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domenica 15 maggio 2011

Riflessioni su Marrakech


Marrakech, piazza Jamaa al Fna



Incipit: dove eravamo rimasti o meglio dove siamo arrivati

20 febbraio 2011: sulla scia dei sollevamenti avvenuti in Tunisia, Egitto e Libia, un gruppo di giovani sconosciuti marocchini lancia (attraverso Facebook) una giornata di protesta nazionale contro il regime assoluto di Mohammed VI, l’inefficacia di un governo prono all’autorità reale e agli interessi economici della sua corte (a cui partecipa con profitto) e il saccheggio delle ricchezze nazionali operato dagli amici di Palazzo. Le rivendicazioni sono chiare: “recupero della dignità negata”, “via la costituzione degli schiavi e redazione di una nuova carta democratica che garantisca la piena sovranità popolare”, “passaggio immediato ad una monarchia parlamentare: il sovrano regna ma non governa”. Riforme, le hanno chiamate gli eminenti corrispondenti esteri (pochi in realtà) e gli approfittatori locali. Ma per un “sistema arcaico, corrotto e clientelare” come quello marocchino è ben più che una rivoluzione. La giornata di protesta ha successo, nonostante gli scontri con la polizia e le decine di arresti registrati nel nord (5 morti ad Al Hoceima): circa 300 mila persone manifestano in tutto il territorio nazionale. Il movimento (già ribattezzato “20 febbraio”) è riuscito a coinvolgere la società civile e a raggiungere il cuore del Marocco profondo e inutile (le regioni e i villaggi più marginalizzati).

9 marzo 2011: il sovrano Mohammed VI, in un discorso alla nazione, annuncia la creazione di una Commissione (di sua nomina) per la riforma della costituzione “in senso democratico”. La prima concessione. Tra le priorità enunciate dallo stesso re, indipendenza della giustizia, costituzionalizzazione della lingua berbera (tamazight), autonomia regionale, riconoscimento dei diritti e delle libertà fondamentali, senza però rinunciare alle “specificità storiche del regno” (ossia agli articoli che sanciscono il potere assoluto del monarca). Niente monarchia parlamentare, niente sovranità popolare, nessun accenno alla corruzione delle élites.

13 marzo 2011: il Movimento 20 febbraio e le organizzazioni che lo sostengono (dalle associazioni per i diritti umani a quelle berbere, dalla sinistra radicale agli islamisti di Giustizia e Carità) rifiutano le concessioni del sovrano e continuano la protesta “per un cambiamento radicale”. Il sit-in organizzato a Casablanca viene brutalmente represso dalla polizia: centinaia i feriti e i manifestanti finiti in arresto (liberati dopo 24 ore). Una prima evidenza: il regime adotta il doppio linguaggio “della carota e del bastone”. Aumenta lo scetticismo con cui la popolazione aveva accolto il discorso del re. Le “aperture” promesse perdono ulteriore credibilità.

20 marzo 2011: seconda giornata di contestazione nazionale indetta dal Movimento 20 febbraio. Manifestazioni pacifiche in tutto il Marocco. La protesta acquisisce maggior ampiezza e vigore: migliaia di persone scendono in piazza tanto nelle grandi città che nei piccoli villaggi. “La democrazia è un bene universale non soggetto a sconti o eccezioni: non ci sono mezze misure, o si accetta o si rifiuta, e in tal caso si resta nell’autocrazia totalitaria a cui siamo soggetti dal raggiungimento dell’indipendenza”, questa la sintesi dell’economista Fouad Abdelmoumni, tra i volti noti che sostengono il movimento.

14 aprile 2011: Mohammed VI firma un provvedimento di grazia per 190 detenuti politici e di opinione (la maggior parte “islamisti” finiti in carcere durante la repressione seguita agli attentati di Casablanca del 16 maggio 2003 e all’approvazione della legge anti-terrorismo. Della grazia beneficiano anche gli esponenti politici di un piccolo partito islamico, attivisti saharawi e amazigh). La loro liberazione, come l’abolizione della legge anti-terrorismo, lo smantellamento della polizia politica e la chiusura del centro (segreto) di detenzione e tortura di Temara, era chiesta a gran voce dal movimento. E’ la seconda concessione del sovrano, ma la contestazione non si placa e le manifestazioni proseguono con cadenza domenicale.

