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sabato 7 maggio 2011

Abdelhak Serhane: “avete detto primavera marocchina?”

Scrittore e intellettuale di fama internazionale, Abdelhak Serhane torna a parlare della contestazione popolare che si è propagata in Marocco in seguito agli appelli lanciati dal Movimento 20 febbraio. Serhane, dopo la Lettera aperta a Mohammed VI, ribadisce la necessità di un cambiamento radicale nel paese, invita la popolazione a portare fino in fondo la sua rivoluzione, a chiudere i conti con un regime totalitario e a compiere finalmente "una decolonizzazione in ritardo di cinquant'anni". Di seguito la traduzione dell'articolo pubblicato dal settimanale marocchino TelQuel (n. 470, dal 23 al 29 aprile).


La manifestazione nazionale del 20 marzo in Marocco è un evento storico. Oltre ad aver espresso le attese e le volontà della massa cittadina, ha dato il via ad una decolonizzazione in ritardo di cinquant’anni. L’indipendenza, raggiunta nel 1956, è stata confiscata ai marocchini dall’“hizb istiqlal” (il “partito dell’indipendenza”, ndt) a tutto vantaggio del trono alawita, in seguito ad una cospirazione tra i notabili del Marocco ed il protettorato francese. Privato della sua vittoria, il popolo è stato consegnato, mani e piedi legati, ad una monarchia assoluta, che ha inaugurato l’era mostruosamente triviale del neocolonialismo makhzeniano (makhzen= l’insieme delle strutture, formali e non, di un regime tentacolare che ha il suo vertice nel palazzo reale, ndt). Ma il popolo, rimasto a lungo asservito, privato della sua virilità dal sistema in atto, ha rialzato la testa ed ora invoca a gran voce “una vera indipendenza per il Marocco”.
Il risveglio popolare, vale a dire la primavera marocchina cominciata il 20 febbraio, ha assunto una connotazione didattica, sociale e politica senza precedenti. Uomini, donne e bambini, appartenenti a svariate categorie di una società sofferente, hanno sfilato con dignità, dando al regime, ai partiti politici ed ai sindacati una lezione di maturità, di responsabilità, di organizzazione e di disciplina, schierandosi a difesa dei negozi e canalizzando la marcia. Tutto si è svolto nella calma poiché il makhzen, contrariamente alle sue cattive abitudini, non ha sciolto i suoi picchiatori per stroncare il movimento né i suoi abili casseurs per discreditare la contestazione. Le cose essenziali sono state dette e ripetute, in modo chiaro e civile. Quel giorno ho visto, letto ed ascoltato centinaia di slogan, uno più emblematico dell’altro. “Cacciamo il makhzen per un Marocco libero; no al makhzen no al dispotismo!”, la sintesi della volontà avanguardista di un popolo che esprime apertamente il suo rifiuto all’arbitrio e alla tirannia del sistema attuale.

Manifestazione del Movimento 20 febbraio a Casablanca (3 aprile 2011)

