile intervento. Io ho dato l’allarme a dei colleghi giornalisti, che in poco tempo sono riusciti a mobilitare parte della stampa nazionale e internazionale presente nella capitale e gli attivisti dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani). Arrivate le telecamere gli agenti sono stati messi sotto pressione ed hanno rinunciato all’intervento. Solo allora il Prefetto ha accolto le nostre richieste (tramite la mediazione di un membro dell’ufficio centrale dell’AMDH): siamo scesi dal tetto solo dopo che i quaranta compagni erano stati rilasciati e la polizia si era allontanata dal quartiere.
In seguito, quasi tutti i “superstiti” della mattinata infernale si sono ritrovati nella sede dell’AMDH per annunciare alla stampa quanto successo nelle ore precedenti. Il bilancio finale che abbiamo raccolto è di un centinaio di feriti (tra cui una decina, in gravi condizioni, subito trasferiti all’ospedale), quarantaquattro persone finite in arresto e poi rilasciate, un’auto, numerosi computer portatili e telefoni cellulari sequestrati ai militanti del “20 febbraio” dalle forze di sicurezza.
Come si è conclusa la giornata del 15 maggio a Rabat?
Si è conclusa, purtroppo, nella maniera in cui era cominciata. Gli attivisti islamici, gli ex detenuti politici e le associazioni in loro sostegno, non erano riusciti, in mattinata, a raggiungere Hay Riad ed il resto del movimento. Così hanno deciso di fare un sit-in nel centro della capitale, di fronte al parlamento. Le forze anti-sommossa sono intervenute ancora una volta, manganelli e scudi alla mano, per impedire l’afflusso in boulevard Mohammed V.
Come si spiega questa reazione da parte delle forze dell’ordine, questo ritorno della violenza all’indirizzo del “20 febbraio” dopo l’ultimo grave episodio registrato due mesi fa (il 13 marzo scorso a Casablanca)?
La polizia politica è la colonna vertebrale, il sistema nevralgico di quell’apparato di controllo sul paese chiamato makhzen. Il Movimento 20 febbraio, con la manifestazione a Temara, è riuscita ad intaccarlo. Il regime si è sentito minacciato dall’eventualità che il popolo, guidato da dei “ragazzini” (così vengono chiamati gli attivisti del “20 febbraio” dalla stampa ufficiale, ndr), possa rimettere in questione apertamente la sua politica e la sua struttura securitaria, oltre alla legge anti-terrorismo. Il messaggio che hanno voluto lanciare domenica è chiaro: la ricreazione è finita. Le intimidazioni personali (decine di membri del movimento, in settimana, sono stati arrestati e poi rilasciati dalla polizia di Rabat e Casablanca) e la campagna di discredito dei media, che ci dipingono come degli estremisti e degli agitatori, sono ricominciati a tamburo battente, proprio come nei giorni seguiti al 20 febbraio.
A suo avviso, l’atteggiamento del regime nei confronti del Movimento 20 febbraio è cambiato dopo l’attentato di Marrakech del 28 aprile scorso?
Dopo la tragedia di Marrakech, tutti coloro che erano contrari al Movimento 20 febbraio, in particolar modo il makhzen preoccupato per la conservazione dei suoi interessi, hanno cercato di approfittare dell’attentato per indebolire le contestazioni in atto nel paese. Il discorso veicolato è il seguente: ci troviamo di fronte ad un grande pericolo e ad una grave minaccia, bisogna che il popolo capisca che le rivendicazioni del “20 febbraio” non sono una priorità, a differenza della sicurezza e della stabilità interna. Tuttavia, le mobilitazioni lanciate dallo stesso movimento dopo il 28 aprile hanno rappresentato l’ennesimo schiaffo per il regime. Migliaia di persone in diverse città (domenica 8 maggio, ndr) sono scese di nuovo in strada per dire: “siamo contro la violenza e contro il terrorismo, ma le nostre rivendicazioni restano la priorità, adesso! La democrazia non è una merce di scambio o un bene “sacrificabile”, la polizia politica e la legge anti-terrorismo non servono a proteggerci!” Il makhzen non è riuscito quindi a far tacere un movimento ormai definitivamente popolare, che lo scorso 24 aprile aveva invaso le piazze di centosei città del paese. Una tale reazione ha innescato la spirale repressiva delle autorità (pestaggi, intimidazioni, accuse infamanti e notizie false date in pasto ai giornali). Prima di domenica scorsa (15 maggio, ndr) non si era mai visto a Rabat un simile accanimento contro le nostre iniziative pacifiche. Il regime si sente ora legittimato a fare quello che prima non poteva, senza mettere sul conto l’esplosione dell’indignazione e della rabbia generale. Per questo motivo i giorni a venire (già domenica 22 maggio – giornata di mobilitazione nazionale) si annunciano oscuri per il movimento e per tutte le forze democratiche marocchine. Ciò nonostante la nostra posizione non cambia: continueremo la protesta, ma non risponderemo alla violenza con altra violenza.