24 aprile 2011: terza giornata di mobilitazione nazionale indetta dal Movimento 20 febbraio, che pochi giorni prima ha ufficialmente rifiutato l’invito della “commissione Mannouni” a partecipare ai lavori per la riforma della costituzione. Cresce ancora il volume della protesta (difficile fornire le cifre esatte, ma secondo gli organizzatori sarebbero circa 800 mila i manifestanti che hanno risposto all’appello per il cambiamento). Le immagini che arrivano da ogni angolo del paese (Casablanca, Rabat, Tangeri, Tetuan, Agadir, Al Hoceima, Errachidia…) sono inequivocabili. La piazza chiama ad una “rivoluzione urgente e legittima”. E’ questo il punto di non ritorno?

28 aprile 2011: un’esplosione al Café Argana, nella piazza Jamaa al Fna di Marrakech, provoca 17 morti ed oltre 20 feriti. Dopo aver escluso le prime indiscrezioni, secondo cui la strage sarebbe da attribuire allo scoppio di una bombola a gas, le autorità marocchine e i media (nazionali e non) convergono sulla pista del terrorismo islamico. Sia Rabat che l’Eliseo (8 francesi hanno perso la vita nell’attentato) evocano lo spettro di Al Qaida. Mohammed VI preme per un’inchiesta (a cui partecipa l’intelligence transalpina) rapida e trasparente, mentre la società civile non nasconde i suoi dubbi in merito alla direzione presa dalle indagini ufficiali e teme la ripetizione dello scenario seguito al 16 maggio 2003 (arresti di massa, detenzioni illegali, maltrattamenti e torture, processi farsa).

Il Café Argana dopo l'esplosione

“La teoria del complotto un’ipotesi plausibile”