L’esempio Youssoufi
In occasione dell’incontro internazionale sul “Cinquantenario della Repubblica del Rif”, organizzato dalla Maison du Maroc a Parigi (18-20 gennaio 1973), Abderrahman Youssoufi aveva spiegato che “la chiave di volta del paradigma makhzeniano è il sultano, sovrano per ereditarietà dinastica, la cui ascesa al trono è accompagnata da un giuramento di obbedienza-fedeltà alla quale partecipano i dignitari, servilmente addomesticati. Questa cerimonia è l’emblema di un potere assoluto, aggravato dal presunto ruolo di “rappresentante di Dio in terra”, forgiato e trasmesso da generazioni di despoti orientali, ma che non poggia, di fatto, su nessun fondamento religioso o legale..”.
Divenuto primo ministro (nel 1998, ndt), l’ex oppositore Youssoufi si è prestato due volte a questo “giuramento di obbedienza-fedeltà” alla testa del suo governo, dei responsabili politici e militari, e dei dignitari marocchini “servilmente addomesticati”. Una prima volta sotto il regno di Hassan II e una seconda volta all’incoronazione di Mohammed VI, giurando lealtà a quello stesso makhzen che considerava un insieme di “elementi generalmente reclutati tra i notabili rurali e urbani, con la caratteristica permanente di essere corrotti”. Lo stesso Youssoufi aveva più volte dichiarato che il capo dello Stato non doveva essere “né sacro, né irresponsabile (nel senso di una sovranità separata dalla responsabilità, ndt), né ereditario, ma imputabile degli errori commessi, scrupoloso delle osservazioni della comunità e pronto in ogni momento ad essere privato delle sue funzioni”.
In venticinque anni l’uomo dai saldi principi, vista l’età affetto di sicuro da amnesia, o più semplicemente cosciente che avrebbe perso l’ultimo treno per il potere, ha accettato di compromettersi con il suo nemico di sempre, acconsentendo all’offesa suprema di scendere a patti con un Driss Basri (per vent’anni l’uomo forte del regime, ndt) ancora alla testa del Ministero dell’Interno.
Questo esempio pietoso è ancora fresco nella memoria dei miei concittadini, tanto da spingerli a gridare dégage! (“vattene!”) ad un makhzen deprecabile che stritola i nostri valori, inquina lo Stato di diritto, si fa beffe della coscienza politica e imprigiona un popolo intero nella violenza della sua nevrosi.

Cosa vuole la borghesia
Gran parte della media borghesia arrivista di Rabat trema di paura di fronte al grido massiccio del popolo che rivendica riforme globali. Penosa sul piano del giudizio politico, meschina dal punto di vista intellettuale, si augura che le cose rimangano come sono, in nome di una pseudo-stabilità sociale che poggia su argomenti quali il pericolo fondamentalista, la minaccia terrorista, il rischio separatista e la possibilità di veder riemergere vecchie ostilità tribali (fra l’altro, le stesse ostilità tuttora presenti nell’élite politico-economica dominante, ndt). Alla vigilia di ogni manifestazione fa scorta di generi alimentari per prepararsi ad un eventuale “stato di emergenza”, poi si barrica nei suoi ricchi quartieri fino all’indomani. Potrà forse un giorno dotarsi di un briciolo di coraggio, di un pizzico di moralità o di un granello d’onore proprio lei, che ogni anno non esita ad elemosinare inviti VIP per il festival Mawazine (festival internazionale “musica del mondo”, organizzato dal consigliere particolare del re Mounir Majidi, tra i bersagli privilegiati dal Movimento 20 febbraio, ndt)?
Quanto all’oligarchia affarista di Casablanca, avendo essa subito le conseguenze di una concorrenza sleale dovuta al monopolio reale sul settore della finanza e dell’economia, è globalmente favorevole al cambiamento, ma spera che la transizione avvenga senza traumi. Pur non schierandosi ancora apertamente con il movimento, osserva con attenzione, contabilizza i rischi, valuta i rapporti di forze e temporeggia, aspettando il momento propizio per voltare gabbana. Questa borghesia non supporta dichiaratamente la piazza, né si erge a difesa del potere costituito, se ne sta semplicemente là dove si trovano i suoi interessi.

Manifestazione del Movimento 20 febbraio a Casablanca (3 aprile 2011)