La repressione di domenica scorsa non è il solo episodio che testimonia il nuovo atteggiamento del regime nei confronti di ogni sorta di contestazione ancora attiva sul territorio nazionale. Penso al sollevamento dei villaggi nel Marocco "profondo" (due cittadine, Khouribga e Bouarfa, negli ultimi dieci giorni hanno sperimentato la reazione violenta delle autorità locali, sfociata in scontro aperto tra la popolazione e le forze di sicurezza), penso alle rivolte dei detenuti islamici nelle prigioni di Salé e Tangeri. Esempi non riconducibili, forse, al “20 febbraio” ma che vanno in ogni caso nella stessa direzione.
Sì, sono altri sintomi del pericoloso cambiamento in atto. Nel carcere di Salé la polizia ha sedato la protesta dei prigionieri islamici, che chiedono la revisione dei processi e la fine dei maltrattamenti (secondo il comunicato diffuso oggi dal Coordinamento degli ex detenuti), sparando proiettili veri e non solo cartucce di caucciù (come invece era stato riferito in un primo momento). Stando allo stesso comunicato, almeno un detenuto è morto a causa delle ferite da arma da fuoco.
Ora, il Movimento 20 febbraio appoggia, l’ho già detto, le rivendicazioni dei prigionieri islamici – la fine delle violazioni perpetrate dagli apparati di sicurezza e la revisione dei processi farsa che li hanno condannati – come del resto le associazioni degli ex detenuti sostengono l’azione del movimento pur non facendone parte. Per questo ritengo che quanto accaduto negli ultimi giorni all’interno delle prigioni di Salé e Tangeri possa essere ricondotto alla nuova controffensiva messa in atto dalle autorità. La stessa considerazione è valida nel caso delle repressioni a Khouribga e Bouarfa, sebbene le rivolte di villaggio non rappresentino una novità in Marocco, ma costituiscano una realtà antecedente alla nascita del movimento, come ricordano gli esempi più recenti di Sidi Ifni nel 2008, Taghjijt nel 2009 e Laayoune nell’ottobre-novembre del 2010. Il “20 febbraio” non ha fatto che dar forza a fenomeni classificati in precedenza come “isolati e circoscritti”. Ha reso più visibile la lotta portata avanti da abitanti marginalizzati e sconosciuti, iscrivendola in un quadro di contestazione globale. Questo perché siamo mossi, in fondo, dalla stessa esigenza di cambiamento.
Sulla stampa nazionale si è fatto un gran parlare della “perdita di autonomia dei giovani del movimento”, divenuti strumento inconsapevole degli estremisti di sinistra (accusati di essere repubblicani) e soprattutto degli islamisti dell’associazione Giustizia e Carità (che punterebbero all’instaurazione di una repubblica islamica). Cosa risponde?
La perdita di autonomia dei giovani del movimento e il pericolo di un recupero della dissidenza da parte degli islamisti è una tesi sviluppata dal regime e diffusa in maniera subdola dai media al suo servizio. In questo il Marocco non si differenzia dagli altri apparati totalitari del mondo arabo-islamico che vi hanno fatto ricorso per anni nell’intento di giustificare l’assenza delle libertà pubbliche e dei diritti civili e l’instaurazione di uno stato di polizia. La tesi si rivolge non solo alla popolazione nazionale, ma soprattutto ai paesi stranieri, all’Occidente. Mubarak e Ben Ali hanno sostenuto fino all’ultimo di essere i soli baluardi possibili contro il fondamentalismo religioso e il terrorismo islamico. Il Marocco, dopo Marrakech, ha deciso di giocare la stessa carta. Ha fatto risorgere Al Qaida, che occupa incessantemente le prime pagine dei giornali e allo stesso tempo agita lo spauracchio interno di Giustizia e Carità, un’associazione islamica (non riconosciuta dal regime) dichiaratamente pacifica, che però non ha mai nascosto la sua avversione per la monarchia assoluta alawita.
L’eco fornito dai media a questa strategia è notevole, dal momento che nel paese è praticamente scomparsa la stampa indipendente. Nessun giornale osa più criticare la linea ufficiale (dopo la liquidazione di Nichane, di Al Jarida Al Oula, del Journal Hebdomadaire) e nessun giornalista riesce ad imporre alla sua redazione un’analisi oggettiva su quanto sta accadendo. Il Movimento 20 febbraio è per sua natura eterogeneo, sia nel caso dei giovani che l’hanno creato sia per le organizzazioni che lo sostengono. Al suo interno ci sono militanti di sinistra, repubblicani, altermondialisti, attivisti amazigh, islamisti e liberali, riuniti dalla stessa volontà di cambiamento. L’obiettivo comune è la possibilità, per ognuno, di esprimersi in un Marocco finalmente democratico, dove è il popolo ad essere sovrano e non le elite che monopolizzano ora la vita politica ed economica del paese. Chi fa parte del movimento ha accettato di rinunciare ai particolarismi ed ai dogmi ideologici per raggiungere una necessità ben più impellente e immediata. Il regime ha capito il grave pericolo a cui sta andando in contro e per questo sta cercando di dividerci e di seminare la paura, fabbricando falsità. Tuttavia, nessuna componente del “20 febbraio” ha mai cercato di prevaricare le altre, men che meno gli islamisti di Giustizia e Carità, ben consapevoli del rischio a cui si esporrebbero. Nei quartieri popolari di Casablanca, nel Marocco “profondo”, nel Marocco “inutile”, dove più forte in termini quantitativi è stata l’adesione alle mobilitazioni, interi villaggi manifestano per il pane quotidiano, per un’esistenza finalmente degna, per la fine dei soprusi e della repressione alimentata dai piccoli despoti locali. Non manifestano certo contro gli empi o i nemici della fede.