Ad una settimana dall’esplosione (6 maggio 2011), il Ministero dell’Interno marocchino ha annunciato in un comunicato l’arresto di tre persone, “tra cui l’autore principale dell’atto terroristico”. In base al testo trasmesso ai media, i tre calzolai di Safi, di cui sono state subito diffuse le generalità e persino le fotocopie dei passaporti, sarebbero “imbevuti dell’ideologia jihadista” e avrebbero “prestato giuramento ad Al Qaida”. Sembra proprio il profilo ideale quello fornito dal Ministero (secondo cui la strategia operativa utilizzata nell’attentato “ricorda lo stile qaidista”), tanto che perfino i termini adottati già presentano i tre come colpevoli e non come sospetti in attesa di giudizio. Ma passano solo poche ore, quando è l’agenzia stampa di Nouakchott (ANI) a divulgare un altro comunicato, stavolta quello di Al Qaida in Maghreb (i cui effettivi stazionano al confine tra il deserto maliano e mauritano), che smentisce “ogni relazione con l’esplosione” e nega “qualsiasi implicazione nell’operazione”. Per colpire “ci riserviamo la possibilità di scegliere il momento e il luogo più adatto, che non siano in contraddizione con gli interessi della umma islamica e con la strategia da adottare per la sua liberazione”, conclude il messaggio riportato dall’ANI. Si direbbe una risposta secca e immediata alle insinuazioni avanzate dal governo marocchino e da quello francese, le cui dichiarazioni in realtà avevano destato più di una perplessità all’interno dei confini del regno, in cui si è subito materializzata la minaccia di un recupero strumentale della tragedia di Marrakech da parte di un regime stretto da due mesi nella morsa della contestazione popolare.
A rendere ancor meno credibile lo spauracchio del terrorismo internazionale e a dar forza ai “rumori complottisti” un altro episodio, passato pressoché inosservato agli occhi dell’opinione pubblica. Il 25 aprile 2011, tre giorni prima dell’esplosione al Café Argana, era apparso un video su YouTube dove cinque uomini dal volto coperto – autoidentificatisi come membri di AQIM – denunciavano le condizioni di detenzione “dei credenti nelle prigioni del Marocco”. L’annuncio di un’imminente ritorsione? Niente affatto, come ha spiegato l’AFP nella nota pubblicata domenica 1° maggio. Il video in questione è in realtà “l’estratto di un lungo filmato realizzato da Al Qaida in Maghreb nel maggio 2007 – un filmato di propaganda classico – e diffuso in rete nell’estate dello stesso anno”, ha riferito all’agenzia stampa francese l’esperta di terrorismo Anne Giudicelli, secondo cui la manipolazione della ripresa non sarebbe una semplice coincidenza e mostrerebbe una chiara volontà di depistare le indagini.
Tuttavia per le autorità marocchine l’inchiesta sembra già conclusa. Adil El Atmani, “l’autore principale” della strage di Marrakech, ha confessato la sua colpevolezza ed ha perfino ricostruito assieme agli inquirenti quanto avvenuto in piazza Jamaa al Fna la mattina del 28 aprile. Resta da capire come un calzolaio di 25 anni sia riuscito, da solo, a fabbricare un ordigno esplosivo e ad azionarlo a distanza con un telefono cellulare (questa la versione comunicata al momento dal Ministero dell’Interno). Resta da capire, inoltre, quale ruolo avrebbero giocato nell’attentato le altre due persone finite in arresto, Akim Dah (41 anni) e Abdessamed Bitar (28 anni), su cui finora non è stato detto nulla. Nulla, eccetto la testimonianza rilasciata il 9 maggio scorso al sito di informazione indipendente goud.ma dalla moglie di Bitar: “mio marito era in casa al momento dell’esplosione. Da settimane non lasciava la città. (…) Ho partorito la notte tra il 26 e il 27 aprile e Abdessamed è stato con me all’ospedale fino alla mattina del 28, quando mi ha portato la colazione e poi mi ha riaccompagnato a casa. (…) Come può essere implicato in un caso di terrorismo se la polizia non è nemmeno venuta a perquisire l’abitazione per vedere se c’era nascosto qualcosa?”.
Scartata la pista Al Qaida, l’affiliazione all’estremismo jihadista marocchino sembra dunque l’unica ipotesi rimasta alle autorità per spiegare l’efferatezza di un simile gesto. Ma i tre accusati, stando almeno alle dichiarazioni degli amici e dei parenti di Safi, sarebbero estranei a quella “galassia salafita” a cui Rabat aveva già attribuito in passato la responsabilità degli attentati del 16 maggio 2003 a Casablanca. In quell’occasione, approfittando di un’immediata approvazione della legge anti-terrorismo, il regime aveva condotto un’esemplare “caccia all’islamista”, che portò alla condanna di circa duemila marocchini (nella maggior parte dei casi totalmente estranei all’attentato ed alla “rete jihadista”) nel totale disprezzo delle norme detentive, delle convenzioni contro la tortura e del diritto al giusto processo (a tutt’oggi nessuna inchiesta ufficiale sui mandanti del 16 maggio e sulle misure adottate nei mesi successivi è stata resa pubblica, nonostante le richieste avanzate al governo da alcuni parlamentari e gli appelli reiterati delle ong per i diritti umani). A pagare il prezzo della legge anti-terrorismo non furono soltanto i cosiddetti “salafiti”, bensì l’intera società civile e i media indipendenti, che hanno visto compromesso, sotto la minaccia di condanne a pene decennali, quel cammino verso la libertà di espressione iniziato appena pochi anni prima.

Alcuni membri della "salafiyya" manifestano assieme al movimento contro le violazioni subite dal 2003 (Rabat, 20 marzo 2011)