“Istintivamente votato a sconvolgere”
Casta decadente, la plutocrazia di Rabat è costituita, per la maggior parte, da una burocrazia immersa nella corruzione e nel clientelismo. La plutocrazia di Casablanca, quanto a lei, nuota nei sordidi traffici dei suoi affari. Entrambe si confondono in una opulenza del tutto incoerente e nell’ostentazione di una vana soddisfazione. Non hanno forse capito che la rivoluzione è irreversibile? Hanno ragione ad avere paura, dal momento che si sono accaparrate la protezione di un makhzen di cui hanno ereditato la vanità.
Seguendo l’esempio di Franz Fanon, “io definisco società borghese ogni società che si fossilizza in forme determinate, impedendo qualsiasi evoluzione, cammino, progresso o scoperta. Io chiamo società borghese una società chiusa, dove non si pensa al benessere collettivo, dove l’aria si fa irrespirabile, dove le idee e le persone vivono in uno stato di putrefazione. Io credo che un uomo, nel prendere posizione contro questa morte, possa essere considerato un rivoluzionario”. Lo so. Ho dato prova costantemente della mia resistenza e della mia insubordinazione. Non sono mai stato un cortigiano, né un politico, né ho mai piegato la schiena. Non aspetto che l’ora sia propizia, né che l’occasione sia favorevole per chiedere giustizia. La reclamo da sempre, ostinatamente, con voce ben scandita, soprattutto quando farlo è pericoloso e gli altri indugiano o tacciono. Hai fegato, mi dicono alcuni, ma io rispondo: no! E’ il mio destino, il mio dovere di scrittore e di cittadino.
“L’uomo veramente libero – scrive Manuel Gonzalez Prada – scaglia il suo pensiero nella sua integrità più cruda, senza la preoccupazione di colpire gli interessi delle classi possidenti né di provocare la collera delle bande di ignoranti e fanatici”. E, come Tennessee William, “sono istintivamente votato a sconvolgere. Penso sia utile. Bisogna pur colpirli in qualche modo”. Arrivista, la borghesia di Rabat incarna la middle class colpevole di compromesso, mentre quella di Casablanca simbolizza l’orda di una nuova classe di corrotti in ascesa. Chiamate in causa, né l’una né l’altra hanno il coraggio e la lucidità di prendere in considerazione la loro vera essenza, al fine di essere al passo con la storia e di sostenere il diritto del popolo alla dignità e alla libertà.

Nessun 10 aprile, hamdoullah
La mobilitazione prevista per il 10 aprile a sostegno del re non ha più avuto luogo. Sarebbe stata l’ennesima parata aleatoria che non ha preservato nessun capo di Stato arabo dall’andare in contro al suo destino. A parte gli agenti del makhzen e qualche impostore, chi se la sentirebbe di incoraggiare l’arcaismo, la regressione e la negazione del diritto? Una messa in scena folklorica, a cui il sistema è abituato da tempo per preservarsi, che avrebbe ottenuto il solo risultato di mettere definitivamente in discussione Mohammed VI, negandogli la legittimità che gli è ancora attribuita (il movimento accetta ancora la presenza del sovrano, pur privato del suo attuale monopolio dei poteri, ndt) e mettendolo al centro di un braccio di ferro pericoloso. Questa esibizione mancata, o solo posticipata, avrebbe significato che la monarchia non ha tratto nessuna lezione dai sollevamenti arabi né dagli sconvolgimenti che animano la regione. Avrebbe indicato che il re, contrariamente a come viene presentato, si oppone alla democratizzazione del paese e che la sua riforma costituzionale sarebbe, nel migliore dei casi, solo fumo negli occhi. A corto termine questo gioco può ricadere sulla sua testa, poiché qualsiasi riflessione arriverebbe a collocarlo in una zona di turbolenza che non gli è favorevole.
Coloro che si oppongono alle riforme vorrebbero così giocare al rilancio. In questo caso, la folla che grida degage! all’articolo 19 della costituzione non esiterà ad intonare nuovi slogan ancor più ostili. Il confronto re/popolo diventerà allora inevitabilmente devastante. Il Movimento 20 febbraio rivendica il cambiamento in nome della giustizia sociale, della libertà e dell’uguaglianza. Mi sembra insensato non essere solidale con il trionfo della dignità, contro tutte le forme di oppressione e di alienazione. Come è indecente glorificare gli oppressori ed esaltare questo neo-feudalesimo che coltiva prebende e corruzione, che mantiene disuguaglianza e ingiustizie sociali, che incita alla malversazione e alla frode, che imbavaglia le nostre libertà, che strozza il nostro slancio democratico e poi si comporta da signore assoluto in questo Marocco che è nostro, prima di essere dei predatori. Fino a nuovo ordine il movimento non si scaglia contro il re in persona, ma contro le derive del suo sistema totalitario e arcaico, che cerca di resistere ad ogni prospettiva egualitaria. Coloro che sconfessano il movimento nutrono velleità schiaviste latenti o propensioni patologiche alla servitù.