Lei ha parlato di obiettivi, di volontà di cambiamento. A tre mesi esatti dall’inizio della contestazione, cosa è mutato nella strategia e nelle rivendicazioni del movimento?
Per quanto riguarda la strategia, i cambiamenti si vedranno a partire da domenica prossima (22 maggio, ndr), quarta giornata di mobilitazione nazionale indetta dal “20 febbraio”. Al termine delle manifestazioni sono in programma per la prima volta dei sit-in di cinque ore in tutte le città del territorio. E’ il sintomo di una radicalizzazione della nostra azione. L’intento è quello di ricordare che “nulla sta cambiando, tranne la violenza della repressione subita”, per ribaltare i rapporti di forza e mediatizzare ancora di più la lotta.
Gli obiettivi del movimento, invece, restano gli stessi enunciati nel manifesto rivendicativo reso noto prima del 20 febbraio. In primis, la fine dell’assolutismo e il passaggio ad una monarchia parlamentare, sancito da una nuova costituente espressione della piena sovranità popolare. Provvedimenti necessari e immediati a tale scopo sono la dissoluzione del parlamento e del governo in carica, strumenti non rappresentativi della volontà popolare (nel 2007, solo un marocchino su cinque degli aventi diritto si è recato alle urne). Poi, la fine del monopolio economico in mano alla famiglia reale e ai suoi consiglieri e l’applicazione di nuove regole di trasparenza, formulate da organismi indipendenti, in grado di bloccare il saccheggio delle risorse del paese attuato fin’ora impunemente (il Marocco è il quinto paese al mondo per fuga di capitali all’estero) e la conservazione delle pratiche clientelari tutt’ora in voga nelle alte sfere di potere. A questo proposito, l’unico segnale di rottura efficace, è l’immediato allontanamento delle losche figure di cui si è attorniato il Palazzo, come Mounir Majidi (consigliere del re, detentore del secondo polo economico-finanziario del paese dopo quello dello stesso sovrano), Fouad Ali El Himma (ex consigliere del re, fondatore del primo partito presente in parlamento e detentore di una delle più importanti società finanziarie del paese) e Hassan Bouhemou (amministratore della holding reale). In ultimo, vogliamo la fine del circuito moqaddem-shaykh-wali-amir, vale a dire la fine delle strutture di quel controllo politico verticale che fa capo al Palazzo e che costituisce l’ossatura del makhzen. Tutti i centri di amministrazione territoriale, dal quartiere alla regione, dovranno essere eletti e non più nominati da un ministro di sovranità reale (Interno).
Per essere più chiaro, il Movimento 20 febbraio aspira ad un cambiamento del sistema e dei suoi ingranaggi, non solo dello strato che affiora in superficie. Quanto promesso da Mohammed VI, vale a dire il ritocco della costituzione e nuove elezioni in autunno, va nella seconda direzione e risponde ad una chiara esigenza di conservazione e perpetuazione del regime in atto.
Il movimento ha respinto le “aperture” del re e va avanti sul suo cammino. Se si escludono quindi la nomina di una commissione reale per la riforma della costituzione e la liberazione dei detenuti politici, qual è a suo avviso la vittoria più importante ottenuta dal “20 febbraio”?
Aver ridato coscienza ai marocchini di cosa significa essere cittadini e non più sudditi. Aver sfatato tabù e linee rosse, come mettere in discussione la parola del re. Aver dato diritto di parola, con le nostre azioni e la nostra costante presenza nelle piazze, a chi fino ad ora non l’ha mai avuto. Mi riferisco per esempio ai pensionati dell’esercito, delle forze ausiliarie, che dopo le prime mobilitazioni del “20 febbraio”, hanno manifestato per denunciare le precarie condizioni di vita e per chiedere l’aumento delle pensioni (il 25% dello stipendio). Fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. La gente non a più paura a reclamare quello che gli spetta, quello a cui ha rinunciato in silenzio fino ad ora. Il muro della paura è crollato (come ha scritto il giornalista Ahmed Benchemsi sulle colonne di Le Monde), è questa la principale vittoria ottenuta fino ad ora dal movimento. Il popolo ha capito finalmente ciò che diceva il maestro Bob Dylan in una sua celebre canzone: “when you have nothing, you have nothing to lose”. La maggioranza dei marocchini non ha niente da perdere ed è arrivato il momento di dimostrarlo.
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