Mentre restano ancora oscure le motivazioni e gli obiettivi che avrebbero spinto i tre abitanti di Safi a compiere un atto “troppo stupido e cattivo” (la definizione è di Nadia Yassine, icona dell’associazione islamica Giustizia e Carità), l’ipotesi di un coinvolgimento della salafiyya jihadiyya (etichetta che le autorità marocchine utilizzano per identificare il fondamentalismo islamico diffuso nel paese con il ritorno dei reduci “afghani”) nell’attentato di Marrakech sembra improbabile almeno per tre ragioni. Anzitutto è difficile immaginare come i seguaci di un gruppo (per quanto eterogeneo e privo di una vera strutturazione), da sette anni al centro delle “attenzioni” della polizia politica (DST) e dei servizi marocchini e internazionali, siano riusciti ad eludere il controllo capillare (spostamenti, telefoni, accessi internet…) a cui sono sottoposti (senza contare poi che la maggior parte è tuttora rinchiusa nelle prigioni del regno). In secondo luogo, è difficile spiegare perché la salafiyya avrebbe dovuto manifestarsi con tanta violenza in un contesto divenutole sempre più favorevole. Grazie alle pressioni del Movimento 20 febbraio, infatti, le violazioni subite l’indomani del 16 maggio 2003, le detenzioni illegali, le torture nel centro segreto di Temara, i processi farsa (la documentazione è disponibile nei siti dell’AMDH, di Amnesty International, di Human Rights Watch e della FIDH) sono tornati all’ordine del giorno. Le rivendicazioni democratiche, tra cui la richiesta di una giustizia equa e indipendente, la chiusura di Temara e l’abrogazione della legge anti-terrorismo, hanno trovato seguito in ampi strati della popolazione che ha solidarizzato con la causa dei detenuti islamici, spingendo così il sovrano al provvedimento di grazia firmato il 14 aprile scorso. Perché allora prestarsi al gioco di chi vuole arginare una contestazione popolare che chiede il rispetto di quelle libertà e quei diritti di cui gli stessi salafiti sono stati privati? No, la salafiyya ha tutto da perdere dall’attentato di Marrakech, come hanno ricordato alcuni dei suoi esponenti condannando l’episodio (condanna a cui si sono unite tutte le organizzazioni islamiche presenti nel territorio marocchino, dal Partito della Giustizia e dello Sviluppo all’associazione semi-clandestina Giustizia e Carità). In ultimo, a voler credere alle affermazioni secondo cui l’esplosione a Jamaa al-Fna sarebbe un monito e una punizione nei confronti di un sistema eccessivamente proiettato sull’immagine dell’Occidente, c’è da chiedersi perché la furia estremista si sia scagliata contro un luogo tutto sommato discreto, dove turisti e marocchini insieme si abbandonano al piacere probabilmente eccessivo di un tè alla menta, rinunciando a bersagli ben più emblematici come le discoteche e i lounge bar della stessa Marrakech, il Club Med a pochi passi dall’Argana, o i casinò disseminati lungo la costa da Agadir a El Jadida.
Sembra proprio che qualcosa che non torni… Allora, per provare a capire meglio quanto successo lo scorso 28 aprile (e quello che seguirà nei prossimi mesi), è forse necessario ripercorrere gli eventi in prospettiva storica, mettendoli in fila uno per uno.
Nonostante il regime ferreo imposto al paese dal vecchio re Hassan II (o magari proprio per questo), il Marocco ha vissuto nel suo passato recente (post-indipendenza) non pochi tentativi di sollevamento e episodi di rivolta. A cominciare dall’insurrezione nel Rif del 1957-’58, passando poi per le manifestazioni di massa nel 1965 a Casablanca, fino ai due colpi di Stato militari, entrambi falliti, nel 1971 e nel 1972, e alla guerriglia marxista nel Medio Atlante rapidamente soffocata nel 1973, ai tumulti sindacali negli anni ottanta, e infine alle rivolte di villaggio registrate nell’ultimo decennio, tra cui la più celebre resta quella del giugno 2008 a Sidi Ifni. Non è solo il contagio della “primavera araba”, dunque, ad aver spinto migliaia di marocchini a scendere in piazza negli ultimi due mesi, ma anche una lunga e radicata storia di militanza politica, sindacale e infine civile (essendo ormai i vecchi partiti di opposizione e i sindacati ingranaggi di un sistema totalitario a facciata pluralista). Tuttavia, mentre in passato il makhzen ha avuto gioco facile nel gestire o sedare sommosse circoscritte e velleità rivoluzionarie dal sapore elitario, la coesione e l’ampiezza (sociale e geografica) delle mobilitazioni promosse dal Movimento 20 febbraio sembra aver preso alla sprovvista un regime fin troppo fiducioso nell’“eccezione marocchina”, propagandata a tamburo battente dai media nazionali dopo la fuga di Ben Ali e l’inizio delle proteste in Egitto.