Manifestazione del Movimento 20 febbraio a Casablanca (3 aprile 2011)

“Vili e codardi”
Il mondo arabo è a ferro e fuoco. La storia è in marcia verso una ri/e-voluzione ineluttabile, ci troviamo alla fine di un’epoca. Un’epoca dove non c’è più posto per l’assolutismo del Principe, il dominio del Presidente o l’egemonia del Clan. L’eccezione marocchina è un’illusione e un inganno, che i feudatari di casa nostra brandiscono come un feticcio medievale ogni volta che si levano voci per rivendicare diritti e libertà. La collera delle masse è legittima di fronte all’ingiustizia, alla miseria, al disprezzo e all’ignoranza. La situazione è grave e il re, da parte sua, avrebbe dovuto almeno sbarazzarsi della tribù El Fassi, Abbas in testa (il cui partito ha vinto le elezioni 2007, quando solo il 37% degli aventi diritto si è recata a votare) e di tutti quei servitori che pregiudicano il futuro del Marocco… Ma non l’ha fatto. Un errore, o forse una svista, chi lo sa. Se sta cercando di guadagnare tempo, sappia che in verità il tempo gioca contro di lui. Le circostanze necessitano di soluzioni urgenti e di risposte concrete alle aspirazioni della gente. Giugno è lontano (a giugno è atteso il rapporto della commissione reale per la modifica della costituzione, ndt) e fino ad allora molte cose possono succedere. La partita si sta giocando adesso. Se il sovrano conta su una perdita di slancio resterà deluso e si troverà di fronte a nuove iniziative, più determinate e forse violente. Le rivoluzioni diffondono dappertutto il loro vento di libertà, incendiano velocemente i paesi e fanno vacillare despoti e petro-tiranni, la cui durata sarà sempre più corta. D’ora in poi saranno scacciati non da Dio, ma dal risveglio di giovani assetati di dignità e nutriti con le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
La revisione della costituzione non deve limitarsi alla semplice nomina di un primo ministro uscito dalle urne (e non più scelto dal re). Furfanti completamente assoggettati al Palazzo e sconfessati dalla popolazione, i responsabili politici non possono essere i garanti della nostra democrazia. Supponiamo che l’USFP (Unione socialista delle forze popolari) arrivi in testa alle prossime elezioni; un Radi (segretario del partito socialista, ndt) makhzenizzato ad oltranza e addomesticato a volontà, potrà assicurare lo Stato di diritto? Negli anni ottanta, alcuni parlamentari socialisti avevano minacciato di dare le dimissioni per protestare contro la condanna di tre compagni di partito (Bouabid, Elyazghi e Lahbabi). Di fronte alle minacce del re, l’USFP rientrò nei ranghi e Radi, allora presidente del gruppo parlamentare, disse ai suoi compagni: “potete filosofeggiare quanto volete (…). La verità è questa: siamo dei codardi e dei vili, abbiamo avuto paura di Hassan II”. All’incirca tre decenni più tardi sono rimasti gli stessi codardi, oggi ancor più vili di ieri, ma con il potere di decidere il nostro destino su pretesto di una semplice spolverata alla costituzione. La piazza si aspetta una vera transizione democratica. Questi politicanti incarnano invece tutto ciò che ci disgusta e ci rivolta.