Manifestazione a Casablanca, 24 aprile 2011

In tutte le città del paese, da oltre due mesi, le manifestazioni procedono a ritmo incessante, domenica dopo domenica. Per le strade di Rabat, i diplomés-chomeurs danno “battaglia” nei giorni feriali (nonostante il livello di alfabetizzazione sia ancora basso nel paese, circa il 60% dei laureati sono disoccupati). 20 febbraio, 20 marzo, 24 aprile, la contestazione (pacifica) ha acquisito forza e consapevolezza di settimana in settimana, raggiungendo i quartieri popolari delle grandi metropoli e i villaggi sperduti delle regioni interne, mentre le autorità, dopo gli sbandamenti repressivi della prima ora, hanno rinunciato all’uso della forza per evitare di fornire nuova linfa al malcontento popolare. A nulla sono valse le “aperture” e le riforme promesse da Mohammed VI il 9 marzo. Il movimento ha rifiutato la commissione reale per la modifica della costituzione e il popolo l’ha seguito. Una prima assoluta per il Marocco post-coloniale. Una minaccia incredibilmente seria per chi da decenni conserva indisturbato il monopolio della vita politica e delle risorse economiche.
“Il movimento democratico è riuscito a sconvolgere il contesto politico come mai prima d’ora e gli attori principali del regime sono sottoposti a pressioni senza precedenti nella storia del paese. I centri nevralgici che gestiscono il potere hanno tutto da perdere dal concretizzarsi del cambiamento”, dichiarava Mohamed Fadil Redouane (specialista di islam in Marocco e ricercatore alla Sorbonne) a Le Monde des religions l’indomani dell’attentato, ribadendo la scarsa credibilità della pista islamica. Secondo Redouane, “la teoria del complotto” in merito all’esplosione di Marrakech sarebbe dunque “un’ipotesi plausibile”. Nessuna prova, solo la lucida considerazione degli eventi. Un tentativo di diffondere la paura nel paese, un’occasione per il makhzen di riaffermarsi come unico garante della stabilità, paladino della difesa nazionale (vedi Mubarak e i copti egiziani o Bashir Assad nel caso dei cristiani di Siria).  La circostanza è fin troppo ghiotta per frenare una “primavera marocchina” sempre più scomoda. “Il paese non cederà al ricatto del terrorismo e proseguirà sul cammino delle riforme”, hanno ripetuto instancabilmente i rappresentanti del governo. Ma di quali riforme si parla? Dei ritocchi alla costituzione promessi dal re e applauditi fedelmente dalla classe politica o delle rivendicazioni di un popolo deciso ad imboccare la strada della modernità attraverso la porta del diritto e della democrazia?

Il Movimento 20 febbraio manifesta a Marrakech "per la democrazia e contro tutti i terrorismi" (8 maggio 2011)

Domenica 8 maggio il Movimento 20 febbraio è sceso in piazza a Marrakech (oltre a Casablanca, Tangeri, Meknes, Al Hoceima…) per commemorare i morti di Jamaa al Fna. Migliaia di persone hanno marciato lungo le strade della città rossa, sfidando i 40° di una giornata torrida e le provocazioni dei piccoli gruppi di baltaguia disseminati lungo il percorso, che hanno accolto il corteo al grido di “viva il re e abbasso il popolo”. “Né salafiti né wahhabiti, è il makhzen il terrorista!”, “chi ha fatto esplodere l’Argana è con loro, non con noi”, questi alcuni degli slogan scanditi dai manifestanti giunti di fronte ai resti del Café sventrato dalla detonazione. Il messaggio è chiaro, come testimonia Nizar Bennamate (portavoce dei giovani dissidenti): “non ci fermeremo né di fronte alle bombe né di fronte alle promesse di un regime che ha ormai perso la sua credibilità. Al contrario, intensificheremo le nostre azioni di protesta”. Tuttavia, tra gli attivisti del movimento aleggia più che mai il timore di un ritorno al clima repressivo seguito al 16 maggio 2003. Una repressione rivolta non solo agli estremisti islamici, ma agli stessi sostenitori del cambiamento. L’ipotesi, a due settimane dall’attentato, ha trovato purtroppo le più inquietanti conferme.