No alle vie di mezzo
La nuova costituzione non deve essere un abito d’occasione confezionato su misura per Mohammed VI. Siamo favorevoli alla sua riforma, se risponderà ai valori in cui crediamo: valorizzazione del cittadino, uguaglianza di possibilità, potenziamento del sistema educativo, ripartizione equa delle ricchezze, separazione del potere religioso da quello politico, giustizia indipendente, sovranità popolare e responsabilità degli eletti di fronte al popolo, rispetto delle leggi e dei diritti… Non ci accontenteremo più dei gesti simbolici a cui i monarchi alawiti ci hanno abituato nella storia recente; niente più briciole, non siamo piccioni. D’ora in poi ci rifiuteremo di accontentarci di un po’ di libertà, di una democrazia somministrata a dosi omeopatiche, di una sfumatura di berberità, di un ritocchino alla costituzione o di una riformetta della giustizia e dell’educazione…
Non ci sono mezze misure. O si arriverà alla democrazia o si resterà nella tirannia. La piazza ha parlato chiaro e la sua condanna delle odiose pratiche del makhzen è senza appello. Nessuno sconto a chi turba la nostra coscienza e a chi sovverte il nostro quotidiano. No al clientelismo, al clanisme, al favoritismo, all’impunità, alla dilapidazione delle risorse pubbliche, alla corruzione, all’ingiustizia, alla povertà e al disprezzo delle classi sociali più basse…
Si dice che il re si accontenti di dar spazio ai suoi vecchi compagni di classe perché sono le uniche persone che conosce e perché non ci sarebbero più dei veri Uomini in Marocco. Pregiudizi e voci ridicole. I burattini di sua maestà non sono né migliori né più meritevoli dei giovani manifestanti che rivendicano ogni giorno il loro diritto alla dignità. Questi Uomini e queste Donne esistono. Anonimi e numerosi, governeranno domani un Marocco che gli appartiene. Inevitabilmente. Animati dalla volontà di (ri)costruire un nuovo Marocco. E se questo povero paese, dissanguato dagli sterminatori, ha bisogno dei suoi figli, il re dovrà sacrificare i suoi compagni per permettere ai marocchini di tutto il mondo di integrare un sistema non più feudale, basato sulle regole condivise e riconosciute della democrazia.
“Torna!”, mi suggerisce ultimamente qualche amico. La struttura patologica del regime non lo permette, gli rispondo. I posti e gli incarichi continuano ad essere riservati alle Famiglie, agli Amici, ai Sottomessi… Un’orda di valletti corrotti e invertebrati, facilmente dominabili e manipolabili da parte di una monarchia di cui sono servitori zelanti e profittatori indecenti. Come molti altri, ho bisogno di lavorare per vivere e di vivere con dignità. Siamo in tanti ad aver lasciato il Marocco a causa della discrepanza tra il makhzen e lo Stato di diritto.

Non ci illuderemo
Che la Francia imperialista taccia! Il discorso del sovrano (9 marzo 2011) non è né coraggioso né rivoluzionario. Nel migliore dei casi è una risposta inevitabile e congiunturale, dettata dalle pressioni della piazza. “L’ha fatto!”, titolava vittoriosamente TelQuel nella copertina del n. 464. Fatto cosa? Nessuna parola, da parte sua, sulle rivendicazioni popolari: l’avidità economica della corte, l’affarismo insolente della sua cerchia, l’impunità degli intoccabili (Majidi, El Himma..). Niente sulla lotta contro la corruzione, gli equilibri sociali, la redistribuzione delle ricchezze, l’indipendenza di una giustizia malata di assoggettamento al Palazzo, la legge sui partiti, il codice della stampa. Non ci illuderemo. Rinchiuso fin dalla nascita nella paranoia del totalitarismo, il sovrano non cederà gran ché delle sue prerogative. Non può barattare così velocemente la sua monarchia assoluta di diritto divino con una democrazia effettiva, senza sancire la sua stessa scomparsa. Lui lo sa. Il monopolio dei poteri religiosi, politici, economici e militari che ha accumulato, lasciano poco spazio ad una presa di coscienza dialettica che risponda agli imperativi della Storia. Tanto che, dopo l’annuncio delle riforme tra cui “l’allargamento delle libertà pubbliche”, un sit-in pacifico di fronte alla sede del PSU (Partito socialista unificato, una delle rare formazioni politiche che ha aderito fin da subito alle rivendicazioni del 20 febbraio, ndt) è represso con violenza dagli ingranaggi del suo sistema, rendendo subito aleatorie le sue promesse.