Il Movimento 20 febbraio di fronte alle rovine del Café Argana (8 maggio 2011)

Rabat ha approfittato del momento per rompere la “tregua” concessa alle contestazioni dopo il passo falso del 13 marzo a Casablanca. A meno di due mesi dall’ultimo grave episodio di violenza, le forze dell’ordine hanno rispolverato manette e manganelli, mentre la macchina mediatica del regime ha ripreso a gettare fango sul “20 febbraio”. “I nostri ragazzi sono schiacciati nella morsa d’acciaio strettagli attorno dagli integralisti islamici (Giustizia e Carità) e dai membri della sinistra radicale (La Via Democratica)”, è l’analisi di Aujourd’hui le Maroc (n. 2432, 12-15 maggio 2011), che assieme al resto della stampa cortigiana non esita a dipingere il Movimento 20 febbraio come un insieme di “burattini” ormai proni ai disegni politici del sovversivo shaykh Yassine. I giovani rivoluzionari, le speranze di un Marocco nuovo sono così diventate un pericolo per la nazione. E’ il via libera all’escalation. Per il regno alawita, un brusco ritorno al passato.
Il primo intervento già l’8 maggio scorso, quando gli agenti anti-sommossa hanno disperso con la forza il sit-in di fronte al tribunale di Marrakech organizzato dai manifestanti al termine della marcia “contro il terrorismo” (per chiedere la liberazione degli attivisti in carcere dai primi giorni della protesta). Otto persone sono finite in arresto, una ventina i feriti. Il 12 maggio è stata la volta di Khouribga, “la città dei fosfati” (80 km da Casablanca), dove la polizia non si è fatta scrupolo di reprimere i lavoratori in corteo, innescando la reazione degli abitanti. Da tre giorni la città è in stato d’assedio, gli scontri continuano e i feriti si contano a decine da entrambe le parti. L’ultima notizia, invece, è di poche ore fa. Questa mattina (15 maggio 2011, ndr) era in programma una marcia su Temara (periferia di Rabat), lanciata dal movimento per denunciare i crimini commessi dalla polizia politica e chiedere la chiusura immediata della “Guantanamo marocchina”. Ma le poche centinaia di manifestanti, radunatesi nei sobborghi della capitale, non hanno avuto nemmeno il tempo di srotolare gli striscioni. L’azione è stata immediata: pestaggi, inseguimenti, arresti, insulti e minacce. Di nuovo violenza, gratuita e brutale. Il primo bilancio diffuso dall’AFP parla di dieci feriti gravi ricoverati in ospedale (per il ventenne Oussama Elkhalfi forse una frattura cranica) tuttavia, secondo le testimonianze dei presenti, il numero dei contusi (tra cui alcuni giornalisti) sarebbe molto più elevato (incerto quello degli attivisti prelevati dalla Securité Nationale).

L'intervento della polizia a Temara, 15 maggio 2011 (foto: Abdelhak Senna)

Le ombre su Marrakech sembrano dunque infittirsi, mentre le “ipotesi complottiste” abbandonano il terreno della fantasia e dell’illazione. Gli abusi e le aggressioni perpetrate negli ultimi giorni ai danni del Marocco democratico hanno poco a che vedere con Al Qaida e le reti del terrorismo internazionale. Il tempismo dimostrato dal makhzen nella repressione delle contestazioni non lascia spazio all’ingenuità. Dopo l’esplosione al café Argana, almeno una certezza: il regime marocchino ha finalmente gettato la maschera, indossata a fatica dopo il discorso del 9 marzo, ed oggi può degnamente specchiarsi nel volto ridotto a sangue ed ematomi del giovane Oussama Elkhalfi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Marrakech 2011: non si capisce se accusate il governo (e i francesi, in questo caso) solo di aver svolto male le indagini, se lo accusate di approfittarsi di quanto successo per repressione, propaganda e altri scopi, o se lo accusate proprio di aver messo la bomba. Non è un dettaglio.