Mnifestazione del Movimento 20 febbraio a Casablanca (3 aprile 2011)

Fine della schiavitù
Non è un processo alle intenzioni. Quattro re sono bastati alla delusione dei miei sessant’anni. Già nel XVII secolo, Etienne di Boezia scriveva questa verità essenziale: “chi nasce re non è intrinsecamente migliore. Nato e cresciuto in seno alla tirannia, succhia assieme al latte l’essenza del tiranno, guarda al popolo che gli è sottomesso come la sua servitù ereditaria e, secondo la propensione a cui è più incline, avaro o prodigo, si serve del regno come della sua personale eredità”. Di conseguenza, la casta degli intoccabili serrerà i ranghi attorno al potere fino all’ultimo, per continuare a dirottare i nostri miliardi a suo beneficio. Sono loro al corrente che con la primavera araba non ci saranno più né specificità né eccezioni? Tutti i tiranni vengono scherniti, ciascuno a suo turno, insultati, detronizzati, scacciati come paria, i loro averi congelati e loro stessi giudicati per le violazioni commesse contro i rispettivi paesi. Nulla ci sarà dato e nulla otterremo senza sforzo né sacrificio. Dunque, esprimiamo ad alta voce il nostro rifiuto! Resistiamo! Scandiamo ad alta voce i nostri slogan! Indigniamoci e marciamo contro il dispotismo, per meritare lo Stato di diritto che sogniamo. Questo solo grido, “abbasso la dittatura!”, basterà a spiegare la nostra battaglia.
Le sfide che attendono il Marocco sono quelle di una vera decolonizzazione. Non riguardano solo la scelta del tipo di società e di sviluppo, ma toccano anche la geopolitica regionale, che deve tener conto delle aspirazioni di coloro che cercano di divenire attori del proprio destino. Ne va della nostra sopravvivenza se vogliamo essere cittadini e non sudditi di un regime ingiusto, che ha ormai fatto il suo tempo oltre che uno sporco lavoro, spezzando la schiena di uomini fieri, sgretolando le nostre certezze ed anestetizzando i nostri sogni. Questo sistema obsoleto non deve più esistere. Noi reclamiamo un Marocco moderno, sinceramente democratico, dove il bene della nazione dovrà essere il solo principio di governo.
“Non siamo schiavi!”, affermano i marocchini che si liberano a poco a poco dal giogo dei filibustieri del makhzen. Il 20 febbraio 2011 ha così segnato l’inizio di un’azione insurrezionale, volta alla riappropriazione della coscienza di popolo e ad una decolonizzazione pacifica.

Abdelhak Serhane, scrittore marocchino in lingua francese, è stato professore di Letteratura moderna all'Université Ibn Tofaïl di Kénitra, prima di lasciare il paese e trasferirsi in Canada (ora insegna Letteratura francese alla University of Louisiana). Considerato un oppositore virulento al regime di Hassan II, Serhane non ha mai smesso di denunciare la violenza e la corruzione che caratterizzano il sistema politico marocchino. Di seguito una rapida bibliografia di riferimento.


Romanzi
Messaouda, Paris, Seuil, 1983
Les Enfants des rues étroites, Paris, Seuil, 1986
Le Soleil des obscurs, Paris, Seuil, 1992
Le Deuil des chiens, Paris, Seuil, 1998
Temps noirs, Paris, Seuil, 2002
L'homme qui descend des montagnes, Paris, Seuil, 2009

Poesie
L'Ivre poème, Rabat, Al Kalum, 1989
Chant d'ortie, Paris, L'Harmattan, 1993
La Nuit du secret, France, Atelier des Grames, 1992

Racconti
Les Prolétaires de la haine, (raccolta), Paris, Publisud, 1995
"Le Vélo Montréal", in Anthologie de la nouvelle maghrébine, Casablanca, Eddif, 1996
"J'écris pour le soleil", in Actes du Colloque de Montpellier, 1985
"Les mots de la douleur", in Oualili, Meknès, 1986
"La Femme : un destin périmé", in Lamalif, Casablanca, 1986
"L'Artisan du rêve", in Visions du Maghreb, Montpellier, Edisud, 1987
"Le Corpstexte", in Horizons maghrébins, Toulouse, 1987
"Un Pays aux couleurs de son temps", in Librement, Casablanca, 1988
"Le Destin des pierres", in Autrement, Paris, 1990
"L'artisan du rêve", in ClicNet, 1997

Saggi
L'Amour circoncis, Casablanca, Eddif, 1996
Le Massacre de la tribu, Casablanca, Eddif, 1997

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